I racconti sull’arte di Leonardo Sciascia – di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

LE SUGGESTIONI PARALLELE DI LEONARDO SCIASCIA

DI SALVATORE PAOLO GARUFI TANTERI

La scrittura per suggestioni parallele di Leonardo Sciascia potrebbe assumersi come esempio di rovesciamento delle correnti posizioni critiche. Al suo riguardo, infatti, sarà difficile per ogni ipotetico futuro storico della letteratura cavarsela in poche righe. O troppo facile, se voglionsi prendere per buone le approssimazioni fuorvianti, tipo “scrittore illuminista”, che riempirono i giornali all’indomani della sua morte.

Degna, fra le poche, poiché ben costruita, l’approssimazione di Giuseppe Pontiggia: “La differenza da Pirandello è che non accetta l’ineluttabilità della condizione umana, ma ne ricerca le premesse, e una possibilità di riscatto, nella storia.”

Resta, illuministicamente, scrittore dell’investigazione, Leonardo Sciascia, fondamentalmente ottimista sulle possibilità di conoscenza, e perciò di miglioramento sociale, pur con:

“Una prospettiva visionaria, che si fonde con le altre imprimendovi il suo suggello”(1).

Ora, volendo indagare fuori dagli usati sentieri, ci si può riferire ad uno Sciascia inespolorato, minore senz’altro, ma pure immediato e meglio decodificabile, scrittore, si direbbe con Renato Barilli, di “quel genere affatto particolare nel settore delle arti visive che è la presentazione in catalogo, ove il critico assume la veste retorica del patrocinatore, dell’avvocato di difesa”(2).

Una cosa pare subito evidente. Sciascia, da maestro, patrocina in via indiretta. Fluisce, il più delle volte, un discorrere parallelo, magari lontano nel tempo e nello spazio, pieno di rapide, di insenature, di calmi slargarsi.

Ne è già pieno esempio il saggio Santo Marino, uscito nel 1963, per le Edizioni Salvatore Sciascia, sessantesimo dei quaderni di “Galleria”, di quel genere, se non il primo, uno dei primi.

La partenza è bella. Intrigante, si direbbe oggi. Il rapporto fra uno scrittore ed un artista, quello fra Manzoni e Gonin, per esempio, scrive Sciascia, ha misteri che vanno ben oltre le scontate gerarchie (che vedrebbero il secondo quale illustratore del primo). Trattasi, forse, di affinità dei modelli di vita, o, forse, diciamo noi, di plutarchiani parallelismi.

La categoria della solitudine, sul filo delle su esposte considerazioni, potrebbe, quindi, essere una chiave per capire la scrittura del Verga e la pittura del Marino (che del Verga sarebbe ottimo illustratore). E, quindi, per arrivare alla definizione di una situazione dell’essere tipica della Sicilia, cioè di quel concetto che potremmo chiamare sicilitudine (come in effetti in altra sedelo chiamò Sciascia stesso).

A Militello, poi, il paese del pittore Marino, vi è una delle più alte raffigurazioni della solitudine, il Ritratto di Piero Speciale di Francesco Laurana (anche se va detto che l’opera a cui si riferiva Sciascia da altri è stata attribuita a Domenico Gaggini). Solitudine ed anelito all’impegno nel sociale, dualismo di gran parte della cultura siciliana (e contadina, si dovrebbe aggiungere. Si pensi a Pavese, al suo titanismo chiuso, al suo ingenuo alfierismo neo-realista).

Il saggio non contiene una sola notazione tecnica, non sulle caratteristiche della pittura, non sul contesto figurativo (o, meglio, questo compare genericamente, si direbbe qualunquisticamente). E’, nella sostanza, un’opera molto sciasciana. A prima vista, un’indagine, un ricercare fra le pieghe stavolta non della storia, ma di una rappresentazione artistica. Più giusto parrebbe, però, definirlo una suggestione parallela.

Sciascia, qui e nel resto della sua opera, non esplica una vera e propria queste, una medioevalistica ricerca del senso delle cose. Segue un filo capriccioso, dagli accostamenti barocchi. I fatti diventano un giuoco pirandelliano, o borgesiano, di specchi multipli, in cui moltiplicare se stesso. Non c’è il culto illuminista della ragione, ma la furbizia di una personalissima poetica.

Lo conferma uno scritto successivo, dal carattere più scopertamente da critico d’arte; anzi, da talent scout dell’arte. E’ la presentazione in catalogo di un allora giovane pittore, Giuseppe Tuccio, notevole pei suoi lirici ritratti di bambini. E’ datato 20-2/5-3 1966, per le edizioni della Galleria di Vito Cavallotto di Caltanissetta.

Sebbene Sciascia si sbilanci in un giudizio netto – “il suo è un autentico e grande talento” -, il pezzo resta un perfetto esempio di letterarietà. Lo scrittore, del suo incontro con Tuccio, fa un bellissimo apologo della “carenza e fortuità degli incontri culturali in Sicilia”. Il che sarebbe un altro modo di definire la categoria della solitudine.

Successivamente, Sciascia ripresenta Tuccio alla Galleria d’arte “La Tavolazza” di Palermo e ne trae il ritratto di un siciliano taciturno (di solito, i migliori, sosterrà in La scomparsa di Majorana). Forse, trattasi dell’indagine di un’anima, forse, più semplicemente, della costruzione di un modello letterario.

Nel 1970 lo scrittore pubblica Maccari alla “Tavolozza” per le edizioni della galleria. Sarebbe meglio dire che ne riscrive il mondo, accostando ricordi d’infanzia, suggestioni letterarie (Dos Passos, i Goncourt, Bayle), La vedova allegra di Lehar ed i quadri di Lautrec. Egli, ancora una volta, con gli accostamenti più liberi, che si direbbero geniali spunti di recherche, non fa altro che seguire una strada che con la pittura del Maccari non si incontra, anche se le corre accanto. Non è, ciò, una diminuzione della validità, ma una ricollocazione dello scritto nella letterarietà. Al fondo, come in tutta la sua restante opera, non c’è la discesa dell’analisi, c’è l’elevarsi della creazione.

Un anno dopo, per la I.R.E.S. di Palermo Sciascia scrive La semplificazione delle forme, presentazione del pittore Renato Guttuso. Ancora, per spiegare un’arte di così particolare tecnica, come la pittura, viene individuato un letterarissimo concetto unificante, la crisi.

“La pittura di Guttuso (…) è tutta nell’ossessiva premonizione o presenze di mostri” conchiude il Nostro, dopo il solito farfalleggiante sovrapporsi di letture disparate e di concetti originali.

Uno particolarmente pregnante:

“Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi movimenti della letteratura, dell’arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia.”

Innegabilmente, Sciascia, con questi lampeggiamenti, che sono l’esatto contrario di una deduzione logica, par che sia riuscito a centrare il suo argomento meglio dei troppi collezionisti di francobolli travestiti da critici d’arte, che infestano le patrie accademie.

Ma, in questa sede importa notare, soprattutto, la libertà (anzi, la geniale arbitrarietà) delle costruzioni di argomenti dello scrittore. Il che ci permette di collocarlo in quella coda del decadentismo, che, da Pirandello a Borges, attraversa il nostro secolo. I tempi non sono eroici, l’omologazione impera. L’artista non è più il cantore di un sentire collettivo (eppure, Guttuso, programmaticamente, voleva esserlo).

Resta soltanto la denuncia, la crisi, il sentimento speculare a quello di Sciascia. O, un’insoddisfatta nostalgia.

Per esempio, per il lussureggiante fiorire di vita, sapori e colori nel quadro La Vucciria dello stesso Guttuso(3). Dove, però, vi è una malinconica coscienza dell’idea di morte insista nel materialismo siciliano, che riporta alle migliori pagine di Feste religiose in Sicilia.

Nel 1971, per le Edizioni “Il Gigno” di Roma, esce il saggio Emilio Greco. E’ tutto risolto in chiave brancatiana. La donna è madre e frutto del sogno dei siciliani, è un perfetto e finito universo creativo. Greco richiama i personaggi di Brancati, che ricreano nell’aria accensioni di eros. Quindi, dallo scultore si arriva alla rappresentazione corale d’un mondo unidimensionale, come lo pensa e lo crea l’io dello scrittore.

E, finalmente, ultimo della serie qui presa in considerazione, nel 1972, edito da La Nuova Pesa di Roma, c’è una presentazione in catalogo di Bruno Caruso, dove la minuziosità antonelliana del disegno dell’artista è per Sciascia motivo d’enigma, “inverno di cose ed eventi che si specchiano”.

Ritorna il gusto borgesiano del deragliamento; anzi, quello sciasciano del mostrare l’altra faccia della storia. Quella storia che, dice in un’intervista apparsa sulla rivista catanese “Carte Siciliane”:

“Non è maestra di vita, come una volta si diceva. E’ assurda come la vita.”(4)

Dalla storia, dalla società – o, con la storia e con la società – Sciascia, infatti, si tira fuori. Contesta. Si batte, seppure rassegnato a perdere. E’ l’isolato ribelle decadente, nella nottata di questo secolo, tanto lunga da passare.

Note

  1. Giuseppe Pontiggia, in “Corriere della sera”, Milano, 21/11/89;
  2. Renato Barilli, Informale oggetto comportamento, Milano, Feltrinelli, vol. 1, p.5;
  3. Leonardo Sciascia, in “Sicilia”, n.76, Palermo, Flaccovio, 1975;
  4. “Carte siciliane”, n. 1, Catania, luglio-settembre 1985.