Joan Basté (Catalogna), “Katharina Von Raitenau”, romanzo ambientato a Licodia Eubea, in Sicilia (versione integrale)

Joan Basté, scrittore catalano, “Katharina Von Raitenau”

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La pubblicazione di questo romanzo di

Joan Basté

è stata patrocinata dal:

Comune di Licodia Eubea

in collaborazione con

Associazione ONLUS – A.L.B.A.C.A.S.

Titolo originale dell’opera:

Katharina von Raitenau

Traduzione dal catalano di

Mario Zucchitello

Elaborazione grafica della copertina di

Filippo Bozzali e Enza Di Martino

PREMESSA

Genesi di una pubblicazione

     Quando Joan Basté, già nel lontano 1994, mi scrisse di aver ultimato la sua ultima opera, il romanzo “Katharina von Reitenau”, con il suo italiano catalanizzato o catalano italianizzato, così si esprimeva: “Ho premura per mandare questa (lettera). Il mio romanzo, iniziato a Licodia Eubea, ha stato finito una settimana fa. Ancora sono commosso e non è facile per me opinare. Ma una cosa è veramente certa: la Sicilia sorge como un piccolo paradiso nella drammaticità congiunta della narrazione, in mezzo di una Europa (e anche una Italia) convulsa per la prossimità della guerra. Ma no una Sicilia romanzesca e falsa, sino una Sicilia – io lo aspetto – certa, con il suo splendor e la sua tragedia. Mezzo romanzo trascorre a Licodia Eubea nell’estate de 1938. E il protagonista (un inglese) s’alloggia a Via Mugnos. Si parla d’Agrigento, de Piazza Armerina, de Caltagirone… Quanti ricordi!”.

     Come si può facilmente intuire, era sottinteso nelle sue parole un segreto desiderio, che il suo lavoro, che da lì a breve sarebbe stato pubblicato in catalano, potesse essere tradotto e pubblicato anche nella nostra lingua. Questo divenne subito anche un mio grande desiderio e fui contento di proporre a Joan l’idea di una traduzione del romanzo e di una sua pubblicazione in Italia. Non sempre però un’idea, per quanto semplice, può diventare realtà. Scrissi a Joan che bisognava innanzitutto trovare un traduttore. Di questo si occupò subito lui stesso. Un suo amico italiano, il signor Mario Zucchitello, che vive a Tossa de mar (Catalogna), studioso di storia, si rese volentieri disponibile a tradurre il romanzo. Nel giro di un anno circa il lavoro fu portato a termine e, dopo essermi pervenuta una copia dell’opera in edizione originale da parte di Joan, mi giunse il dattiloscritto della traduzione da parte del signor Zucchitello. Tutto fin qui filava nel migliore dei modi ed intanto cresceva in Joan e si amplificava in me la bella prospettiva di veder realizzato il nostro desiderio. Me ingenuo! Neanche immaginavo che  di fronte ad una così bella e importante iniziativa culturale si potessero frapporre tante difficoltà. In circa 15 anni, da allora, ho provato a proporre la pubblicazione dell’opera a tre o quattro editori. Tutti, da buoni ragionieri, calcolatori di entrate ed uscite finanziarie, pur apprezzando il valore letterario dell’opera, hanno voluto che qualche ente pubblico si facesse promotore dell’iniziativa finanziando la pubblicazione con l’acquisto preventivo di un certo numero di copie. Questa, a quanto pare, è la strategia adottata dalla stragrande maggioranza delle case editrici, specialmente nei confronti di autori sconosciuti al grande pubblico. Bene! E’ nel loro statuto di aziende economiche pensare ed agire in questi termini. Si trattava quindi di trovare un’istituzione pubblica disposta a promuovere l’iniziativa. Ho pensato subito che la più diretta interessata ad una simile operazione potesse essere l’amministrazione comunale. Mi sono rivolto a quella di allora e a tutte le altre che si sono succedute nel tempo, tranne l’ultima, ma invano. Ho provato con un paio di comuni vicini, tra l’altro direttamente interessati perché anche di essi si parla nel romanzo, ma invano. Ho provato con il Coordinamento dei Comuni del Calatino nella persona del poeta Salvo Basso, allora Assessore alla Cultura del Comune di Scordia. Quest’ultimo, com’era nel suo stile, si dimostrò entusiasta della cosa, ma disgraziatamente Salvo è morto da lì a poco.

     Non ho voluto durante tutto questo tempo rassegnarmi all’idea di dover rinunciare  alla pubblicazione. Era un impegno che avevo preso con Joan, che intanto, prematuramente e in maniera inaspettata, ci ha lasciati nel 1997.      L’evento tragico della sua morte non poteva certo interrompere i miei tentativi di portare avanti il nostro comune sogno. Ho mantenuto i contatti con la consorte di Joan, la signora Rosalinda Manning, e l’originario impegno che mi ero assunto con Joan l’ho mantenuto con Rosalinda. In ogni caso, tutti i tentativi esperiti per realizzare la pubblicazione del romanzo sono andati a vuoto.

     Pochi anni fa, invece, ho avuto il piacere di parlare di Joan e della sua produzione letteraria con il prof. Salvatore Paolo Garufi. Gli diedi il romanzo in lettura e, ricordo, mi manifestò un chiaro apprezzamento dell’opera, così come, qualche tempo prima, aveva fatto il compianto prof. Umberto Amore che si era preso l’impegno di recensirlo nella rivista “Prospettive”, con la quale collaborava. Questo suo intervento critico costituisce l’introduzione alla presente edizione di “Katharina von Reitenau”.

     La pubblicazione del romanzo è arrivata quindi in maniera del tutto inaspettata e non richiesta ed è dovuta all’interesse e alla lungimiranza del prof. Garufi, che intanto è diventato editore. Questi, certamente memore dell’opera, qualche tempo fa mi ha comunicato la sua disponibilità a pubblicare il romanzo.         A lui e a tutti quelli che hanno creduto nell’importanza dell’iniziativa desideriamo esprimere i nostri più sinceri ringraziamenti. Ci riferiamo, in particolare, al signor Mario Zucchitello, che ha curato la traduzione del romanzo; al prof. Umberto Amore, che lo ha recensito; al prof. Natale Caruso, che ha tradotto la nota biografica; al poeta  Salvo Basso che, pur credendo nella validità dell’operazione, non ha potuto portarla a termine a causa della sua prematura dipartita; all’amministrazione del Comune di Licodia Eubea nella persona del suo Sindaco, Dott. Nunzio Li Rosi; all’associazione culturale ALBACAS, che ha voluto promuovere la presentazione del romanzo; e, non ultima, alla signora Rosalinda Manning che, da lontano, in tutti questi anni ha seguito con trepidazione il travagliato percorso che ha portato a questa pubblicazione.

Salvatore  Barone

INTRODUZIONE

   Si trova nelle vetrine delle principali librerie spagnole l’ultimo romanzo di Joan Basté, scritto alcuni anni prima della sua morte, a Mas El Solanot tra il 1993 e il 1994.

   Joan Basté , nato a Barcellona, ha scritto indistintamente sia in catalano che in castigliasno. Tra le sue opere più conosciute; Il Vangelo secondo Joan Basté; Le avventure di Guglielmo Tell. Alcune sue opere teatrali sono state ridotte per il cinema. Vari riconoscimenti gli sono arrivati sia dalla Reale società Economica di Madrid che dal Centro Cattolico d’Ola.

   Il suo ultimo romanzo, Katarina von Raitenau, scritto in catalano ,narra la storia di un uomo gravemente ammalato di cancro, ormai in fin di vita, che, sul filo della memoria, ritorna alla stagione più bella della sua vita.

   Essa si snoda, dall’aprile all’ottobre del 1937, nell’alveo di un amore intenso e profondo, nato in una Sicilia primordiale e felice, nonostante la povertà e le angherie fasciste in corso.

Bernard è un giovane che, laureandosi all’Università di Cambridge, in possesso di una borsa di studio, viene in Sicilia per conoscere l’impatto del fascismo in una delle zone di tradizionali miseria, con l’esodo costante verso gli Stati Uniti e l’influenza che questo fatto ha nella strutturazione della mafia. Nell’isola ritrova una giovane archeologa viennese, Katarina von Raitenau, già conosciuta a Firenze, mentre egli preparava, con l’aiuto di un medico siciliano, il suo soggiorno nella nostra terra. Anch’ella si reca in Sicilia, per motivi dio studio, destinata agli scavi della villa romana di Piazza Armerina.

   I due stringono una calorosa amicizia, che gradatamente si trasforma in amore, mentre alla mente del giovane ricercatore inglese si va chiarendo quando aberrante sia quel regime che dall’Inghilterra gli era sembrato una buona terza via tra il socialismo sovversivo e il liberalismo conservatore. L’amore tra i due sboccia a Selinunde, davanti ad un mare cristallino, all’ombra dell’acropoli più grandiosa del mondo. Si cementerà a Licodia EUBEA, dove Katarina si trasferisce, accanto a Bernard, alla ricerca delle vestigia dell’antica Eubea. E qui, mentre lavora per collegare la storia del piccolo paese alla civiltà omerica, vive intensamente la gioia di amare e di sentirsi amata.

   Ma è a Caltagirone che crollano le illusioni filo-fasciste di Bernard. In un accorato dialogo con il direttore della locale Cassa rurale di S. Giacomo (Silvio Milazzo?), un tempo roccaforte del popolarismo sturziano, egli si rende conto del clima che serpeggia nell’isola, dove la lotta clandestina degli antifascisti contro un regime sospettoso di ogni forma di libera aggregazione, dà fiato ad una mafia che costruisce il suo potere per combattere o lenire gli errori dello stato.

Bernard è testimone a Caltagirone dell’arresto di un antifascista ( molto probabilmente si tratta di Giambattista Fanales che poi diverrà deputato comunista) condannato per “ sovversivismo”  e tradotto nelle carceri di Lipari, dove lo stesso Bernard finirà per aver denunciato sul “ Sunday” il grave abuso.

   Intanto sull’Europa incombe la presenza del mostro della guerra. I due giovani devono tornare ai rispettivi paesi con la tristezza nel cuore; sentono che quella “ felicità ” nonostante la vicendevole promessa di ritrovarsi per coronare con  il matrimonio il sogno d’amore, è perduta per sempre. E, mentre sul marciapiede della stazione  Termini di Roma, si salutano, Bernard ricorda quanto scrisse Lawrence della Sicilia: “ Ha concesso a tutti il momento della massima ispirazione, e poi ne ha distrutto l’anima” .

   L’inglese vuole entrare alla camera dei Comuni, ma i sui proclami elettorali non ricevono sufficienti consensi da parte dei connazionali; Katarina, in una Vienna aggredita dal nazismo, sembra divenuta di colpo vecchia. “ Avevano vent’anni e non sapevano parlare d’amore. Il mondo li rendeva prematuramente vecchi e stanchi, come se le circostanze esterne avessero più potere, più forza della loro ricchezza interiore ”.

   Come quelli che hanno passato le vacanze estive felici e quando tornano alla quotidianità scoprono l’opacità della vita rutinaria e contemplano il passato come fosse un sogno irripetibile, cosi vivono i due giovani e, senza dirselo, provano nostalgia per un paradiso che sentono irreparabilmente perduto e dolore per la situazione presente. Bisognava credere in un domani di tranquillità, in un giorno in cui si Sarebbero potuti riunire di nuovo: lui studioso di storia contemporanea, lei ,senza più l’incubo della paura per una sua lontana ascendenza semitica, a riscoprire nelle civiltà antiche i valori imperituri della vita. Assieme avrebbero formato una famiglia: erano giovani e il futuro doveva loro appartenere. Ma come era difficile in quell’epoca di odi tremendi e di sospetti vicendevoli  pensare al futuro!

   Spaventosa è la guerra, ma non solo perché distrugge case, ponti, ospedali e scuole, ma soprattutto perché rovina la vita degli uomini, in balia di crudeltà inaudite e di eventi dolorosissimi.

   Katarina assieme alla sua famiglia viene deportata in un lager tedesco; non si hanno più notizie di lei. Bernard, profondamente prostrato, decide di arruolarsi nella polizia coloniale britannica ed è destinato nell’isola di Ceylon. E qui, cedendo più all’istinto sessuale che all’amore, sposa Vera, figlia di un ricco colono inglese.

   Sarà Kathleen, la figlia di Bernard, alla quale il padre ha voluto dare il nome della donna che ha amato in Sicilia, che rintraccerà l’altra parte della storia, con l’aiuto delle carte lasciate dal padre, ma soprattutto attraverso la testimonianza di un parente di Katarina che vive a Vienna. La giovane archeologa austriaca, dopo la fine della guerra aveva tentato di rintracciare Bernard a Ceylon, ma la sua lettera era stata rimandata al mittente con la stampigliatura di “ scomparso” . Nonostante ciò, non si era data per vinta e , fiduciosa nel ritorno del suo Ber, era andata ad attenderlo a Licodia Eubea. Ed è qui che, melanconicamente, all’età di sessantacinque anni , quando ogni illusione svanisce, si spegne.

   Ritorna il mito del paradiso perduto in una Sicilia che, tra i monti Iblei e i monti Erei, ha avuto sempre una storia poetica. La vicenda di Bernard e Katarina, sembra una fiaba, ma potrebbe avere un preciso senso biblico se riuscissimo a vedere nei due protagonisti, cristallizzati nel tempo, il primo uomo e la sua donna, costretti dall’odio, a lasciare il paradiso delle delizie. Anche l’uomo, superate le remote ideologie che perbenistiche del suo ceto, decide di andare alla ricerca dell’antico amore; glielo impedisce la morte che lo coglie nell’attesa di partire, nella sala d’attesa dell’aeroporto  di Londra.

Umberto Amore

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..dei miei giorni d’errori e conoscenze,

      un sol giorno ho salvato: quello che mi salvava.

Carles Riba

“Elegies de Bierville” –VII

DEDICA

   Dicono che gli autori amino ogni loro libro come i genitori amano i propri figli. E probabilmente è vero, ma ciò non impedisce di vedere se un bambino è basso o ha il naso piccolo, mentre un altro è sano e ben fatto.

   Ebbene, il romanzo che ora presento è, secondo me, il libro più riuscito tra quanti io abbia mai scritto. È anche il primo che oso dedicare a mia moglie Rosalinda, anima e ispiratrice di quel che leggerete.

    A lei, con tutto il mio amore.

Joan Basté

Katharina von Raitenau

romanzo

I

   Si palpò l’addome, con cautela. Neppure l’ombra del dolore. Dabasso, la moglie lavoricchiava. Gli arrivò, di colpo, dalla tromba delle scale, l’odore delle fette di pane tostato e del bacon che si stava rosolando. Aveva appetito: buon segno.    

   Era incerto se andare o meno al bagno. Sapeva che il suo era un atteggiamento vile. Era stato sempre vile di fronte alla prova del fuoco o di fronte a un dubbio. Gli pareva che se avesse ignorato il male, lo avrebbe, in un certo qual modo, eliminato. Molto spesso quel che ci spaventa di più è conoscere la realtà.

   Tutto ebbe inizio con quella stipsi pertinace. “Non sarà nulla,” fu la risposta immediata “un giorno o due!”.

   Come nei bambini: troppi dolci, poca verdura, o altro… Ma due settimane…, eppoi quel dolore sordo alla bocca dello stomaco.

   Alla fine si decise: meglio non pensarci, rifugiarsi nella lettura d’una rivista banale, sedersi sulla tazza, e non pensare a nulla. Se non si fosse trattato del suo corpo e della sua sofferenza, se la paura non fosse stata la sua, sarebbe stato miserevolmente ridicolo ritenere che un uomo che aveva studiato a Cambridge, ottenendo voti eccellenti in ogni materia, e in possesso della D.S.O., vivesse ossessionato da un fatto così volgare, abitudinario, abietto e tabù quale è l’andare di corpo.

   È possibile che la rivista, con le sue notizie, l’avesse distratto e aiutato. Questione di nervi, dopotutto. Sarebbe andato dal medico quella stessa mattina; avrebbe percorso le miglia che lo separavano da St. Albans, ma sì ci sarebbe andato. E gli avrebbe detto: “Tutto sommato, solo nervi”. Non sentiva più dolore e aveva scaricato nelle fogne il suo pacchetto di umane servitù, la sua miserabile razione di escrementi.

   Si pulì, quasi felice. Scese in cucina. Adesso, che i figli non vivevano più con loro, facevano colazione in cucina.

   -Come va? Come ti senti?

   -Bene. Tutto sommato si è trattato di un assurdo allarme.

   -Hai appetito?

   -Sì.

   E lei mise in tavola le fette di pane tostato, le uova, il bacon, il burro, la minuscola saliera d’argento, l’acqua minerale.

   Mangiarono in silenzio. Da anni mangiavano in silenzio. Da anni invecchiavano in silenzio, tranne in occasioni come questa in cui una malattia inattesa alterava la routine giornaliera del vivere in comune. Perché la vita in comune era ridotta a questo: amministrare la casa in modo corretto (lei aveva il proprio conto in banca), vedere la televisione, ricevere ogni tanto qualche vicino, riunirsi con i figli. Null’altro. Non leggevano libri che potessero interessare entrambi, né progettavano viaggi da godersi insieme. Erano anni che la più assorbente routine s’era ormai impadronita della casa. E nessuno dei due si preoccupava di spodestarla. Il silenzio, la ripetizione degli stessi gesti, l’assenza di parole che ormai non avevano più alcun significato, era il modo migliore per mantenere in piedi il matrimonio sino alla fine.           

   All’improvviso, però, era subentrata la paura. E con la paura, l’odio. L’idea di una morte più o meno immediata lo tormentava. Odiava la moglie per il solo fatto che gli sarebbe sopravvissuta, come se in ciò vi fosse una immensa ingiustizia. Ed era quella  stessa paura che l’induceva a guardare al passato, a inventariarlo, a farne il bilancio. Era ormai troppo tardi per rettificare il corso della propria infima esistenza. Sarebbe morto in un abbandono assoluto, senza alcun trofeo, perché aveva sempre tralasciato di fare ciò che avrebbe dato pienezza alla sua vita per costruire il castello della propria mediocrità.

   Anche se la cosa non aveva senso, non poteva fare a meno di pensare che quel dolorino l’avrebbe ucciso. Non subito, certo, ma col tempo. E si prospettava il quadro clinico: le difficoltà sarebbero aumentate fino all’occlusione acuta, all’infezione di qualche tratto dell’intestino e, conseguenza inevitabile, la peritonite.         

   Tutto a un tratto, gli venne in mente ciò che accadde, una volta, nella foresta, quando un suo collega si perforò il peritoneo e lo dovettero portare con la jeep all’ospedale più vicino, mentre il moribondo vomitava escrementi, ammorbando il veicolo d’un lezzo asfissiante.   

   -Vuoi della marmellata?

   -Cosa ha detto il medico?

   -Che puoi mangiare di tutto.

   Il tostapane era lì, di fronte all’efficente moglie, che inseriva le fette nelle fessure, una dopo l’altra, fino a quando queste non fossero state espulse spontaneamente, una volta raggiunto il preordinato colore dorato.

   Durante la colazione non usavano tovaglioli, li avevano sostituiti con quelli di carta che finivano direttamente nella spazzatura. Non si serviva né tè, né caffè, ma solo acqua. Tutto era previsto e calcolato. Il tè al pomeriggio, il succo d’arancia i giovedì mattina e i giorni di festa, vino per Natale e Capodanno, birra quando c’erano invitati maschi, il porto o il jerez mezz’ora prima della cena. Sidro, mai. Il sidro, per qualche motivo misterioso, era considerato bevanda da plebei.

    Con la stessa sicurezza di chi non deve ripensarci più, lei era convinta  che avessero ragione i conservatori: sapeva a quale chiesa bisognava appartenere, quale Santo adorare e quale no. Il mondo avanzava sui binari precisi del “Daily Telegraph”, e il suo posto era quello assegnatole dal pastore della propria parrocchia e non dal pastore della parrocchia della vicina contea, poiché, -non si sa mai!- avrebbe potuto trattarsi di uno di quei giovani liberali, desiderosi d’abbadonare il “Common Prayer Book”. Leggeva le notizie della sua comunità spirituale -collette, matrimoni, morti- con la stessa dotta educazione con la quale leggeva le quotazioni di borsa e parlava con il chierico, come se parlasse con il suo agente di borsa. Non faceva molta differenza tra salvare la fortuna e salvare l’anima.

   -Esco.

   Non era stata una fitta, doveva essere stato, ne era sicuro, un movimento sbagliato.        

   Lei era intenta a mettere i piatti nel lavello. 

   -Dove vuoi andare?

   Preferì non parlare della fitta, né dire che sarebbe andato a St. Albans. Gli pareva che se non avesse dato tanta importanza alla malattia, questa avrebbe finito per accettarlo, e si sarebbe arresa.

   -Sto bene. Desidero uscire e distrarmi un poco. Sono troppi giorni che non mi muovo da casa.

    -Oggi è il giorno in cui viene Kathleen, ricordatene.

   Come avrebbe potuto dimenticarlo? Perfino il rapporto con sua figlia si era trasformato in una routine tra le altre, quella del venerdì pomeriggio. Lei, una volta uscita dall’ufficio di Londra, andava a cena dai genitori: e, una settimana dietro l’altra, portava nella casa di Great Missenden il peso amaro della sua condizione di zitella.

   -Certo che me ne ricordo!

  Come sempre, si sforzò di non mostrare la sua intima irritazione. Anche lui ricordava le cose, anche lui poteva essere efficiente, anche lui sapeva stare in società senza giocare, a ogni piè sospinto, il ruolo della vittima.

   -Tanto non viene che stasera, e non penso di pernottare fuori.

   Tra una frase e l’altra c’era stata una brevissima pausa, più che sufficiente, però, a farlo cadere nell’errore d’espremersi in quel tono, il tono dell’impazienza. Era stufo di Vera e della sua apparente perfezione, della sua costante esibizione d’efficienza. Ma se si irritava era peggio, era come darle dei buoni motivi per farla sentire sempre più virtuosa, e meno compresa.

   -Un giorno o l’altro dovrò tornare all’ospedale- disse.

   -Il medico mi telefonerà quando avrà i risultati.    

   -Li dovrebbe già avere. Sono già trascorsi vari giorni dalla visita.

   Era degradante. Degradante e triste. Dedichiamo una parte importante della nostra vita a credere d’essere creature privilegiate, quasi angeli asessuati, appena schiavi della materia. Finché arriva il momento in cui un signore, vestito di bianco, con aria impersonale, vi dice macchinalmente: “Si spogli!” E devi mostrare la tua nudità indifesa, i tuoi testicoli caduti dentro una borsa, che è ormai tutta rughe, e il sesso flaccido, e devi dimenticare che, in altri tempi, furono frutti desiderati di qualche adolescente che te li guardava, mentre ti libravi nel salto che ti avrebbe consacrato campione di Cambridge. E ora, puntellato contro una tavola e con le cosce serrate, quel laureato in medicina ti fruga l’ano con il suo dito inguantato di plastica.

   -Si sdrai!

   E ti spalma la pomata su tutto il ventre, sul lato del fegato e sullo sterno. Ma tu non sai se si tratta dell’ileo o del cieco o del colon o della prostata. Ti frega quella specie di pennarello enorme sul ventre e lo muove da una parte all’altra per ottenere -dice- una ecografia.

   -Dove pensi di andare?

   -Non lo so,- mentì -tirerò fuori la macchina. Non ne hai bisogno, vero?

   -Kathleen viene a cena, ma ho già comprato tutto.

   -E a dormire, suppongo.

   -La camera è già pronta.

   A Singapore, aveva avuto un tenero letto da adolescente; qui, a Great Missenden, il suo era un letto difficile, da nubile, e le pareti erano lisce, impersonali. A Ceylon, quando venne al mondo, le arredarono la camera con un’ingenua carta da parati che imitava un bosco di fate, con alberi irreali, scoiattoli che facevano capolino tra i rami, e funghi giganti che fungevano da casette per gli gnomi.

   Per quale ragione Kathleen non può essere felice? O è forse il suo nome che è una maledizione? Ha più di quarant’anni. Non la si può sgridare come quando era bambina. Ora contesta ogni cosa, come se provasse piacere a contrariare sempre sua madre. Non le avrebbe dovuto mai mettere quel nome. Vivere una seconda gioventù, nella gioventù della figlia, era pretendere l’impossibile.

   Verrà a cenare e, nel migliore dei casi, guarderanno assieme quello stupido programma del venerdì. Altrimenti, ognuno si rifugerà nel proprio passatempo preferito: un libro, le parole crociate, un ripasso alle fatture o alle nuove ricette di cucina ritagliate dal supplemento domenicale. Ma se le cose fossero andate male, lui avrabbe dovuto essere il testimone silenzioso e inoperante di quella lotta sorda tra madre e figlia, di quella rivalità che era iniziata già prima che la ragazza fosse stata concepita.

   Passò dalla cucina all’autorimessa. Schiacciò un bottone, e la porta basculante si aprì automaticamente. Mentre saliva la rampa soave che moriva sulla strada, vide, attraverso la finestra della cucina, il volto di sua moglie che lo guardava con una leggera angoscia negli occhi. Fu sul punto di fare un gesto di commiato, un sorriso rassicurante. E forse l’avrebbe fatto, malgrado gli anni trascorsi dal momento in cui, in modo tacito, avevano deciso di rinunciare alle manifestazioni di tenerezza e alle effusioni della carne. Il sesso era divenuto una incomoda e, a volte, frustrante fatica. La delicatezza dei baci pareva inadeguata in quell’ambiente di quotazioni di borsa, ricette culinarie e orazioni dette per abitudine. Ma forse l’avrebbe fatto, quando un’inopportuna fitta addominale gli sconvolse nuovamente l’equilibrio.

   Solo una fitta. Se si fosse conficcato un ago da sacchi nella palma della mano, mille volte più doloroso, non si sarebbe affatto preoccupato. Non era il dolore che si rendeva insopportabile, ma il pensiero. Il pensiero che sotto quella massa di pelle e grasso, di carne invecchiata e muscoli flaccidi, un enigma continuava a lavorare.

   Tutto era incominciato circa un mese prima con quella stipsi curata, all’inizio, come un disturbo che si poteva anche risolvere con una normale terapia casalinga, che si mostrò, però, del tutto inefficace. Non aveva mai avuto difficoltà ad andare di corpo. Si era infatti sempre vantato d’avere un orologio al posto dell’intestino. Si vide dapprima obbligato ad alterare il ritmo: dalla servitù giornaliera passò a un intervallo di due giorni, poi di tre giorni, con qualche miglioramento transitorio. Finché non gli fu più possibile rinviare la visita medica.          

   Il medico del paesino – nonostante il nome, Great Missenden era un borgo minuscolo- serviva quasi unicamente per compilare i documenti con i quali i pazienti potevano recarsi all’ospedale di St. Albans. E fu prprio il medico dell’ospedale che incominciò ad allarmarlo. Non con le parole -malgrado la scontrosità, cercò di fargli capire che sarebbe andato tutto bene-, ma con i fatti. Troppe velocità di sedimentazione, troppi prelievi di sangue e di orina, troppe transaminasi, radiografie ed ecografie per una volgare stipsi.

   Vera volle accompagnarlo a tutte le visite. “Se ti dovessi mettere a dieta, mi sembra giusto che io parli con il medico”. Aveva ragione. Ogni qualvolta usciva dall’ambulatorio la scrutava, come se dall’espressione dei suoi occhi, da un rictus impercettibile della bocca potesse scoprire se tra lei e il dottore c’era stato un dialogo segreto, mentre lui nella stanza accanto era intento a rivestirsi. Ma non c’erano diete né segreti, a meno che Vera mantenesse, anche in tali circostanze, quella maschera d’impassibilità che riteneva una delle migliori dimostrazioni di comportamento sociale. La sua massima virtù, infatti, non consisteva nel provare questa o quella emozione, ma nel non dimostrarne alcuna.

   Kathleen ea più trasparente. O lo era stata anni prima, quando tutti e due erano ancora capaci di giocare  nel grande giardino -non a Singapore, allorché lei aveva circa otto anni, ma nell’attuale, e lei ne aveva già compiuti venticinque-. Kathelen lo spronava sui fianchi, mentre lui faceva il cavalluccio, e Vera  si scandalizzava. Per sua moglie era immorale che una figlia, con tutte le forme di una donna, potesse assumere simili posizioni, fosse anche solo per giocare con suo padre.    

   Ora, a quarantun anni, pur non possedendo la raffinata ipocrisia della madre, non se ne sarebbe nemmeno potuta lodare la sincerità, che non era costruttiva. Bisogna temere quelle persone che, amareggiate per la propria sventurata esistenza, non vogliono riconoscere che la felicità sia possible in questo mondo.  

  Quando lui si intestardì nel metterle quel nome, Kathleen, fu proprio perché, in un certo momento della vita, aveva creduto nella felicità. Il nome della figlia era un costante ricordo di quella trascorsa e svanita credulità. Kathleen – in tedesco, Katharina- era infatti il nome della donna che aveva amato, una ragazza austriaca che sembrava creata a bella posta per la gioia e per il pieno godimento della vita. La guerra era stata però la madre di tutte le frustrazioni, la disvelatrice di quanto di falso c’è nei grandi ideali che ubriacano la nostra adolescenza. Il nome della figlia avrebbe dovuto ricordargli il tempo in cui la felicità era stata possibile, ogni qual voltà la realtà gli avesse reso insopportabile il vivere quotidiano.     

   Ora non giocavano più a cavalluccio nel giardino, e la temuta inqopportabilità era arrivata. Era arrivata e gli aveva fatto scoprire che non era poi così insopportabile. In fin dei conti, l’importante era vivere. Non importa se con Vera, sempre più un’appendice fastidiosa e impossibile da estirpare, o con Kathleen, così remota da non essere neanche più l’eco della melodia perduta. Perfino con la stipsi, purché gli restassero ancora dei surrogati della pienezza del vivere, surrogati mediocri, la tavola, le parole crociate, la televisione.

   Kathleen non era più il barometro del suo clima spirituale. Troppi piccoli drammi, provocati spesso dalla madre, avevano minato le illusioni della ragazza. Vera, con una sapiente abilità distruttiva, aveva saputo allontanare dalla figlia ogni possibile amica intima e anche i pretendenti poco tenaci. Anche i trasferimenti erano serviti a distruggere ogni radice. Vera, con il silenzio e con i suoi ipocriti veli d’innocenza, dava sempre l’impressione di volere vendicare sulla figlia la felicità che non era mai riuscita ad ottenere. Le regole morali che applicava con la povera Kathleen sembravano ispirate dall’amore e dalle buone intenzioni, mentre invece -e forse in modo non del tutto consapevole- erano dettate dall’odio contro l’altra Katharina, quella -e lui ne era il colpevole- il cui fantasma si era già interposto tra i due sin dalla prima notte di matrimonio.        

   Paul, il figlio, era pessimo. Era stato il cocco di mamma per il solo fatto d’essere uomo, di non chiamarsi Kathleen e di portare il nome del padre di Vera. Era un poveraccio di trentacinque anni, sposato e padre di due bambini odiosi, lavoratore alterno, venditore oggi di automobili di seconda mano, incaricato domani delle relazioni pubbliche di una discoteca. Spesso oberato da debiti che i genitori dovevano pagare, era incline all’alcolismo.

   Era un sollievo sapere che non veniva quasi mai a trovarli. La sua presenza risultava insopportabile. Sempre con quell’aria da trionfatore! Arrivava con un mazzo di fiori per la madre, forse rubati nel giardino accanto, guidando una macchina di un qualche cliente. Portava con sé quelle pestilenziali creature, che distruggevano quanto capitava loro sotto tiro nel giardino, nel salone o in cucina, protetti dall’incredibile tolleranza della nonna.      

II

   Già da un po’ aveva lasciato Watford. I cartelli che indicavano i paesi erano altrettante evocazioni di esperienze di vite passate o recenti. Vicino a Luton v’era Dunstable, dove Paul aveva avuto la sua prima casa dopo le nozze, quando sembrava che un lavoro all’ufficio della contea sarebbe bastato a soddisfare  le sue aspirazioni. Un altro cartello indicava St. Albans, e St. Albans era il suo presente, forse sul punto di svanire. Più in là Cambridge, con l’Emmanuel College, dove aveva vissuto i migliori anni della sua adolescenza, preludio della grande fuga in Italia. Aveva l’impressione che tutte quelle discipline -studi, amicizie, discussioni, speranze e sacrifici- non fossero state altro che una preparazione alla vita che l’aspettava. E la vita era stata proprio questo: la Sicilia, accanto a Katharina von Raitenau, la ragazza viennese che si dedicava all’archeologia.

   Sì! Ma l’Europa era una polveriera sul punto di esplodere.   

   Ora, in piena pace, amara, s’avvicinava a St. Albans. La gioia effimera, vista in prospettiva, appare solo un sogno. Si dirigeva all’ospedale portando sulle spalle settant’anni stanchi, ricordi incerti e quella fitta che, di tanto in tanto, lo riportava all’ inevitabile presente.

   St. Albans non è neppure una grande città. Oggi, poiché la moda del turismo valorizza ogni cosa, basta che un paese possegga una torre normanna o una cattedrale gotica perché stampi migliaia di dépliant destinati a reclamizzare cose che, nel loro tempo, erano abituali come lo sono oggi i supermercati. E fa lo stesso se sono supermercati o chiese, ognuno cerca di vendere quello che ha. C’è una funzione  spirituale e una materiale. E deve curare gli affari sia colui che vende una poltrona di prima fila per la gloria eterna, sia colui che offre modesti panzarotti artigianali. Il banchiere mette marmi e ostenta ricchezza; il militare, mura difensive e garitte deterrenti; il medico, lucide nichelature e sensazioni di nettezza; l’attore, maschere e scenari; l’ artista, il disordine ordinato della bohème, che poi è letteratura già vista. C’è da meravigliarsi, quindi, se la casta dei sacerdoti utilizza il rito delle antiche forme orientali, con l’incenso, le vesti talari, i piviali e tutto l’arredamento propiziatorio? La fede antica doveva nutrirsi della lettura visiva delle immagini dei capitelli, delle pale e degli affreschi. Quando il popolo non sapeva leggere, lo scultore e il pittore erano i loro narratori. E ciò continua anche oggi, poiché vedere la televisione è molto più comune che leggere un libro. 

   Con questi pensieri giunse all’ospedale. In portineria consultarono la sua cartella clinica e gli assegnarono l’ora per la visita medica. Il Dr. Barrington era già arrivato, ma lui doveva attendere fino a mezzogiorno.  

   Fece un giretto in città. E come colui che con gli occhiali può distinguere nettamente le cose tra loro, pure se attaverso un inevitabile vetro, così gli era possibile vedere le acacie, un bambino che si reggeva a fatica su di una bicicletta, due comari che chiaccheravano giú per la strada, il negozio di abbigliamento con le novità per l’inverno, il placido giardino, un campanile lontano, sempre attraverso il dolore sordo o, quando non provava dolore, attraverso il pensiero del dolore. Era come se tutte le proposizioni si costruissero dicendo: “Questa sera verrà Kathleen a cenare, eppure devo avere un cancro”. “Mi piacerebbe rileggere i racconti di Kipling, eppure devo avere un cancro”.

   E anche se il dottore l’avesse tranquilizzato, a cosa sarebbe servito? Quella preoccupazione ne aveva generata un’altra: ormai,  in un modo o nell’altro, la sua vita stava per concludersi. Semplicemente perché aveva settant’anni e, nel migliore dei casi, gliene potevano forse rimanere otto o dieci di vita compensatrice. O solamente sei. Era come se la mente fosse ancora in grado di programmare esperienze di vita tumultuose e durevoli, ma il corpo sapesse, invece, che tutto si riduceva a un gioco breve, triste, di basso volo e di nessuna ambizione. “Probabilmente è l’ ultima volta che vengo a St. Albans. Non ritornerò più in Sicilia. Non vale la pena fare programmi, né progetti, né avere ambizioni. È l’agonia. Forse solo quattro anni, una briciola di vita, un miserabile sorso di lucidità che rende più doloroso il commiato”.

   Cambridge, Katharina, la Sicila erano nomi di un mondo già esistito e dal quale si era sentito espulso. Vera, Kathleen, Paul, la stipsi erano il mondo indiscutibile della sua realtà, la realtà con cui tutti finiamo per fare i conti: la realtà del distacco, del fallimento, dei figli avuti per errore, delle defacazioni dolorose, della pungente facoltà di pensare, dei succedanei dell’anelito di pienezza. Poiché tutto ciò che non sia vita anelata è morte, l’unica soluzione universale che tutti eguaglia.

   Il resto, l’antimorte, deve essere la vita eterna e credere in essa è alla portata solo dei santi e dei semplici. L’uomo intelligente dubita, almeno. Quindi, se esiste la possibilità di crearci uno stadio di vita superiore lo dobbiamo realizzare qui e ora, con gli studi di Cambridge, il viaggio in Italia e gli amori di una Katharina talmente magica che ha finito per… Per scomparire? Per scappare da questo mondo come se d’ombra si trattasse? No. Katharina, quella con passaporto e stato civile, ha continuato a vivere e forse vive ancora oggi, anch’essa vecchia e anch’essa amareggiata, rimuginando il suo passato rintanata nell’appartamento viennese.

   L’altra, la siciliana, quella delle promesse d’amore eterno -un amore salvifico di allora e di sempre- quella Katharina più reale di qualsiasi cosa tangibile, la assassinò lui, vergognosamente, molti anni prima, in un angolo quasi vergine della foresta di Ceylon, quando si recava dalla piantagione di Morley verso Kandy e portava Vera nell’auto, e si fermarono. Non altro che foga dei sensi! Ma credeva che Katharina fosse morta, e Vera era bianca, britannica e di ottima famiglia. E alla fine la sposò.

   Tornò in ospedale. Il Dr. Barrington lo fece passare subito. Con un po’ di fortuna sarebbe potuto andare fino a Cambridge a pranzare in uno di quei ristoranti chiassosi che aveva tanto frequentato mezzo secolo prima. Aveva ragione Vera nel pensare che non sarebbe tornato a casa per il pranzo. Non c’era neppure bisogno di telefonare. A meno che il dottore gli desse una buona notizia. Perché neppure Vera era colpevole del suo errore, là a Ceylon, errore che ora tutti dovevano pagare.

   -Come va, Mr. Quayle? Come sta?

   -Cosí così. Oggi, per esempio, ho un giorno fortunato: come se non fossi ammalato.

   Perché gli nascondeva la fitta, così persistente dell’ultima mezz’ora?

   -Stanchezza?

   -Beh, questa sí! Ma non ho più vent’anni!

   -È dovuta a queste malattie. Sono traditrici. Ci permettono di illuderci per un po’ e, poi, crac!

   -Cosa vuol dire con questo “crac”?

   -Abbiamo i risultati dell’altro giorno, sa?

   -Dell’ecografia? Di tutto quel daffare per vedere come ho la pancia internamente?- disse con un tono che voleva sembrare allegro.                 

   -Sì, si tratta proprio di questo!

   -Ebbene?

   -Che l’abbiamo vista.

   -Dunque?

   -Che non ci piace molto.

   Il dottore tentennò. Non sembrava essere persona molto abile nel ricorrere a circolocuzioni pietose.

   -Mi può dire la verità. Anzi, voglio che me la dica: non ho paura. Sono stato ufficiale dell’esercito.

   Non era proprio così: era stato Major della polizia coloniale. Ma ora, quando l’ Impero si disintegrava definitivamente, quando parlare delle antiche colonie sembrava quasi un reato di cui gli inglesi dovessero pentirsi, si vergognava un po’ di vantarsi della sua antica uniforme, di sapere l’esatta differenza che intercorreva tra un singalese e un tamil, e tra un tamil e un britannico.

   -Cancro di colon- disse freddamente, senza mezzi termini, il dottore.

   -Si può operare?

   -Alla sua età non ne vale la pena. Ciò che temevo è stato confermato dall’ecografia: ci sono metastasi epatiche.

   -È grave?

   -Mortale.

   -Un anno? Sei mesi?

   -Due… Forse tre…

   -Due o tre anni?

   -No, mesi.

   -Dolore?

   -Ne riparleremo quando si presenteranno. Adesso debbono essere ancora sopportabili.

   -E il finale?

   -L’occlusione. Il male prolifera, ostruisce le budella. Tutto quanto ingerito deve trovare un’uscita dopo aver fatto la digestione. Ma non la trova, non c’è.

   -E allora?

   -Quando la situazione diventa insostenibile, si può sempre rimediare con un ano artificiale. 

   -Di che si tratta?

   -Creare una uscita artificiale e connetervi il tratto di budello che ancora funziona.

   -Asportando il tratto malato?

   -Sì, se ne valesse la pena. Potremmo allungare la vita di un anno, due, forse tre. Ma la complicazione più grave che può presentare una neoplasia di colon è la metastasi epatica, e lei l’ha già.

   Ci fu un silenzio imbarazzante, una pausa difficile.

   -Lei mi ha chiesto la verità. Molti pazienti preferiscono sapere. Forse per mettere un po’ di ordine nelle cose dell’anima.

   -Ma bisogna aver fede.

   -Sì, certamente. Senza fede, si ha solo più disperazione. È duro tutto ciò, lo so.

   Gli avrebbe voluto dire che si può anche accettare la morte con la forza che proviene dalla dignità. Si può morire decorosamente per amore di un ideale di questo mondo, per amore di una persona di questo mondo. Ma riuscì solo a dire:

   -Anche lei morirà. Non è, però, una idea che mi tranquilizzi.

   -Un medico pensa alla morte in modo diverso, fino a quando non lo tocca personalmente. Ed è naturale che sia così. Altrimenti non potrebbe fare il suo lavoro.

   Una nuova pausa.

   -Non è necessario che lo dica a mia moglie. Troppa tenerezza mi infastidisce.

   -Lo capisco.

   -Nessuna dieta, quindi?

   -Non ce n’è bisogno. Se non ha appetito, mangi e beva almeno ció che le piace.

   -Se dico a casa che posso mangiare di tutto, mi risulterà più facile tranquillizzarli, evitare che mi coccolino come un bambino abbandonato.

   -Ne è sicuro? Non pensa d’aver bisogno di qualcuno su cui contare?

   Immaginò, quasi fosse una trappola poco felice della mente, di bussare alla porta di una casa di Vienna. Sarebe venuta ad aprire una vecchia, e lui avrebbe detto: “Sono Bern. Ti amo Katharina. Aiutami. Sto morendo”.

   Ma era la voce del Dr. Barrington che gli diceva:

  -Non tarderanno molto nel saperlo. Purtroppo, il processo sarà molto rapido.

   In quel preciso istante l’insistenza del dottore era controproducente. Aveva appena intravisto una tenuissima luce in quella notte desolata. Sarebbe andato a Cambridge, sarebbe entrato nel cortile del Collegio e, di ritorno a casa,  avrebbe sistemato le carte della Sicilia, riesaminato gli appunti che aveva scritto quando si preparava a conquistare il mondo; avrebbe creato nel ricordo la vita che non aveva potuto vivere e il tutto sarebbe stato il suo viatico, come se gli insucessi fossero stati solo artifici preparatori per la vittoria finale del pensiero sulla materia. E perché non volare fino a Vienna?  

   -Potrei recarmi in Austria?- chiese, come un naufrago che chiede aiuto.

   -Morire in Austria?- replicò il dottore sconcertato.

   Era troppo facile disperarsi. La vera difficoltà era riflettere. La riflessione dell’ inesperto che vede bruciare la casa e non dispone di alcun dispositivo antincendio.  Disperarsi era come bruciare dentro la casa.

   Non sapeva che Vera era al corrente dei risultati delle analisi. Il medico le aveva telefonato, s’era recata fino a St. Albans e lì aveva ricevuto, stoicamente, la notizia. Ora fingevano entrambi. Fingere è una meravigliosa forma di convivenza. Soprattutto, dare a vedere che ci si vuol bene. La realtà diviene insopportabile. Tendiamo a evaderne: la poesia, l’alcol. Ma per gli astemi e per coloro che sono privi di immaginazione non rimane che la finzione, una modesta versione della realtà sognata e mai realizzata.

   Una volta a casa, non ne avrebbe parlato con nessuno. Il bacio alla figlia dovrà sembrare un bacio di tenerezza e sarà, invece, quasi di commiato. Con Vera non c’erano neanche più baci. Per abitudine, qualche volta. Erano trascorsi molti anni -ormai più di quaranta- da quando se li davano per attrazione sessuale. Ma erano stati, qualche volta, anche d’amore? Probabilmente mai. E, tuttavia, l’amore esiste. Lo sapeva molto tempo prima di conoscere Vera. Dai tempi di quella Sicilia irripetibile, di quella Katharina perduta a causa della guerra, della sua maschile impazienza sessuale. Lui, a Ceylon, in quell’angolo di mondo dove compilava montagne di scartoffie amministrative, era convinto di essere un servitore dell’ Impero. Lei, a Vienna, capitale di quell’Austria che con l’Anschluss del 1938 aveva abbracciato la causa nazista, ed era diventata nemica della gran Bretagna.

   Si accomiatò dal dottore con parole banali. Aveva ormai deciso: avrebbe trascorso il pomeriggio a Cambridge, la città che lo aveva visto studente e vincente, nei giorni in cui si spera di rendere spendibili i successi.

   Vi era giunto in un soleggiato giorno di settembre, un giorno come quello odierno, dal clima benigno, che invitava alla riflessione, ma anche alla pienezza del vivere.

III

   Scese dalla corriera con la valigia e la borsa con dentro tutte le sue carte più care. Tra le altre, i programmi con le due mete che si era prefissato. L’una, ottenere i diplomi di bachelor e di master; diventare un fellowship, per potersi recare in Italia grazie ad una borsa di studio; servire la patria con onore e, da un incarico di responsabilità, scrivere un libro di poemi e collaborare regolarmente con la stampa. L’altra, più che una meta, era un decalogo dei compromessi che aveva contratto con se stesso, quali non mentire, non contrarre debiti, non farsi prestare denaro, non abusare dell’alcol, non perdere tempo in amori senza importanza e dominare sempre i sentimenti.       

   C’era anche un quaderno con abbozzi di poemi, ancora un po’ alla maniera di Lord Byron, pur sapendo che il suo era un inevitabile morbillo, dal quale, una volta curato, sarebbe uscito con l’eroica moderazione che si era prefissato come modello estetico e morale. E gli articoli. La poesia era una specie di militanza. C’erano poi i saggi letterari. L’intenzione era di incominciare col collaborare al Bollettino del collegio e, una volta acquisita la dovuta esperienza, avrebbe offerto la propria penna a qualche rivista londinese. Aveva da dire anche la sua in politica, in quegli anni di confusione e di debolezza.   

   Il viaggio in Italia non aveva per scopo la conferma delle cognizioni artistiche ispirate da sua madre, ma il poter vivere direttamente l’eccitante avventura del fascismo. Possibilità questa -forse valida se non altro per la sua intransigente difesa del nazionalismo- che non poteva essere ignorata mentre la Gran Bretagna, immersa in una grande crisi economica, viveva sotto il dominio di una classe politica codarda i cui eredi avrebbero potuto essere dei giovani smidollati, decadenti, omosessuali, come quelli che, più avanti negli anni, avrebbe avuto come compagni di corso all’Emmanuel.    

   Avanzò per Downing St. In fondo, si vedeva già il portone d’ingresso del collegio. Lasciò il modesto bagaglio in consegna a un bidello, si recò negli uffici per presentare i documenti e scoprì, con gran piacere, che gli avevano già assegnato un alloggio nello stesso edificio centrale. Non seppe mai di quali influenze si era valso suo zio per ottenerlo. Ma ben presto scoprì che ciò che all’inizio gli era parso un privilegio aveva irritato più di uno dei futuri compagni.

    Un bidello lo condusse, attraverso il cortile e un corridoio sotterraneo, all’ edificio che per sei anni sarebbe stato la sua residenza. Più tardi, ormai familiarizzatosi, scoprì che quell’aspetto così nobile e quella magnificenza non erano  frutto del venerabile deterioramento dovuto ai secoli, ma che si trattava d’un ampliamento del 1913 -da qui il sottopassaggio- che andava a situarsi sull’altro lato della via Emmanuel.

   Tutti quei particolari, che sembravano non avere importanza, l’obbligarono a riflettere. Come aveva potuto credere che un edificio così recente fosse del secolo XVIII? Era forse portato a vedere, in ogni creazione umana, il segno inconfondibile di un determinato periodo, di una storia, di una tendenza di pensiero? Avrebbe dovuto aggiungere al suo decalogo una nuova voce: l’umiltà.

   Umiltà di fronte alla storia, ma non di fronte alle insolenze di alcuni compagni. Gli avevano assegnato, per fortuna, una camera così piccola che c’era posto solo per lui e che propiziava il suo desiderio di isolamento. Da una piccola finestra, situata all’angolo del primo piano, poteva vedere il cortile, con al centro un curioso esemplare di Paulownia. La presenza un po’ severa di quell’albero si armonizzava con il grigio della pietra, col tono annerito dei tetti e dei mattoni, e col verde un po’ spento del tappeto erboso. Cosicché, quando studiava con la sedia rivolta verso l’ esterno, il paesaggio che poteva contemplare, invece di causargli impulsivi sentimenti di lirismo anarchico, l’aiutava a recuperare l’equilibrio interiore.

   La vita era dura, ma gli piaceva. Aveva l’impressione, per non dire la sicurezza, che tante contrarietà servissero a rinvigorirlo. Nel collegio, le differenze sociali erano molto marcate e lui non occupava, certo, un posto tra i privilegiati. È vero, studiava a Cambridge, ma quando non indossava l’uniforme dell’istituto con quella sua cravatta azzurra rilucente di scudi, disseminati qua e là, dell’Earl di Westmorland, i vestiti normali tradivano la sua umile origine.

   Suo padre era un modesto funzionario delle Poste, destinato all’insignificante ufficio di Beaconsfield. Sua madre, di diverso livello culturale, procedeva da una famiglia più distinta. Le piaceva la letteratura, era molto sensibile all’arte e sembrava che tali inclinazioni avessero contribuito a formare il resto della sua personalità: la maniera di muoversi e un’aria di signorile semplicità. Già da piccolo, si sentiva attratto da tutto ciò che la madre rappresentava. Gli piacevano i piccoli poemi che gli leggeva, quei racconti così ben narrati, e il suo perfetto accento, diverso dall’ accento un tantino cockney, o per lo meno volgare, di suo padre.                  

   Imparò a parlare come lei, a muoversi come lei e a sentire come lei. Benché volesse bene a suo padre, ne provava vergogna e gli sarebbe stato spiacevole doverlo presentare in società. Ma anche da lui imparò molte cose. Cose che non avevano nulla a che vedere con la filosofia, con la signorilità, con le belle arti o con il comportarsi in pubblico. Grazie al padre seppe cosa fossero le lotte sindacali, il diritto di sciopero, la serrata, la paralizzazione dell’industria causati dalle disuguaglianze economiche, che si sarebbero potute risolvere se il governo avesse avuto la fermezza che gli mancava.

   Nella sua testa di adolescente, avida di sapere, cominciarono a introdursi concetti che richiedevano un maggiore approfondimento: lotta di classe, socialismo fabiano, prima internazionale, marxismo, fascismo. La madre possedeva il dono dell’altezzosità, il che le permetteva di vivere come se certe cose potessero essere ignorate. Lui, invece, cominciava a capire che la vita non è solo poesia e nobiltà d’accento, e neppure solo strategia sociale e miglioramenti salariali.

   Fu per questo motivo, forse, che s’interessò alla politica e, in quel mare di dubbi, cominciò a sognare una possibile classe dominante la quale, grazie all’aristocrazia della mente, sarebbe stata capace di concedere giustizia all’oppresso. Era dar ragione a suo padre, che non perdeva occasione di lamentarsi del governo, pur sapendo che quest’ultimo non sarebbe mai stato alla sua portata, alla portata di suo padre. E, del resto, neppure della madre. Persone come sua madre potevano apportare luce spirituale alla lotta, ma non potevano lottare. Per la lotta politica occorreva un leader, un uomo carismatico il quale, con grande visione del futuro, sapesse applicare i princípi della giustizia sociale con la sola forza della sua volontà possente.

   Per quali motivi sua madre, una donna che viveva al di fuori del tempo, si era sposata con quell’uomo dall’accento abominevole? Forse era anche questo un segnale che doveva assimilare, un avvertimento chiarificatore di ciò che può accadere quando la logica non è padrona delle nostre azioni e la lucidità della mente viene sostituita dall’obnubilamento dei sensi.

   Il nonno materno era deceduto da parecchi anni. Per motivi di cui mai si parlava, tutto il patrimonio, una bella proprietà agricola, era evaporato, sfumato per vie, senza dubbio, poco onorevoli. Il gioco, forse. Ma la famiglia manteneva quel tono che hanno i signori rurali e che solo si acquista attraverso generazioni. Non tutto era andato perduto: restava la figlia -sua madre- e un fratello, lo zio che gli pagava gli studi, un uomo particolarmente dotato che aveva potuto ottenere la laurea in  medicina prima che il nonno si rovinasse completamente. Lo zio, chirurgo, aveva l’ambulatorio a Londra, la sala operatoria all’ospedale e veniva consultato molto spesso dai colleghi. Per la sua professione, era molto noto tra la classe politica e ciò gli permetteva, pur con l’imparzialità che deve avere un medico davanti al paziente, di mantenere relazioni cordiali con membri di tutti quanti i partiti.

   Bernard lo sapeva. E, proprio per questi motivi, sentiva, più di chiunque altro, l’ obbligo di superare gli esami, possibilmente con il massimo dei voti. C’era, poi, il problema del denaro. Le spese degli studi andavano tutte a carico dello zio, ma per le altre, quelle proprie d’un giovane della sua età, non avrebbe accettato neppure un penny. Suppliva questa mancanza col modestissimo aiuto dei genitori e si ingegnava copiando appunti per qualche compagno di studi o sbrigando commissioni per alcuni commercianti della città. Era passato più di un secolo da quando gli studenti poveri facevano da camerieri a quelli ricchi. Lui non si sarebbe comunque dispiaciuto di tornare alle antiche abitudini. Infatti se si eccettuava quella palese servitù, i compagni non gli risparmiavano nessun altro spregio. Sia per il suo carattere, sia per la sua posizione sociale, non usciva mai con quelli che frequentavano i pub della città. Non aveva mai una bottiglia di porto in camera, non spendeva un soldo per un capriccio. Tuttavia, le privazioni e gli spregi, invece di umiliarlo e amareggiarlo, lo rendevano più forte. Voleva essere un leader e ci sarebbe riuscito solo a patto di temprare duramente il proprio animo.              

   Il primo anno fu il più difficile. Poi, piano piano, i compagni si abituarono al suo carattere non particolarmente taciturno, ma certamente orgoglioso e solitario. Allorché fu in possesso del titolo di Bachelor of Arts cominciò ad essere rispettato da coloro che ne ammiravano e invidiavano la grande capacità d’assimilazioen: non era il tipico studente che impara e basta, ma colui che impara per poi far fruttare ciò che sa. Tuttavia, non tutti i futuri propositi, annotati nel suo quaderno, si sarebbero realizzati.

    Aveva abbandonato l’idea di scrivere un libro di versi o un vasto poema. La lirica o l’epica non trovavano più nella sua mente la eco degli anni precedenti, quando sua madre l’aiutava a copiare Browning o godeva, tutto solo, con la ritmica eufonia del “Lepanto” di Chesterton. Ora, quando ascoltava recitare ad alta voce l’ “Annabel Lee” di Poe, ogni verso gli pareva puro artificio, creazione di una mente oziosa che si compiaceva nell’estetica dell’inutilità. E gli venivano subito in mente Ruskin e i preraffaelliti e quel singolare studente di Cambridge che si chiamava Oscar Wilde il quale, ai suoi occhi, era il massimo esponente di una società decadente, autocompiaciuta, condannata a un lento disfacimento, così come, secoli prima, era accaduto alla Roma dei viziosi.

   Per ciò detestava i compagni dall’aria affettata, gli snob che ritenevano segno di distinzione fumare oppio il sabato notte, coloro che, di nascosto dei “proctors”, trasgredivano le norme del collegio e si riunivano in case di malaffare frequentate da adolescenti, non già per dar via libera a una esigenza fisiologica, ma per posa, come se essere omosessuali, fumare droga o beffarsi della nobiltà dello spirito fosse proprio una qualità della gente più privilegiata. E il peggio era che la maggior parte di coloro che addottavano tali atteggiamenti -o posedevano realmente tale personalità- erano figli delle migliori famiglie, discendenti di qualche remoto Earl o di qualche Lord più recente e, forse, con genitori, nonni o fratelli che occupavano cariche di responsabilità nelle sfere governative.                          

   Lui, invece, di fronte a tale debolezza collettiva e per reazione, desiderava aumentare le proprie forze. E così, gradualmente, prese a disdegnare la decadenza dell’arte contemporanea, la crisi generale di valori che colpiva tutta l’Europa. Si interessò alle teorie che presagivano la filosofia dell’azione e scoprì quanto aveva fatto il siciliano Giovanni Gentile per dotare il fascismo di una struttura di pensiero.

   L’allontanarsi dal mondo dell’arte, il considerare l’atto come il fondamento dell’esperienza gli aprirono, per logica, le porte di una nuova attività: l’atletica. Non sapeva ancora quale sarebbe stata la sua disciplina, ma sentiva il bisogno di cimentarsi, come se la cultura del corpo gli fosse necessaria al pari della conoscenza della storia contemporanea. Ore di palestra, un giorno un po’ di box , un altro un po’ di rugby, finché l’allenatore gli comunicò che era dotato per il salto in alto. E lo praticò con la stessa tenacia che dedicava allo studio del greco o delle teorie economiche. Ancora una volta la forza di volontà fu la chiave del successo che si palesò il giorno in cui, davanti a una moltitudine in attesa, dimostrò di essere non solo il migliore saltatore dell’Emmanuel College, ma di tutta Cambridge. Forse, per la prima volta, provò cos’erano il calore dell’amicizia, l’ebrezza della vittoria e il sorriso fiorito delle ragazze.   

   Ebbero fine le prese in giro: i possibili nemici di prima lo rispettavano, e alcuni dei suoi ammiratori gli divennero amici. Poteva discutere, dire la sua nelle riunioni, divulgare il proprio pensiero politico: si rendeva conto che con le sue argomentazioni riusciva a convincere qualcuno o, almeno, a farlo dubitare della solidità delle sue tesi.

    Lo agevolava la situazione europea: era sempre più evidente la debolezza dei governi democratici di fronte ai progressi del comunismo. La Gran Bretagna aveva perso la supremazia nell’ambito economico e militare. Le antiche classi dominanti, procedenti da una aristocrazia provvista di marcate virtù per esercitare il potere, venivano soppiantate da una valanga di burocrati e di tecnocrati, spinti da un sindacato privo di volontà pianificatrice e di visione del futuro. La vecchia Inghilterra rurale, agricola e allevatrice di bestiame aveva visto crollare la propria economia per la concorrenza dei mercati della Nuova Zelanda, degli Stati Uniti, dell’Australia o dell’Argentina. In pochi anni, il Paese dovette trasformare le sue strutture quasi bucoliche in industriali, sino a farlo diventare il fornitore di mezzo mondo. Ma, ancora una volta, l’inutile lotta di classe, le sterili opposizioni tra le masse lavoratrici e i trust industriali minacciavano l’economia di un Impero che, dapprima, non potette competere coi prezzi, poi con la qualità e, infine, col trasporto. Per proteggere le tantissime rotte marittime occorreva una marina da guerra come deterrente. Ma l’operario non voleva rendersi conto che, se le rivendicazioni sociali fossero giunte a limiti insopportabili, l’industria ne avrebbe fatto le spese e sarebbe crollata, come era già avvenuto con l’agricoltura, quando fu conveniente acquistare grano dal Kansas e carne dalla Nuova Galles e non dai produttori locali.

   Ecco perché riteneva degno di studio un sistema sindacale che, invece di raggruppare in organizzazioni separate operai e impresari, li univa in corporazioni, in un sindacato verticale dentro cui si poteva dibattere alla pari ogni divergenza, avendo però sempre presente il comune obbiettivo: il bene della nazione.

   S’era fissato un altro obbiettivo: collaborare con la stampa. Non ebbe molta fortuna. Riuscì a fare accettare dalle riviste locali alcuni articoli non remunerati. Ma quando ne inviò uno a “The Guardian” gli risposero, molto gentilmente, che, se avesse continuato a scrivere in quel modo era meglio che indirizzasse le sue note alla sezione “lettere al direttore”.

   E giunse il giorno in cui, entrando nella cappella del collegio e contemplando per l’ennesima volta quella bellissima facciata disegnata da Sir Christopher Wren, scoprì di essere incapace di teorizzare sull’arte con cognizione di causa, di non capire la profonda filosofia che si celava sotto ogni linea del neoclassicismo e che l’arte era stata per lui niente altro che un modo inconscio d’ammirare sua madre. Nella cappella, con il libro dei canti in mano, dovette accettare una nuova realtà: la sua fede religiosa era, in ogni caso, una fede intellettuale, altrettanto distante come può esserlo la risoluzione di un problema matematico il cui contenuto ci lascia indifferenti.

   Quella notte estrasse il quaderno dal cassetto. Ormai, aveva rinunciato a scrivere poemi. Poteva optare per l’arte in generale, ma l’errore commesso allorché datò l’edificio dove si trovava la sua camera e l’indifferenza provata davanti a un capolavoro del grande architetto inglese contribuirono a modificare gli altri propositi. Senza dubbio si sarebbe recato in Italia, ma non per vedere il foro romano o l’apogeo rinascimentale di Firenze. Ci sarebbe andato per preparare una tesi politica. Se Giovanni Gentile era di Castelvetrano, perché non andare addirittura in Sicilia?

   Mussolini aveva instaurato una dittatura e per ciò veniva diffamato. Eppure, non era questa la reazione adeguata, poiché bisognava prima chiedersi: era necessaria?  Sembrava, per il momento, che quel condottiero moderno godesse delle simpatie del re, delle banche, della piccola borghesia e, allo stesso tempo, della grande industria del nord e dei propietari terrieri del sud. Aveva saputo risolvere il problema tra Chiesa e Stato, elevare i lavori pubblici a uno splendore inimmaginabile, potenziare l’industria tessile e automobilistica, prosciugare paludi insalubri. In poche parole: dava agli italiani un motivo per sentire la patria e restituiva loro lo splendore che una politica di camarille aveva dilapidato. La Sicilia sarebbe stato il banco di prova. Terra dura, terra di poveri affamati che erano costretti ad abbandonarla, in un esodo costante, verso gli Stati Uniti o verso l’Australia. La Sicilia,  terra dalle strutture feudali con un latifondismo che aveva favorito lo sviluppo della mafia, terra dell’oscurantismo culturale proprio del Medioevo.

   Ora, come una esigenza perentoria, gli tornava in mente una frase che aveva letto un giorno senza prestarvi attenzione. Si trattava di un commento di D.H. Lawrence che diceva: “La Sicilia ha dato a tutti coloro che l’hanno visitata il loro momento d’ispirazione; e poi, ne ha distrutto l’anima”.

   Ma non la sua, ne era certo. Con un gesto quasi violento cancellò dal quaderno la parola “poemi” e riempì una intera pagina con un un solo nome che sembrava quasi una esclamazione: “Sicilia!”.

IV

   Quando sentì squillare il telefono pensò immediatamente al Dr. Barrington. Bern non le aveva detto che sarebbe andato a St. Albans, ma lei l’intuí grazie a quel sesto senso che si acquista dopo tanti anni di vita in comune. Come un cieco impara a leggere passando i polpastrelli delle dita sulle irregolarità del libro appositamente preparato per lui, così Vera leggeva suo marito. A nulla gli serviva mantenersi impassibile: per capire le era sufficiente il gesto d’impazienza, osservato in un minuscolo movimento della mano, il lampo d’ira che infiammava lo sguardo, la tensione muscolare delle guance e della gola quando cercavano di dissimulare uno sbadiglio.

   C’era, poi, l’assenza di gesti. Noi crediamo di definirci con le azioni, mentre spesso lo facciamo con le inibizioni. E Bern non faceva nulla da molto tempo. Chiuso in un mutismo quasi permanente, trascorreva le ore nello studio, una stanza piena di libri, di quaderni, di ritagli di giornale, di cartelle con progetti, di trofei sportivi, di bandierine, di fotografie, di cravatte dell’Emmanuel College usate, memorie impolverate di un passato che aspirava a essere glorioso e che era logoro come le carte che lo evocavano: scolorito e da dimenticare.

   -La signora Vera Quayle? Le passo il dottor Barrington.

   Era vero, dunque. Non aveva voluto aspettare che il dolore si facesse sempre più insostenibile.

   -È venuto suo marito, signora Quayle… Glielo ho dovuto dire.

   -Lo supponevo. E me ne rendo conto.

   -Se avessimo potuto tenerglielo nascosto per un paio d’anni, ne sarebbe valsa la pena. Ma la diagnosi è inequivocabile e presto bisognerà somministrargli analgesici più forti di quelli che prende adesso.

   -Vorrei capirci qualcosa. Quando le cose peggioreranno, non vorrei telefonarle ogni cinque minuti.

   -Sì, certo. Ma non possiamo neanche permetterci che pensi che l’abbiamo abbandonato perché incurabile. Mi metterò in contatto con il suo medico di famiglia e sarà lui a prescrivergli la medicina adeguata ad ogni circostanza.

   -Cioè?

   -Ben presto, gli analgesici che ora prende non faranno più effetto.                                  

   -E allora?

   -Lei sa fare iniezioni?

   -Sì.

   -Ci dovremo ricorrere. Ma di tutto ciò si farà carico l’altro dottore.

   Era logico, pensò Vera. I medici si tolgono di dosso i casi insolubili, come fanno gli ospedali quando dimettono i malati incurabili con una pietosa bugia, dicendo loro che a casa guariranno meglio. Adesso sarebbe toccato a lei fargli da medico, da infermiera, da sposa fedele, da compagna volenterosa.

   -E lui cosa ha detto?

   -Non molto.

   -È il suo carattere.

   Ci fu una pausa. Non sapevano che aggiungere. Stavano parlando di una persona che stava morendo sotto i loro occhi e non sapevano cosa dire.

   -Se ha bisogno, mi telefoni pure.

   -Sì, dottore.

   -La fine non è piacevole, sa?

   -Se ne renderà conto?

   -Disgraziatamente, sí. Ma ora non ci pensi. Né lui né lei né nessuno potrà evitare l’inevitabile. Se vediamo che soffre troppo, gli somministreremo l’analgesico adatto.

   Soffrire troppo! Che vuol dire, soffrire troppo? C’è forse una sofferenza che non sia eccessiva, una sofferenza giusta? Usano forse i medici un termometro per le sofferenze, come se tutti i pazienti avessero la stessa resistenza fisica o la stessa tempra morale?

   Era già trascorsa un’ora e Bern non era ancora tornato. Pranzò da sola. Consumò il pasto con appetito e il suo senso pratico le diceva che quell’appetito era conveniente e moralmente giustificato se voleva avere la forza per affrontare il calvario che l’attendeva. E ormai non era più una bambina. La casa le sembrava enorme: il pianoterra, il primo piano e la soffitta abitabili, il tutto con cinque camere da letto, due salotti, la sala da pranzo, la cucina, il vestibolo, due bagni, il grande giardino con alberi da frutta, prato artificiale e cespugli di fiori, il posto per gli attrezzi, l’autorimessa, l’angolo per i rifiuti e la stanza per la caldaia del riscaldamento.

   Quando venivano la figlia, gli amici, qualche parente alla lontana che viveva qua e là per il Paese -per non parlare delle visite occasionali di quelli che arrivavano dall’Africa del Sud- era lei che doveva organizzare tutto: fare gli acquisti, cucinare, occuparsi delle camere. Era come se tutti stessero in albergo, se ne infischiavano dei lavori quotidiani più pesanti. C’era, inoltre, sua nuora Margaret (voleva essere chiamata Maggie, che di per sé era già una volgarità). Era capace solo di agghindarsi. Non sapeva tenere la casa, né il marito, né i figli. Povero Paul! Ne poteva guadagnare di soldi! Con una donna come quella era come riempire d’acqua un cestino. È vero, ogni tanto giocava! Ma era l’unico modo per uscire dalla cupa mediocrità in cui sua moglie l’aveva fatto cadere.

   E anche Kathleen non era gran che di aiuto. Certo, aveva stoffa per il suo lavoro e per le sue cose, ma altro era aiutare in casa! Al posto di starsene in cucina a far da mangiare o apparecchiare con gusto la tavola in sala da pranzo, saliva nello studio del padre e lì trascorreva ore al suo fianco, e i due stavano spesso in silenzio o ascoltavano e riascoltavano quella stupida aria di Mozart o guardavano vecchie e ingiallite carte che costituivano il gran tesoro del povero Bernard Quayle. Lui così orgoglioso a Cambridge con i suoi pieni voti! Cosí trionfante in quella fotogragia di atleta vincitore! Cosí vanitoso a Ceylon nella sua uniforme di gala! Cosí irritante per la condiscendenza verso le amiche da lei frequentate a Great Missenden! Ed ora umiliato, definitivamente vinto da quel cancro che gli rodeva il fegato e le budella implacabilmente.

   E tuttavia, gli voleva bene. Quarant’anni di disinganni e ancora gli voleva bene. Aveva già capito, al primo mese di matrimonio, che non l’avrebbe dovuto sposare. S’era tenuta accanto un uomo pieno d’onore, ma non d’amore. E a cosa le servivano i suoi sentimenti, se non aveva mai avuto l’occasione propizia per dimostrarglieli? Adesso finalmente era arrivato il momento. Ora gli avrebbe dovuto fare da cameriera, aiutarlo nella più assoluta e degradante nudità di un uomo impotente in tutto e per tutto. Era come se immense ondate d’odio si alzassero dalle profondità più remote della sua coscienza addormentata. Ma, curiosamente, al di sopra del mare d’odio galleggiava sempre un brandello di quell’amore che provò la prima volta quando aveva vent’anni, e si sentiva carina.

   Il pomeriggio passava, ma lei non si preoccupò. Le pareva di vederlo. Bern si era probabilmente seduto a un tavolo di un “inn” della strada, o sulla panchina di un giardino pubblico, o all’interno di una chiesa solitaria. Cioè, in qualsiasi posto dove sarebbe potuto restare, ore e ore, isolato e silenzioso, come avveniva spesso a casa. Senza prendere un libro o un giornale. No. Si sedeva, lasciava vagare per un momento gli occhi, poi li socchiudeva e restava immobile, come una pietra. Finché lei gridava: “Bern, il pranzo; Bern, la cena; Bern, il telefono”. E lui borbottava un monosillabo, quasi un suono gutturale, faceva uno sforzo per tornare con lo sguardo su qualcosa di concreto, e si alzava per dirigersi là dove era stato chiamato. Poi, se ne tornava allo studio o in qualche altro posto dove nulla lo potesse disturbare.

   Perché Bern non era una persona dalle disperazioni teatrali. Non l’aveva mai visto piangere, ma neppure ridere in modo sonoro. Era discreto, ponderato, distante, sempre silenzioso. Disamore? Forse sí. Ma, in ogni caso, perché si comportava così con chiunque? Nessuno al mondo riusciva ad interessarlo? Un’eccezione c’era: sua figlia, quella Kathleen che si interponeva sentimentalmente tra marito e moglie per motivi forse inconfessabili.

   S’era fatto indubbiamente tardi. Ma Bern non era uomo da cercare nella morte la soluzione definitiva. Aveva sempre paragonato la vita a un atto di servizio, a un problema di disciplina. E se qualche volta, poiché i giornali ne parlavano, si era  discusso di eutanasia, lui aveva manifestato la sua opposizione, come se affrontare la sofferenza e la morte fosse l’ultimo atto che si potesse interpretare con onore e dignità.                                

   La morte, il dolore. Notó, per la prima volta, come quel pensiero gli risultava incomodo, angoscioso. Il dottore aveva parlato di dolori insopportabili e di degradazioni fisiche estremamente ripugnanti e imbarazzanti. Sarebbe stato possibile che Bern,  casto e vergognoso, da sempre riservato per quanto riguardava la sua nudità, si afferrasse alla vita senza preoccuparsi del tributo che avrebbe dovuto pagare consegnando il proprio corpo nelle mani altrui, che lo avrebbero  toccato, lavato e aiutato a defecare? Non è che avrebbe cercato nel suicidio un’ultima e pudica dignità?        

   Entrò nello studio del marito e aprì il cassetto di destra della scrivania. Tirò un sospiro di sollievo: la pistola era ancora lì. Benché fosse in pensione, aveva, tuttavia, il permesso di usarla, come quando prestava servizio nella polizia. Per un istante brevissimo, il pensiero volò a più di vent’anni prima, quando giunsero da Singapore e acquistarono a Great Missenden quella casa di campagna che le sembrò meravigliosa, con giardino, un olmo immenso, due roveri, la siepe di noccioli, la mezza dozzina di susini e meli che si alternavano, un piccolo stagno con pesci. Era una fortuna che quella proprietà fosse stata un po’ trascurata. Se ne poteva ricavare un duplice beneficio: prima di tutto, era impossibile che l’agenzia immobiliare esigesse un prezzo elevato e, poi, lei avrebbe potuto riaggiustarla a suo piacimento. Bern, da parte sua, non si occupava di queste faccende. Rinchiuse il cassetto quasi con cautela, come se lui potesse scoprire non già l’impronta di una mano estranea, ma quella di uno sguardo curioso.

   Forse era andato alla biblioteca pubblica. Quella terminologia di metastasi, di clismi opachi, di neoplasie, di ileotomie e cachessie poteva essere vagamente familiare, ma non conosciuta a fondo. Forse era andato a consultare qualche dizionario medico che poi, per troppa conoscenza, l’avrebbe finito per sprofondare nell’ amara realtà.

   Lo disse a Kathleen al suo arrivo.

   -Questa mattina, tuo padre è andato a St. Albans.

   -E lo sa? Glielo ha detto il medico?

   -Sì. Me l’ha spiegato lo stesso dottor Barrington.

   -E non è ancora  tornato?

   -Non ancora.

   -E non sei in ansia? Non ti preoccupi? Sono più delle otto!

   -Sai com’è lui: fa sempre quello che gli pare.

   Kathleen pensò che non era vero, che suo padre non faceva quasi mai ciò che avrebbe desiderato fare. Ma la madre considerava egoismo ciò che era solo inibizione. Non gli piaceva il gioco degli altri e, invece di imporre il proprio, si disinteressava di tutto.

   A volte, soprattutto anni prima, aveva pensato di poter spezzare quel muro d’isolamento. Intuiva che dietro al comportamento del padre si celava una specie di segreto,una amarezza profonda che lui assumeva in silenzio. Avrebbe desiderato esserne complice e centinaia di volte gli aveva chiesto: “Cos’hai, papà?”. E lui aveva sempre risposto con un sorriso. Avrebbe voluto trovare il bandolo della matassa. Si era accorta, già da giovinetta, che le relazioni tra suo padre e sua madre potevano essere considerate esemplari, ma non certo amorose. Non discutevano mai, come aveva visto fare ad altre coppie. Ma non davano neppure l’impressione di bruciare  tra le fiamme d’una passione sostenuta. E tra i mille ricordi -concreti o vaghi- le tornava spesso alla memoria quella volta che chiese: “Perché mi chiamo Kathleen?”. E sua madre, con voce sarcastica che non le aveva mai notato, rispose: “Chiedilo a tuo padre!”.               

   Avenne molti anni dopo, quando avevano lasciato Singapore e si erano già stabiliti nella nuova casa. Lei aiutava il padre ad archiviare vecchie carte, appunti manoscritti, fotografie curiose. Saltarono fuori certificati di studio, ritagli di giornale, fotografie della foresta di Ceylon, una del padre a Cambridge, in tenuta d’atleta mentre saltava una siepe alta quasi due metri. Poi, una lettera circolare con la quale si era proposto come candidato indipendente alla Camera dei Comuni. “Sei stato deputato?”, chiese. “No, no!”, rispose e sorrise un po’. “Si vede che i miei vicini non la pensavano come me”. Poi, tra le tante cose, apparve la fotografia di una ragazza. “Chi è?”. “È stata una tua amica?”. Lei guardò sul retro e riuscì solo a leggere: “Katharina von Raitenau – Vienna – 1938”. “Si chiamava come me?” chiese nuovamente. “Sì”. Le prese la fotografia dalle mani, la mischiò alle altre carte e si diresse verso la finestra, senza incrociare la sua vista. “È morta?”. Non le rispose. Ma si scostò dalla finestra, le si avvicinò, l’abbracciò con  forza quasi violenta e uscì dalla stanza senza dire una parola. Lo rivide dopo alcuni secondi, attraverso i vetri della finestra, andare su e giú per il giardino senza meta, come fosse un prigioniero – o una tigre- dentro la cella.

   Non parlarono mai più di questo argomento, e Kathleen capì che non era certo a sua madre a chi doveva chiedere chiarimenti sulla vita segreta di suo padre.            

   -E adesso, quando arriverà, che faremo? Fingeremo di non sapere nulla?

   -Se non ne parla, sí. Sarà più comodo per tutti.

   -Non si tratta di comodità, mamma.

   -È tutto bello visto da Londra! Non hai pensato che se qualcuno dovrà preoccuparsi di lui, questi sarò io? Voi, da sempre, vi fate quattro carezze quando vi vedete, ma credo che ti dovresti rendere conto che chi porta sulle spalle il peso della casa è tua madre.

   -Non ne ho mai dubitato. Ma accudire la casa, occuparsi di un malato lo possono fare anche le domestiche e le infermiere. Io mi riferivo ad altro.

   -Sì, è chiaro, all’amore.

   -È meglio lasciar perdere, mamma. Si finisce sempre allo stesso modo, tu ed io. Ma poiché stiamo parlando di cose pratiche, se un giorno tu avessi bisogno di soldi… Io lavoro e…

   -Non ne ho bisogno. La malattia di tuo padre non prosciugherà i miei risparmi. Non è questione di soldi, non sono quelli che mi mancano. Per farmi contenta mi basterebbe che tu mi aiutassi un po’ quando vieni a trovarci i fine settimana.

   -Cosa mi rinfacci? Quando mai mi hai lasciato partecipare in ciò che consideri una tua esclusività? Se vado al mercato, non azzecco la compra; se rifaccio i letti, non rimbocco bene le lenzuola; se cucino, mangi i miei piatti con un sorriso di sufficienza misto a una smorfia di compassione. Mi detesti, lo so. Quel che non so è perché.

   -Ci siamo. Finalmente l’hai detto! Ma sbagli se pensi che mi metterò a piangere.

   -Non c’è bisogno che tu me lo ricordi: l’onore familiare vuole che non si pianga mai per nulla e per nessuno.

   Ci fu una pausa, rotta dalla figlia, forse per  una non  voluta associazione di idee.

   -E Paul? Non ne sa ancora nulla?

   -No, poveretto. Ha tanti grattacapi! Finché gli potrò risparmiare questo dispiacere…

   -Non ti accorgi d’avere una benda sugli occhi? Proprio tu che vedi tutto con tanta freddezza, con tanto senno e con  tanta perspicacia!

   -Lascia stare tuo fratello.

   -È’ la luce dei tuoi occhi, lo so.

   -E se anche fosse? Mi ha dato gli unici momenti di gioia di questi anni. È affettuoso, allegro, mi vuole bene, mi fa continuamente regali, ed è l’unico che, qualche volta, può ancora farmi sorridere. E poi, mi ha dato dei nipoti, cosa della quale tu non potrai mai vantarti.

   -Hai fatto tutto il possibile per spaventare i miei pretendenti. Ma sono ancora giovane, mamma. Ho solo quarant’anni e il giorno che meno te l’aspetti forse qualche anima buona tra le tue amiche, qualche anima caritativa ti dirà che tua figlia convive con un uomo sposato. Lo vorrei tanto, credimi. Lo vorrei, ma o sono troppo decente o troppo fredda. Due disgrazie, comunque.

    -Ti proibisco di parlare in questo modo a tua madre. Non vorrei pentirmi d’averti messa al mondo.

   Dalla rampa dell’autorimessa giunse la luce dei fari dell’automobile e, dopo poco, il rumore della porta basculante. Vera se ne andò in cucina a riscaldare la cena. Kathleen salì in camera sua a disfare la piccola valigia del fine settimana. Bernard entrò. Augurò una “buona notte” quasi impercettibile. Si diresse, con passo sicuro, al salone, si sedette nella sua poltrona preferita e, maneggiando il comando a distanza, accese il televisore.

   “È’ come un soldato”, pensò la figlia. “È’ vissuto tutta la vita da soldato”. E capì che il mondo di suo padre non le piaceva, che i ricordi di quando era poliziotto a Ceylon o a Singapore non erano né allettanti né piacevoli. Ma sapeva, anche, che lui aveva posto il senso del dovere al di sopra della propria felicità.

V

   Lasciò l’auto nel parcheggio situato all’ingresso della città per chi arriva da Londra. Proseguì per Trumpington St. fino all’altezza del Pembroke College, voltò a destra e, giunto a Downing St., scorse in fondo il portone d’entrata dell’Emmanuel.

   L’anno accademico non era ancora cominciato e le strade erano abbastanza deserte a quell’ora pomeridiana. Strada facendo, aveva cercato di mangiare. Assurdamente convinto che, se avesse ignorato la malattia, avrebbe finito per vincerla, quando uscì dall’ambulatorio del dottor Barrington aveva preso la macchina e si era fermato al primo ristorante che aveva trovato lungo la strada. La giornata era splendida, deliziosa. Si sedette all’esterno e, a una cameriera che gli era parsa gentile, chiese una insalata, una cotoletta di maiale, della torta di albicocche e del sidro.

   Alla seconda forchettata non poteva inghiottire più nulla. Guardava il verde degli alberi, il prato soave di un campo lontano, l’ondulazione femminile delle colline, il profilo avvenente della cameriera che serviva. In realtà, osservava la vita che, impassibile, regolare, scivolava accanto a lui mentre ormai non poteva quasi più trattenerla.

   Chiese il conto e la cameriera osservò i piatti quasi pieni.

   -Non le è piaciuto? – chiese gentilmente.

   -Non ho fame.

   Riflettè durante il viaggio. L’andata a Cambridge doveva rappresentare qualcosa di più di un commiato. O meglio: non doveva essere un commiato, ma un ritrovare. Era un condannato a morte che conosceva quasi il giorno dell’esecuzione. Quindi, doveva fare un bilancio della sua vita trascorsa e arrivare all’istante finale non con le scorie della disperazione, ma con le vittorie conquistate durante la vita. Avrebbe serbato di ogni episodio il momento migliore. E quando il dolore sarebbe diventato quasi insopportabile, quando si sarebbe reso conto che la vita gli sfuggiva a fiotti, non avrebbe bestemmiato, ma avrebbe ripensato alle sue vittorie spirituali. Gli vennero in mente quei prigionieri sottoposti a torture per obbligarli a parlare e che, tuttavia, trovano nei loro ideali la forza sufficiente per resistere. Anche lui era, in quegli ultimi istanti, un prigioniero torturato. Doveva, quindi, recuperare gli ideali di un tempo, dai quali avrebbe tratto la forza per non degradarsi. Meditò a lungo, si sommerse compunto nella vita trascorsa e solo vi trovò tre nomi gloriosi: Cambridge, Sicilia e Katharina von Raitenau.

   Entrò in portineria, così come aveva fatto mezzo secolo prima.

   -È chiuso. Gli uffici sono chiusi – gli rispose un impiegato.

   -Sono stato un alunno di questo collegio. Mi farebbe piacere entrare e passeggiare un poco.

   -È tutto chiuso.

   -La cappella? I cortili? Il sottopassaggio? La biblioteca?

   L’uomo ebbe un momento di indecisione.

   -Non posso accompagnarla.

   -Non ne ho bisogno.

   Un nuovo dubbio, e aggiunse:

   -Ha un documento?

   Bernard gli consegnò la patente di guida. L’impiegato si diresse agli uffici, consultò l’archivio e fece ritorno poco dopo, più cordiale:

   -Ha un bel fascicolo, lei!  Può passare. Le aule degli studenti sono chiuse – e gli restituì la patente.

   Fece lo stesso percorso della prima volta: entrò nel cortile principale, attraversò il cortile nuovo, e uscì nel caro cortile nord, dal sottopassaggio. La Paulownia era ancora lì, con il suo tronco rugoso, le mura un po’ più nobili, le finestre chiuse e qualche uccello che beccava nel prato.

   Voleva che quella emozione risultasse positiva, ma non ci riuscì. Era pervaso da un senso di frustrazione generalizzato poiché, se paragonava la sua condizione presente con le aspirazioni di allora, non vedeva altro che non fosse il suo fallimento: la vita gli pareva in generale amara e priva si senso e vedeva gli uomini, nella staffetta della vita, passarsi il testimone delle pesanti responsabilità che quasi mai conducono alla pienezza l’individuo o la società. Il cancro, l’angina di petto, la tubercolosi, le guerre, le epidemie, la fame, la bomba definitiva: la distruzione della natura. Tutto sta a indicare che siamo usciti da un paradiso terrestre per incamminarci, gradualmente, verso un inferno di morte e di desertificazione.

   Passeggiò per un po’ per il giardino dei “fellows”, entrò nei locali, trovati aperti, scoprì che l’antico refettorio era stato destinato ad altre attività e che le pareti della hall, prima di color castagno oscuro, erano state dipinte di chiaro. La libreria antica era chiusa e così pure la cappella. Poteva solo provare l’eco di una antica emozione contemplando la facciata disegnata da Sir Christopher Wren, quella che, in certo modo, aveva contribuito a modificare le sue aspirazioni future.               

   Ricordò i suoi genitori e lo zio che tanto l’aveva  aiutato. Tutti morti, ormai. All’arrivo dell’estate tornava dai suoi per lavori occasionali, per discutere con il padre dell’efficacia delle Trade Unions e spiegare alla madre i progetti futuri. Nessuno dei suoi vagheggiati programmi giunse a buon fine. La carriera politica fu un parto prematuro: morì sul nascere. Scartato dall’esercito per miopia, dovette arruolarsi nella polizia coloniale. Poi Ceylon, la guerra e, come ritmata da un contagocce fatidico, la morte dei suoi: prima lo zio, a Londra, raggiunto da una bomba mentre si dirigeva all’ospedale; poi la madre, vittima di un arresto cardiaco e, dopo un mese il padre, di tristezza. Ora non gli restavano altri parenti all’infuori di una cugina vedova che viveva da sola nell’Africa del Sud (le figlie si erano sposate) e che, ogni tanto, inviava commenti disperati sulla situazione del Paese e parlava dei negri come se fossero, veramente, una razza inferiore.

   Di ritorno a casa, avrebbe messo in ordine definitivamente i quaderni, tra i quali ci dovevano essere quelli che aveva riempito di buoni propositi quando era entrato, per la prima volta, all’Emmanuel College. In alcuni, avrebbe ritrovato le sue idee sulla disuguaglianza delle razze umane, idee scritte quando l’Europa temeva la politica di Hitler e lui credeva ancora nella grandezza di Mussolini. E anche la lacerazione ideologica che soffrì era collegata -al pari di tante cose importanti della sua vita- a un nome, al nome di Katharina von Raitenau, la ragazza viennese che, in Sicilia, gli parlò dei campi di concentramento nazisti.

   Era tornato a Cambridge, si trovava all’Emmanuel, guardava l’edificio della nuova biblioteca, così funzionale e così poco romantico, e sentiva che, alla mancanza d’ammirazione per le cose moderne, si sommava l’amarezza dell’uomo vecchio che ormai non comprende il tempo dei giovani. Il dottor Barrington gli dava due o tre mesi di vita. Se era tornato a Cambridge, non poteva anche fuggire sino in Sicilia? E se era ancora capace d’arrivare a Selinunte o a Piazza Armerina, non sarebbe potuto andare anche a Vienna?         

   Tuttavia, come l’angosciava l’incontro! Era viva Katharina? Si era sposata? Avrebbe trovato, tra le tante carte, il suo indirizzo di mezzo secolo fa? E se tutto fosse andato nel miglior modo possibile, che tipo di fantasma gli avrebbe aperto la porta?

   Uscì dal collegio sull’imbrunire. Il cielo aveva la tonalità vellutata del blu della sera, come se il mantello della notte, tante volte decantato dai poeti, fosse una realtà tangibile. L’impiegato dell’androne lo guardò alquanto incuriosito.

   -Grazie. È stata una visita molto emozionante, sa?

   -Sì, certo… Quando uno serba buoni ricordi, non le pare?

   Probabilmente si sarebbe sentito più sollevato se avesse potuto far partecipe quello sconosciuto della sua condizione attuale. “Sto morendo e sono venuto a visitare la mia scuola per l’ultima volta”. “Si sa, tutti dobbiamo morire un giorno o l’ altro”. Questa è la realtà: viviamo dentro il guscio delle nostre stesse escrescenze, indifferenti al dolore e alle preoccupazioni altrui. Sono lezioni che bisogna imparare ogni giorno. Di teorie sulla bontà umana ne esistono a bizzeffe. Ma la pratica è tutt’altra cosa.

   Se ne andò e discese la strada senza girarsi neppure una volta. Di nuovo, i pensieri lottavano con i fatti. S’era inventato lì per lì un rituale superstizioso. “Se non ti giri, tornerai ancora. Questo non è un addio”. E cercava, a ogni passo, assurdi livelli di tranquillità o di evasione: il tempo diventava una lotta incessante tra il volere e il non volere capire, tra accettare e trasfigurare la morte o ubriacarsi d’alcol e di bugie. Si diresse verso il Sacro Sepolcro. Ricordava, vagamente, che in quei paraggi c’era una agenzia di viaggi. Sarebbe potuto entrare a chiedere informazioni. Un volo Londra-Vienna. O un volo Londra-Catania e un altro Catania-Vienna. E poi, il noleggio di una automobile per girare l’isola, così come aveva fatto con Katharina due anni prima della guerra, con quella Fiat comprata a buon mercato.

   Forse aveva fatto tardi. Vera doveva essere preoccupata. E Kathleen doveva essere andata a Great Missenden a trascorrere il fine settimana. Dopo tutto, l’agenzia aveva già esposto il cartellino “Chiuso”. Tuttavia le vetrine erano ancora illuminate e osservò i manifesti  e i dèpliant dalle molte offerte: la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Brasile, gli Stati Uniti… Tutti si facevano concorrenza con offerte allettanti per attrarre il cliente occasionale: le bianche case di Nicosia, la Costa Sorrentina, le mura severe di Ávila, il Pâo de Açúcar con la grande baia illuminata ai suoi piedi, una vista aerea di Manhattan…

   Ritornò per la strada che gli avrebbe permesso di passare davanti al museo. Anch’esso era chiuso, ma non gli importava. Esistono, infatti, due misure per valutare il tempo: la durata e l’intensità. E lui doveva scegliere la seconda: era come obbligato ad essere selettivo. Sarebbero stati pochi mesi, ma così intensi e così ricchi da compensare tutti quelli vissuti nella passività dell’ibernazione. Per la prima volta quel giorno, sentì nascergli un sentimento prossimo all’illusione. Voleva fare delle cose ed era deciso a farle. Avrebbe preso gli intrugli consigliati dal medico per alleviare il dolore del corpo e avrebbe mantenuta lucida la mente fino all’ultimo istante.

   E la lucidità non poteva essere altra cosa che la fusione con quella verità che un eccessivo asservimento al concetto del dovere gli aveva sottratto durante i due terzi della sua vita.

   Come per affermare la sua mancanza di preoccupazioni, entrò in un pub ancora aperto e dotato di licenza per lo spaccio di bevande alcoliche, e ordinò un brandy. Lo bevve d’un fiato, neanche fosse uno di quegli attori cinematografici pieni di vigore e resistenza. Poi si diresse all’auto, infilò la strada che conduceva a casa sua e guidò a forte velocità.

   Forse eccitato dalla bevanda alcolica, gli parve che tutto il corpo si stesse imperlando di sudore. Sollevò il piede dall’acceleratore e ridusse la marcia, mentre abbassava di un dito il vetro del finestino. L’aria esterna era gradevole: né umida né secca, né fredda né calda. E così giunse al cottage di Great Missenden. C’era luce in cucina, luce al primo piano e la macchina della figlia addossata alla siepe di noccioli. Scese la rampa dell’autorimessa e la porta basculante si aprì. Tolse la chiave d’accensione e si diresse verso il salone.

   Ormai aveva deciso: non avrebbe detto nulla alla famiglia e al dottor Barrington dei suoi propositi di viaggiare e del programma che voleva realizzare per dare un senso ai suoi pochi mesi, come se, con quell’ultimo agire, potesse conferire importanza a tutta la sua vita. Prima di tutto, però, avrebbe messo ordine nelle carte. E se Vera se ne fosse accorta, era lo stesso. Era abituata al suo isolamento, al suo vivere il passato, a vivere i ricordi invece di creare ogni giorno una nuova vita.

   La “Buona notte!” si sentì appena. Sapeva, comunque che, anche se non l’ avessero sentito, avrebbero notato l’arrivo dell’automobile. Si diresse verso il salotto con passo sicuro, si sedette nella sua poltrona preferita e, schiacciando un bottone del comando a distanza, accese il televisore, preparandosi ad ascoltare il telegiornale della BBC.

VI

   Il venerdì solevano cenare più tardi, ma lui, forse, aveva fatto un po’ troppo tardi. Tuttavia, non ci fu alcun rimprovero. Non erano trascorsi neppure cinque minuti da quando si era seduto che entrò Vera con il vassoio, tre coppe e la solita bottiglia di porto dei fine settimana. Era un’altra delle sue abitudini, del suo modo d’organizzare la vita, affinché tutto scorresse in una specie di routine beatificante.

   Kathleen scese le scale, si avvicinò al padre e lo baciò sulla guancia.

   -Ci hai fatto stare in pensiero. Tutto il giorno fuori casa…

   -Sono andato a Cambridge.

   -Dove hai pranzato?

   -Lungo la strada, un luogo gradevole, c’era il sole…

   Kathleen s’era seduta sul tappeto, appoggiando la nuca sulle ginocchia del padre. E lui, quasi fosse una gatta, le grattava soavemente la testa. Nessuno prestava attenzione alla televisione accesa.

   -Non potresti cominciare ad apparecchiare, Kathleen? Non vedi che è tardi!

   Come era sua abitudine, Vera rompeva il benché minimo incantesimo.

   -Che posate metto? C’è minestra? O abbiamo verdura oggi? Hai preparato carne o pesce? Ci sarà frutta o “cake”? Cosa ci servirai da bere?

   E si diresse verso la sala da pranzo, senza fare commenti sarcastici.

   Quando marito e moglie rimasero soli, lei gli chiese:

   -Come stai? Te la senti di cenare?

   -Sto bene, mangerò qualcosa. E se è possibile, smettila di darmi fastidio con le tue domande. Te lo farò sapere quando mi sentirò male.

   Com’era comodo! Si sarebbe lamentato solo a suo piacimento! Non gli era passata per la mente l’idea che anche gli altri potessero soffrire per il suo male? Vera ebbe voglia di dirgli che aveva parlato con il dottor Barrington, ma desistette: se la sua angoscia era grande, quella di lui doveva essere più dolorosa. E se durante tutta la vita il suo carattere era stato così poco comunicativo, se aveva sempre preferito tenere per sé preoccupazioni e problemi, perché avrebbe dovuto chiedergli di aprirsi proprio ora, quando forse avrebbe avuto bisogno di maggiori riserve di orgoglio per mantenersi saldo?         

   Assaporò in silenzio il resto del porto e andò in cucina a dare gli ultimi ritocchi alla cena. Il venerdì, il menù era un po’ più allettante del normale. Vide Kathleen sui fornelli.

   -Puoi andare a sederti – le disse la madre.

   La ragazza tornò nel salotto, ripose la bottiglia di vino e portò via le coppe. Tutto avveniva in silenzio. Se la mente fosse visibile come il corpo, rimaremmo sbalorditi per le sue deformità: c’erano due esseri responsabili della vita data a una terza persona, ma tutti e tre si guardavano con un certo distacco. Le due donne sapevano che l’uomo sapeva. Ma una specie di patto, un certo tipo di educazione sentimentale destinata a rendere più facile la convivenza impediva le effusioni. La regola consisteva nel dimostrare che non succedeva mai nulla. E la vita familiare finiva per basarsi nell’ipocrisia e non nell’amore. È troppo difficile mantenere l’amore in costante tensione. Difficile e, perfino, impudico. Kathleen ricordava che una volta, quando era molto piccola, il padre toccò le natiche della madre mentre gli passava accanto. Il volto di Vera palesò una tale sensazione di fastidio, d’intolleranza e di disprezzo che suo padre non ci provò mai più.

   Strana ragnatela quella che univa i loro cervelli. Il padre era desideroso di salire nel suo studio per incominciare a mettere ordine nelle sue carte, come se la fretta fosse ormai l’unica ragione delle sue azioni, invece d’esserne solo un complemento. La madre, acquistava forza di fronte all’inerzia degli altri, sordi a un principio così semplice  come è quello che in famiglia ci deve essere qualcuno che sia metodico e equilibrato. La figlia, amareggiata da sentimenti che la portavano ad essere ingiusta con la madre e tollerante con il padre e, allo stesso tempo, le rendevano sterile la sua vita, quasi che la possibilità di trovare un uomo che le offrisse l’appagamento che trovava nel padre e, al contempo, la dominasse, fosse un sogno color di rosa svanito ormai definitivamente al compimento dei trent’anni. Questo era il filo che li univa, ma non sapevano che razza di ragno l’avesse tessuto.

   Bisognava rompere il silenzio. Era divenuto troppo pesante, quasi pericoloso. Ricordava quelle onde giganti, curve, senza cresta, compatte, che finiscono per frangersi in modo distruttivo. E la figlia disse:

   -Come è andata a Cambridge, papà?

   -Oh, sí! Molto interessante! Ci sono cose divertenti, annunci nei chioschi, si affittano camere agli studenti, pensioni… Ma a che prezzi!

   Era certo, dunque. Era andato a Cambridge. Non lo poteva aver inventato.

   -Non tutto cambia, però! “Non si accettano visite femminili”, c’era scritto in un annuncio. Ambiguo, vero? Potrebbe trattarsi della madre o della sorella.

   -È’ il nostro vizio nazionale: l’ipocrisia. Ci dovrebbero essere avvisi del seguente tenore: “Se volete avere relazioni sessuali, affittate una barca o andate di notte al parco di Jesus Green o cercate un albergo tollerante”.

   -Kathleen!- esclamò la madre, trattenendosi.

   Nuovamente il silenzio. Vera si angosciava osservando gli sforzi che faceva suo marito per ingoiare un po’ di cibo.           

   -Devi aver mangiato molto a mezzogiorno- disse, per non fargli pesare la sua disappetenza.

   -Insalata, cotoletta di maiale, dolci, sidro…

   -Gradiresti un po’ di sidro, ora?

   Assentì e Kathleen andò a prendere la bottiglia “tollerata”. Mentre la posava sulla tavola squillò il telefono. Accorse e tornò quasi inmediatamente e, con aspetto contrariato, rivolgendosi alla madre, disse:

   -Paul verrà domani a pranzo. Lui solo.

   -Non ti ha detto il perché?

   Sapeva benissimo il perché, ma non era il momento di spiegarlo. Non avrebbe mai pensato che suo fratello fosse così insensibile, così sconsiderato. Paul era andato a trovarla quella stessa mattina. Il motivo era quello di sempre: chiederle in prestito dei soldi. Cinquecento sterline! E lei gliele aveva negate. Ma non tanto per l’importanza della cifra. “Andrò in prigione!” aveva detto. Bugie. E semmai fosse stato vero, gli sarebbe servito da meritato castigo, e forse l’avrebbe obbligato a riflettere e a cambiare vita. C’erano, poi, Maggie e i due bambini. Non sarebbe stato un dramma se sua cognata si fosse messa a lavorare, visto che il disordine domestico era in buona parte colpa sua. Moglie e marito si assomigliavano in una cosa: come le persone che non sanno mantenere una saggia economia, così loro, quando per caso disponevano di soldi, li spendevano nel modo più avventato, e non pagavano i debiti più urgenti, quelli del bottegaio, del padrone di casa o della farmacia.

   Si era accorta, tuttavia, d’aver commesso un errore. Quando il fratello le disse con una certa violenza: “Se tu non me li presti, me li presterà la mamma”, lei, nel tentativo di dissuaderlo, gli replicò ciò che l’altro ignorava: che suo padre stava morendo. Ma la richiesta di tregua che quella notizia poteva apportare non fu accolta.      

   -Non ti ha detto perché viene tutto solo?

   Forse il lampo di irritazione che Vera aveva osservato negli occhi della figlia le fece capire che, per il momento, era meglio non insistere.

   -Dovrò comprare qualcosa per domani. Forse del pesce. Gli piace tanto il pesce a Paul, poverino!

   -Bernard si alzò senza proferire parola, uscì dalla sala da pranzo e salì nello studio.

   Quella notte avrebbe potuto dare solo uno sguardo superficiale alle cartelle e agli scaffali, tanto per offrire un inventario alla memoria.

   Quando le due donne rimasero sole, la madre chiese:

   -Cosa voleva Paul?

   -Te lo dirà lui.

   -Ma tu lo sai già, non è vero?

   -L’ho visto oggi stesso. È venuto nel mio ufficio. Voleva che gli prestassi cinquecento sterline. Un altro dei suoi imbrogli. Gliele ho negate.

   -Avresti potuto dargliele e chiederle poi a me.

   -Io ti ho offerto dei soldi questa sera. Come vedi, non si tratta di ciò.

   -E allora di che?

   -Se non riesci a capirlo, è meglio che non te lo dica.

   Si diresse verso la cucina per mettere in funzione la lavastoviglie.

   -Lo faremo domani – disse la madre. – Dopotutto, sono quattro piatti.

   La ragazza le dette la buona notte e si diresse allo studio del padre. La porta era socchiusa e potè vederlo senza che lui se ne accorgesse. L’aveva sorpreso indifeso: gli vedeva le borse sotto gli occhi, la pelle molliccia delle guance, la pappagorgia, la lucentezza della calvizie, e nel naso e nei pomelli la traccia sanguigna di piccole vene troppo marcata. Gli si avvicinò da dietro e gli pose le braccia al collo.

   -Cosa fai, papà?

   -Gioco.

   -Stai bene?

   -Sì.

   -Domani verrà Paul. Devi avere pazienza.

   -Cerco sempre d’averne.

   -Lo so. Ma ora sei delicato e non è il momento per i dispiaceri.

   Kathleen stava per andarsene. Lui la trattenne per la mano e le disse:

   -Ci sono momenti in cui bisogna rimanere soli, e niente lo può impedire.

   Si dettero un bacio sulla guancia e lei andò nella sua camera.

   Il sabato mattina trascorse senza pena né gloria. Fecero colazione in silenzio. Bernard si era rasato. Poiché parlare di certi argomenti non era di buon gusto in quella casa, Kathleen si comportò come una spia che non aveva nulla di romantico: cercò di calcolare il tempo che suo padre aveva trascorso in bagno e anche d’ascoltare se avesse tirato o meno lo sciacquone.

   Dopo colazione si mise a lavare i piatti dei due pasti, la madre tirò fuori l’auto per andare in paese a fare un  po’ di spese supplementari e Bernard salì di nuovo nel suo studio.

   Alla mezza arrivò Paul. Aveva sei anni meno della sorella, ma i suoi trentacinque non riuscivano a nascondere un volto floscio, smisuratamente carnoso, caratteristico del suo aspetto grassoccio. Dava l’impressione di essere una persona dissipata e potenzialmente alcolizzata. In ogni modo, e a prescindere dalla sua situazione economica, indossava vestiti e scarpe costosi e guidava una macchina vistosa. Si presentò con una piccola scatola di cioccolatini, al gusto di menta, che piacevano a sua madre.

   Pranzarono con relativa normalità. Se ancora una volta non fosse stato per gli intimi pensieri di ogni componente della famiglia, un osservatore estraneo avrebbe creduto che attorno alla tavola si stesse svolgendo una normale riunione tra maturi genitori e figli.

   -Sogliola alle mandorle, mamma! Pensi a tutto!

   E la madre, eccezionalmente, portò a tavola una bottiglia di vino bianco del Reno che aveva messo in frigorifico la mattina stessa.

   -Cosa festeggiamo?- chiese Kathleen con ironia.

   -Non capita ogni settimana d’essere tutti e quattro soli – commentò la madre.    

   Era evidente che la presenza di Margaret, la nuora, non la considerava necessaria. E aggiunse, forse per dissimulare l’ultimo commento:

   -Come mai non è venuta tua moglie?

   -Ha da fare, oggi. Una riunione a Londra, nel pomeriggio.

   -Oggi, di sabato?- intervenne la sorella.

   -Sì, con degli amici, affari. E proprio di questo sono venuto a parlarvi.

   E rivolse uno sguardo supplichevole verso la sorella mentre passavano in salotto. La madre, in cucina, scaldò l’acqua per il caffè solubile. Paul, come d’abitudine, prese dal mobile dei liquori una bottiglia di brandy.

   -Ne vuoi?- chiese al padre.

   Bern annuì. Quando arrivò la madre con il “Kettle”, Paul si stava già versando la seconda coppa.

   -Ebbene- cominciò. – Sono venuto a proporvi un modesto investimento in un affare sicuro. Io ci metto cinque mila sterline e altrettante ne mettono i miei amici. E poiché ho pensato che vi devo tanti favori, mi pare sia giunta l’ora di contraccambiarli. Se anche voi ne voleste investire cinque mila, non sarò certo io a dirvi di no. Ma, proprio perché siete voi, sono sicuro che i miei amici vi lasceranno partecipare anche con meno.

   Poi, espose un complicato affare di computer giapponesi. Era merce di contrabbando che sarebbe stata confiscata alla dogana e`poi messa all’asta a bassissimo prezzo. Lui e i suoi amici si erano aggiudicati ogni possibilità d’acquisto con la connivenza d’un agente che…

   -Ma è una frode!- l’interruppe il padre.

   -Lascia che si spieghi, Bern. Ci deve essere certamente una spiegazione.

   -Non cominciare con le tue prediche, papà. Non rubiamo niente a nessuno. Se non ti interessa, è affare tuo. Ma se la mamma lo vede in modo diverso, suppongo che sia libera di fare ciò che vuole con i suoi soldi.

   -Certo che potrà fare quello che vuole, ma ciò non toglie che quanto le stai proponendo è immorale.

   Kathleen osservò una piega di sofferenza sul volto del padre e intervenne, senza rendersi conto, probabilmente, della portata della sua replica.

   -Non è solo immorale, ma è falso.  

   -Kathleen!- l’interruppe Vera.

   -È una bugia, una bugia e tu lo sai, mamma. Sai che ieri mio fratello è venuto a chiedermi dei soldi per far fronte a un non ben precisato imbroglio e che glieli ho rifiutati. Adesso, deve aver pensato che con questa messa in scena del grande affare vi poteva spillare molti più soldi delle cinquecento sterline che aveva chiesto a me.

   -E se anche fosse?- gridò Paul, colto nel segno. – Preferisci la verità? Vuoi che dica loro che se questa notte non pagherò un debito andrò in prigione?

   -Nessuno va in prigione per debiti! E ancor meno per debiti di gioco, che sono quelli che tu hai contratto.

   -Cosa vuoi, quindi? Che mi spezzino le ossa?

   -Servirebbe, forse, a farti aprire gli occhi.

   -Basta!- supplicò la madre.

   Si alzò, uscì dal salotto e fece ritorno con il libretto degli assegni.

   -Di quanto hai bisogno?

   -Cinquecento sterline – disse Kathleen. – Per favore, non permettere che ti imbrogli ancora!

   Paul si sentiva umiliato e dovette ricorrere alla piccola vendetta dei miserabili. 

   -Il grande senso del dovere, come papà! Veramente una bella coppia! Guardate papà! Non fa una piega! Si vergogna di suo figlio. Del figlio che non avrebbe mai voluto avere, il bastardo della famiglia. Perché non me lo gridi in faccia il tuo odio? Perché non mi vuoi aiutare economicamente, se sei colpevole della mia venuta al mondo? Credi forse di portarti i tuoi soldi all’altro mondo? Non te l’ha detto Kathleen, così amica della verità, che non ti rimangono neppure due mesi di vita?

   Kathleen si alzò e, con furia incredibile, dette uno schiaffo talmente forte a suo fratello da farlo quasi cadere dalla sedia. Poi, si diresse verso suo padre, l’aiutò ad alzarsi e dolcemente gli disse:

   -Andiamo nello studio.

   Un quarto d’ora più tardi udirono il rumore dell’auto di Paul che si allontanava. Temettero l’arrivo di Vera, ma lei non si fece vedere. Sentirono i suoi passi su, al primo piano, che lentamente si dirigevano verso la camera da letto. Poi, un lungo silenzio. Infine, la voce di Bern:

   -È piaciuto il mio lavoro, sai? Mi hanno dato una borsa di studio per andare in Sicilia. Ti piacerebbe la Sicilia. Ci dovresti andare. La gente non è affatto come noi, no! Lì ho provato una gran voglia di vivere!

   Kathleen piangeva, sommessamente.  

VII

   Se qualche dubbio gli restava, lo zio l’affossò. Dopo i brillanti risultati che aveva conseguito negli studi, ciò che più l’eccitava sarebbe stato il poter disporre di mezzi economici per portare a compimento il suo lavoro di ricerca. E lo zio gli assicurò che, qualora avesse ottenuto la borsa di studio, lui stesso l’avrebbe arrotondata di quel che mancava.

   La sua specialità non era l’economia ma la storia. Non, però, una storia concepita come entità autonoma, quella che fornisce precise regole per essere compresa e una sua sistematicità per essere esposta, ma come cosa viva e tentacolare, connessa con l’economia, questo sì, ma anche con la filosofia, con i costumi, con il clima e con la scienza. Forse, senza rendersene conto, era influenzato dalla cosidetta scuola di Cambridge e, benché non sempre ne condividesse i punti di vista, tuttavia aveva qualcosa in comune con quel gruppo che, grosso modo, faceva capo a Bertrand Russell: era, senz’altro, un punto di vista antidealista.

   Conteneva regole morali che non potevano essere trasgredite. E questo era il nocciolo della questione: non potevano essere trasgredite, ma lo erano continuamente. E chi riteneva la storia un tutto omogeneo -così com’è la corrente di un fiume, qualunque sia la materia che trascina via, oltre all’acqua- doveva conoscere questa trasgressione e, di conseguenza, evitare che il suo concetto di futuro si basasse su ideali irrealizzabili perché utopici. Perciò, l’attraeva la dottrina fascista che anteponeva le azioni alle idee e che analizzava i problemi fisici della società e ne cercava soluzioni fisiche e non metafisiche.

   Forse i suoi punti di vista, lontani da ogni sistematicità fondamentalmente filosofica, avrebbero fatto sorridere gli specialisti. Ma la politica del suo Paese non era diretta da neoplatonici o da hegeliani, bensì da persone che, della filosofia, avevano preso solo ciò che poteva servire a dare coerenza di dottrina alle loro idee. Dopo tutte queste considerazioni, giungeva sempre a concludere che ciò che veramente l’appassionava era la politica.

   Non più di mezza dozzina erano i princípi che richiedevano una radicale imposizione, se si voleva che il Paese progredisse. Una volta accettati come validi, era compito della classe politica applicarli e, quindi, di organizzare la società in modo da poterli realizzare. Come il corpo umano, quando è malato, vorrebbe la salute e confida nell’ordine dei medici per recuperarla -un ordine che non può presentare fratture ideologiche né interpretazioni divergenti su una sintomatologia molto precisa- così il corpo sociale dovrebbe esigere un partito unico e un sindacato verticale, capaci di portare a termine i princípi del corporativismo, in opposizione a un pericoloso liberalismo che basava il progresso nell’ egoismo degli individui.

   Grazie a tutte queste considerazioni, il lavoro di ricerca preliminare che aveva presentato -prologo di quello che voleva portare a termine se ne avesse avuto i mezzi- interessò, per la sua originalità, coloro che lo dovevano giudicare. Studiava l’evoluzione del suo Paese, dai primi anni del periodo vittoriano fino all’inizio della decadenza, che cominciò a delinearsi dopo la Prima Guerra Mondiale. Ne attribuiva le cause all’egoismo dei partiti conservatori che, per reazione, provocavano smisurate rivendicazioni della classe operaia, influenzata non già dal tiepido socialismo fabiano di Shaw, Pease e Webb, ma a quello contaminato dalle influenze marxiste dopo il trionfo della rivoluzione russa.

   Cercava di conciliare libertà e democrazia con un nuovo concetto di ordine sociale. E per constatare fino a che punto potevano essere compatibili quei princípi con alcuni dei vantaggi delle dittature, era disposto ad andare in Italia per studiare, sul terreno e senza essere contagiato da informazioni tendenziose, l’applicazione dei princípi di Mussolini, un politico che, in fin dei conti, si era formato nelle file socialiste. Considerando la tradizionale miseria del sud, con l’esodo costante d’emigranti verso gli Stati Uniti e l’influenza che questo fatto aveva nella ristrutturazione della mafia, gli parve che la Sicilia sarebbe stata una base più valida per i suoi propositi di quanto non fossero Roma o Milano.

   E la proposta venne accettata. Poteva stabilirsi in Italia per un periodo di sei mesi e gli fu concessa una borsa pagabile in mensilità anticipate.  

   Fu allora che lo zio intervenne.

   -Non sono d’accordo con i tuoi punti di vista – gli disse – ma ti voglio aiutare. E ti dirò di più: sono dell’opinione che questo viaggio in Italia ti farà aprire gli occhi su molti aspetti delle dittature, che ora non puoi vedere. Mussolini non ha vinto l’opposizione con la forza delle sue idee, ma l’ha sterminata passandola per le armi, come fecero i suoi miliziani con Matteotti. E in politica estera, giudica tu stesso cosa ha rappresentato l’aggressione all’Etiopia o l’aiuto che sta prestando al dittatore spagnolo, il generale Franco.

   -Sto studiando, zio: non tutto mi è ancora chiaro.  

   -Appunto per questo, perché sono dell’avviso che il tuo viaggio in Italia sia una componente importante dei tuoi studi, credo di avere l’obbligo morale di esserti accanto e l’obbligo economico di aiutarti. Sono soddisfatto dei tuoi studi. Inoltre, possiedi un’altra virtù: sei onesto nelle tue idee. Puoi diventare un gran politico. È giusto che ti prepari ed è giusto che io ti aiuti.

   -Grazie.

   -E ora voglio darti qualcosa che è più di un consiglio. Non credo sia conveniente che tu vada direttamente in Sicilia. Intuisco che ti potresti trovare in più di un pericolo se frughi troppo, o con troppe porte chiuse se nessuno ti aiuta.

   -Cosa devo fare, dunque?

   -Per prima cosa, andrai a Firenze, dove fa il medico un collega con cui feci pratica all’ospedale di Londra. Si chiama Salvatore Riccardi ed è nato in Sicilia. Ti potrà dare delle lettere di raccomandazione, metterti sull’avviso su certi rischi provenienti da determinati ambienti sociali o politici e trovarti una sistemazione tra persone di fiducia. È un uomo liberale. Tu pensa quel che vuoi, ma io di queste camicie nere che comandano oggi non mi fiderei affatto.

   -Non è che non mi faccia piacere andare anche a Firenze, ma non voglio fare del turismo.

   -Beh, dovrai visitare qualche museo, non ti pare?

  -Sì, per mandare una cartolina alla mamma. E parlarle dell’Arno, di Ponte Vecchio, di Dante e di Beatrice.

   -Ancora te ne ricordi? Tua madre è la poesia.

   -E il padre, i sindacati. Che miscuglio, vero?

   -Non credere che un politico che conosca Shelly a memoria sia poi una disgrazia.

   -Non conosceremo mai il frutto che siamo capaci di dare. Sai cosa disse il fondatore dell’ Emmanuel? Disse: “Ho seminato una ghianda. Quando diverrà un rovere, solo Iddio sa quali saranno i suoi frutti!”

   -Lo dici per te?

   -Per favore, zio! Io non ho ancora messo radici.

   Poi vennero i preparativi. Non si trattava di partire con una valigia e la biancheria di ricambio: gli anni trascorsi all’Emmanuel College, lontano dai suoi, gli avevano fatto acquistare esperienza. Decise di portare con sé l’indispensabile e comprare in Italia il resto. C’era, poi, il materiale per il lavoro. Il professore di scienze sociali e politiche l’aiutò a scegliere: libri di consultazione obbligata che, con ogni probabilità, non sarebbero stati facilmente reperibili nella sua nuova residenza. Per concludere: un baule che pesava una tonnellata. Lo spedì a Messina per ritirarlo non appena avesse messo piede nell’isola.

   Era la prima volta che lasciava l’Inghilterra. Fece una breve scalo a Parigi e, poiché non era la Francia la sua destinazione, proseguì il viaggio. Finalmente, arrivò a Firenze. Era una raggiante mattina di aprile e, benché fosse stanco morto per le tante ore di treno, lasciò il bagaglio al deposito della stazione e si diresse verso la casa del dottor Riccardi, il quale, indubbiamente, gli avrebbe consigliato un albergo a prezzo ragionevole.

   -Il Byron. Un nome curioso per un inglese, non le pare? È centrale, pulito, senza lussi.      

   Il dottor Riccardi era una persona affabile, per nulla saccente e con cui era facile dialogare. Il suo inglese, imparato quando aveva fatto pratica a Londra, risultava scioccante, ma compresibile. Bernard, a sua volta, si sforzava di parlare l’italiano che, studiato intensamente, aveva bisogno di pratica per acquistare quella minima fluidità che è necesaria quando uno vuole che gli si aprano più porte di quelle alle quali bussa il turista.

 Telefonarono all’albergo per prenotare una camera.

   -Suppongo che sarà stanco e che, forse, vorrà andare subito a riposare un poco.

   -No, affatto. Sono troppo eccitato.

   -In tal caso, non ho nulla da fare fino a sera. Se mi fa l’onore, potremmo pranzare assieme.

   La conversazione fu molto interessante per Bernard. Lo zio Arnold aveva messo al corrente il dottor Riccardi del motivo di quel viaggio e i consigli e le opinioni erano dunque d’obbligo.

   -Non pretendo di farle cambiare opinione. Sono i fatti, in ogni caso, che le mostreranno come realmente stanno le cose.

   -La capisco, dottor Riccardi. Come in tutte le dittature, coloro che detengono il potere ne abusano.

   -Non è precisamente questo ciò che voglio dire. Supponiamo che il bipartitismo democratico britanico sia il migliore sistema politico del mondo. Ciò non impedirà che tra le file dei conservatori o dei laburisti non prolifichino gli imbroglioni, i corrotti, i concussi. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che non esistono opzioni politiche cattive, ma è il comportamento umano ad essere cattivo. Ma non è così. Ci sono sistemi, e il fascismo ne è uno, che si basano sull’eliminazione sistematica dell’avversario, nell’instaurazione del terrore, quale mezzo per dominare la società, nella premeditata menzogna propagandistica, nell’aggressività internazionale, nel culto della personalità del capo. A lei l’attrae l’organizzazione corporativa dello Stato e la ferrea regolamentazione del lavoro, che pretende di eliminare la lotta di classe. Ma se anche questi fossero vantaggi (e non lo sono, perché gli oligarchi dominano sempre la classe operaia) quando si devono comprare con la perdita delle garanzie personali, o quando l’individuo può essere imbavagliato senza nemmeno dover far ricorso a un tribunale, o può sparire durante una spedizione delle camicie nere, senza che ciò dia luogo a una indagine da parte del governo, allora, vale la pena di chiedersi se non stiamo parlando di un sistema politico criminale per natura.

   -Capisco quanto lei dice, dottor Riccardi. Posso solo replicare che, se sono venuto in Italia è stato, precisamente, per imparare queste cose, per vedere se esiste la possibilità d’applicare i buoni princípi d’un sistema alle buone maniere di un altro.

   -Personalmente, non li vedo conciliabili. Ma questo è solo il mio punto di vista. E non le ho fatto questo preambolo per essere bastian contrario. Stiamo vivendo in un Paese privo di garanzie individuali. La sua condizione di straniero non la protegge affatto. Le dirò di più: il regime guarda gli inglesi con diffidenza, per i fatti d’Etiopia e per altri motivi che lei certamente non ignora. Quindi, dobbiamo essere pratici. Lei non può andare in Sicilia con un cartellino su cui c’è scritto: “Sono suddito inglese e sono venuto per conoscere la verità sul fascismo e la mafia”. Non vivrebbe neppure ventiquattro ore.    

   -Cosa debbo fare, dunque?

   -Prima di tutto, non deve andare ad abitare in una grande città, come Catania o Palermo. Non avrebbe alcuna possibilità di inserirsi. Le raccomando di andare in un paesino molto piccolo, come, per esempio, quello in cui sono nato. Deve far credere che sta ultimando degli studi archeologici o storici di carattere generale. Le darò delle lettere di raccomandazione. Se ci saprà fare e con un po’ di fortuna, finirà per accattivarsi il cuore di quella gente con maggiore facilità che se vivesse in un hotel di lusso di una grande città.

   -E come si chiama il suo paese?

   -Licodia Eubea.

   -Non ne ho mai sentito parlare.

   -Tre o quattro migliaia di abitanti, al massimo. Paese dell’interno, arido, agricolo a coltivazione seccagna. Residui di una aristocrazia rurale.

   -E la mafia?

   -Cosa vuole che le dica? Non credo che un forestiero come lei, anche se vivesse molti anni in Sicilia, riuscirebbe a saperne qualcosa.

   Intercalando particolari concreti alla conversazione generale, il dottore precisò:

   -Là, nel paesino, non pensi di trovare un albergo. Se mi autorizza, le potrei trovare alloggio in una casa privata. Per un prezzo modico potrà disporre di una camera accogliente e di una tavola molto sana.

   -E per muovermi?

   -La Sicilia non è la Toscana. Cattive comunicazioni, difficoltà, corriere che non rispettano gli orari. La miglior cosa da fare, non appena sarà giunto nell’isola, è  acquistare una automobile di seconda mano. Ce ne sono a poco prezzo e risparmierà tempo e problemi.

   -Lei mi può aiutare?

   -Posso telefonare, così, almeno, non l’imbroglieranno.

   Poi, quasi senza pausa, aggiunse:

   -Noi italiani siamo alquanto complicati agli occhi dei forestieri: possediamo un invidiabile senso dell’onore, possiamo essere fedeli alla parola data fino all’autentico sacrificio. Tuttavia, siamo capaci di rubarle le calze senza toglierle le scarpe. Sono peculiarità di un popolo che si è visto invaso e vessato da tutti: catalani, francesi, spagnoli, austriaci. Ma siamo sempre sopravvissuti.

   A pranzo, squisito, il dottore aveva fatto servire una bottiglia di Montevertine che a Bernard parve meraviglioso. Con il fascismo o senza, l’Italia era un Paese magico.

   -Sembra assurdo- aggiunse il dottore -ma le devo chiedere discrezione sulla nostra conversazione. Mi rendo conto che non è facile per lei accettare, solo per averglielo detto io, che la mia libertà, e forse anche la vita, possono essere in pericolo. Ciononostante è proprio così. Proceda con cautela. La persona che oggi le pare amica può essere il suo delatore di domani. Oggi in Italia c’è più gente in prigione per le proprie idee che per le proprie azioni.

   Si accomiatarono, dopo essere rimasti d’accordo che si sarebbero rivisti l’indomani. Bernard pensò, dapprima, di passeggiare un po’ per la città -il dottore viveva in centro- ma, nel tardo pomeriggio accusò la stanchezza e decise di prendere un tassí per recarsi al deposito della stazione. Raccolse il bagaglio e andò al suo albergo.

   Lasciò nel vestibolo il paio di valige e si diresse in portineria col passaporto in mano per farsi registrare. Dovette aspettare, poiché aveva davanti a sé una ragazza che stava firmando. Con quel minimo interesse che prestiamo in certe cose quando non abbiamo nulla di concreto a cui pensare, si accorse che la ragazza non era del tipo che potremmo definire meridionale. Bionda, di carnagione molto chiara, era vestita con discreta eleganza. Forse era studente come lui. Forse come lui inglese, forse anche lei con una borsa di studio.

   La ragazza si scostò dal bancone e gli rivolse un sorriso di cortesia, come se si volesse scusare per averlo fatto aspettare. Lui corrispose e, subito dopo, porse il passaporto al portiere. Questi gli fece capire che era al corrente della prenotazione e nel consegnargli la chiave della camera lo pregò di scrivere sul registro di entrata il suo nome e la provenienza. Fu allora che lesse il nome della sconosciuta che l’aveva preceduto: “Katharina von Raitenau – Vienna”.           

VIII

   La camera era decente. Non aveva bisogno d’altro, per quei due o tre di giorni che pensava di trascorrere a Firenze. Non sarà così semplice a Licodia Eubea, pensò, quando arriveranno i libri e la macchina da scrivere. Su questo punto ne avrebbe riparlato con il dottor Riccardi. 

   Desiderava fare la doccia, riposare un poco e cambiarsi. Era sicuro che qualche cameriera gli avrebbe stirato il vestito, così sgualcito dopo tante ore di treno. Sfece la valigia, sistemò nell’armadio le cose di uso immediato e andò in bagno. Ne uscì rasato, rilassato, felice. Un pisolino sarebbe stato salutare. Si era messo in testa di visitare un po’ la città quella stessa notte e voleva essere in buona forma fisica.

   Pensava che gli sarebbe bastato un quarto d’ora ma ne dormì due. Si affacciò alla finestra: le luci delle strade erano già accese. Vide sullo scrittoio dei fogli pubblicitari e una piantina della città con i principali monumenti. Localizzò la via del suo albergo e si rese conto di trovarsi non lontano da piazza del Duomo e della Signoria. Avrebbe chiesto in portineria un locale dove cenare (l’albergo non aveva ristorante) e là avrebbe deciso la passeggiata da fare.

   -Un locale decente, ma semplice.

   L’impiegato gli raccomandò una trattoria.

   -Il Latini. Via dei Palchetti. È a un tiro di schioppo, come si suol dire.

   E gliene indicò l’ubicazione sulla piantina.

   -Piatti tipici toscani e a buon prezzo. Cominci con un misto di prosciutto, salame, finocchiona e crostini e, poi, si lasci consigliare dal cameriere.

   Probabilmente si cenava più tardi che in Inghilterra: le strade erano molto affollate e i negozi ancora aperti. Bernard si sentiva alquanto emozionato. Sapeva di calcare una terra con uno spessore culturale considerevole. E, di questa terra, Firenze rappresentava il massimo fulgore. Gli vennero in mente nomi che non sempre riusciva ad associare a fatti o fatti che non sempre riusciva ad associare a date: Dante, Strozzi, Medici, Michelangelo, Savonarola, Giotto, Leonardo, Brunelleschi, guelfi e ghibellini, repubblica o ducato. E mentre l’elenco sfilava per la sua eccitata memoria, ammirava le vetrine con vestiti sontuosi e scarpe elegantissime, botteghe che esponevano davanti alla porta frutta e verdura dall’aspetto perfetto, librerie con autori già classici, come Carducci e Leopardi, accanto alle ultime novità di Giovanni Papini o di Massimo Bontempelli. Come pure osservava, affissi a pareti e colonne, manifesti pubblicitari e, accanto, proclami ufficiali con consegne politiche. E la continua presenza di individui con la divisa del partito, spesso ragazzini di otto o dieci anni che, come venne a sapere più tardi, si chiamavano balilla.

   Alla fine, dopo aver percorso un dedalo di vicoli, giunse al ristorante raccomandato. L’aspetto era semplice, popolare e simpatico. La lista dei piatti con i prezzi appesa alla porta lo convinse che faceva proprio al caso suo. Attraverso i vetri osservò che il locale era molto frequentato. Non c’erano tavoli separati, ma banchi e lunghi tavoli sui quali i fiaschi di vino passavano di mano in mano. Entrò, ed ebbe un momento di indecisione, mentre cercava un posto libero. Di colpo, scorse in un banco del fondo un volto familiare: quel sorriso, quei capelli… Era, senza dubbio, la ragazza dell’albergo che dava una occhiata alla sala quasi piena. Non c’era nessuno accanto a lei e, con un gesto di cortesia, invitò il semisconosciuto ad occupare il posto libero. Bernard ricordava, per averlo letto nel registro, che era di Vienna e la salutò con una delle due o tre frasi di tedesco che sapeva:

   -“Guten Abend!”

   -“Guten Abend!”, rispose la ragazza, e chiese subito dopo:

   -Tedesco?

   -No!- rispose. -Inglese.

   Nel frattempo un cameriere, con l’abituale “prego!”, invitò il giovanotto a sedersi mentre gli metteva davanti piatto, posate e un cestino di pane.   

   -Perché, allora, mi ha parlato in tedesco?- chiese la ragazza in corretto inglese.

   -Nel registro dell’albergo ho visto che veniva da Vienna.

   -Sì, sono austriaca.

   -Suppongo che il portiere ha raccomandato anche a lei questo ristorante.

   -Sì, è così.

   Tornò il cameriere a prendere l’ordinazione e Bernard, con un sorriso, chiese:

   -Ha detto anche a lei di ordinare il misto di prosciutto, salame…?

   Il cameriere non lo lasciò finire. Credendo che si trattasse dell’ordinazione disse:

   -Per due?

   Risposero di sí.

   -E poi? Dentice alla paesana, triglie alla livornese, bistecca alla fiorentina, lombata di vitella, cibreo di rigaglie…

   -Credevo di conoscere un po’ l’italiano, ma non ci capisco un’acca- disse Bernard.

   Risero un momento, e alla fine ordinarono una bistecca alla fiorentina, più o meno sicuri di conoscere quello che avrebbero loro servito.

   -Anche a me succede la stessa cosa. E se per lei fa lo stesso, preferirei parlare in italiano. Dopotutto, ho bisogno di perfezionarlo.

   -Anch’io- aggiunse lui. -Non sono mica un turista, sa?

   -Neanch’io. Mi trovo in Italia per studio e lavoro.

   -Accidenti! Anch’io! Con una borsa di studio. Faccio storia.

   -È incredibile!- aggiunse lei. -Ho anch’io una borsa di studio. Faccio archeologia.

   Continuarono a conversare durante la cena, ma con una certa cautela, poiché sapevano di trovarsi in un Paese dominato da una dittatura e temevano, per così dire, che i camerieri fossero delle spie. Finché la ragazza, quando la conversazione scivolò su argomenti politici, disse:

   -Detesto le dittature!

   -In effetti- rischiò lui -sono venuto a studiare il fascismo da vicino. Storia contemporanea.

   -E pensa di farlo qui, a Firenze?

   -No. Sono solo di passaggio. Un amico di mio zio mi ha detto… Uffa! È una storia lunga. Insomma, uno di questi giorni andrò ad abitare in Sicilia.

   Il volto di lei divenne un mutevole campionario di emozioni: diffidenza, sorpresa, divertimento, incredulità…

   -Lei mi ha spiato!- esclamò infine, accompagnando le parole con una risata sonora e franca.

   -Perché, che ho detto?

   -Perché quella che va in Sicilia sono io!

   -Davvero?

   -Vero, come vero! Devo risolvere qui alcune cose, con certe persone… Ma anche questa è una storia lunga e complicata. Insomma: spero di poter lavorare a Piazza Armerina.

   -Dove?

   -Non le suona questo posto?

   -È la prima volta che ne sento parlare.

   -Non vado proprio in città, ma in un accampamento situato a pochi chilometri, dove degli archeologi stanno scavando una villa romana che pare sia immensa: sale, peristili, portici e, soprattutto, mosaici magnifici. Per una principiante come me si tratta di una occasione unica. Gli esperti dicono che la villa data dei primi secoli della nostra era e che, forse, era ancora abitata al tempo dei normanni.    

   -E cos’è successo?

   -Terremoti, probabilmente. Fu scoperta verso la fine del secolo scorso sotto una immensa cappa di fango disseccato. Poi, gli scavi si fermarono fino al 1929, e ora sono stati ripresi.

   -Io vado a Licodia Eubea- aggiuse lui.

   -Ora è lei ad essere in vantaggio. È la prima volta che ne sento parlare.

   Subito dopo, con quella volubilità che la rendeva incantevole, aprì una borsa che aveva accanto a sé, ne trasse una carta geografica della Sicilia e l’esaminò per un bel po’.

   -Guardi!- disse. -È incredibile!

   E lo era: da Licodia Eubea a Piazza Armerina non c’erano che una cinquantina di chilometri.

   -E se non potesse andare a Piazza Armerina?

   -Mi resta Selinunte.

   Osservò la faccia afflitta del giovane e aggiunse:

   -Verso Agrigento, a sud. E lei?

   -Anch’io voglio andare a sud. Ma a Castelvetrano.

   -Storia?

   -Per completare il mio lavoro. Voglio respirare l’ambiente di quel paese. A Castelvetrano è nato Giovanni Gentile, un grande pedagogo, direttore dell’Enciclopedia Italiana e teorico del fascismo. La sua opera “Fascismo e Cultura” è un classico per gli studenti com me.

   E lei, come non volesse continuare l’argomento, disse:

   -Perdoni, non mi ha ancora detto il suo nome.

   -Bernard Quayle.

   -Ebbene, signor Quayle, lasci che le dica una cosa. Non so se ci rivedremo qui, in Sicilia o altrove. Ma voglio che lei sappia, con tutta chiarezza, che detesto il fascismo, che vengo da un Paese dove sappiamo molto bene cosa significano le dittature, che io provengo da una famiglia liberale e che…

   S’interruppe un istante, abbandonò il tono di voce irritato e con molta gentilezza e soavità aggiunse:

   -Perdoni. Sono stata molto sconsiderata. Non la volevo offendere.

   -Non mi ha affatto offeso. Neppure io sono fascista, benché mi interessino alcuni princípi di quella dottrina applicati alla vita politica. Sono venuto in Italia per studiare, al pari di lei. Lei si interessa al passato e io al futuro.

   -La ringrazio per la sua comprensione. Forse un giorno… Lasciamo perdere. L’ Austria non è un Paese fortunato e oggi i von Raitenau non sono ben visti.

   Non andarono oltre. Bernard comprese che erano entrati in un terreno delicato, nel quale lui non aveva ancora accesso.

   Fece un cenno al cameriere e questi portò il conto.

   -No, in nessun modo!- protestò la ragazza, quando si accorse che Bernard aveva l’intenzione di pagarlo.

   -Chissà se ci rivedremo- si scusò lui. -Dopo una serata così piacevole, mi lasci credere che  mi ha concesso l’onore di poterla invitare.  

   -Spero che sarà così gentile da accompagnarmi in albergo!- sorrise lei.

   -È’ sulla mia strada.

   E risero entrambi.

   Poi, una conversazione che pareva non avere fine. Vivevano in un privilegiato ambiente culturale e, benché ognuno avesse le proprie preferenze, tuttavia sembravano completarsi tra loro piuttosto che essere antagonisti.

   Sboccarono a Santa Maria Novella, avanzarono verso il Duomo, scesero alla Signoria e da lì verso l’Arno, videro il Ponte Vecchio, costeggiarono il fiume prima di far ritorno all’albergo e non smisero mai di parlare, di meravigliarsi, di ridere, di vivere un insolito appagamento fatto di emozioni personali e dirette, uniche e umanissime, e favorite, anche, dal contatto con le porte di bronzo del Ghiberti, dal campanile di Giotto, dalla loggia ove c’era il Perseo del Cellini, dall’intera somma di un mondo che sembrava fatto per esaltare lo spirito. Erano ore che stavano insieme e non se accorsero finché non videro le porte del Byron.

   -Suppongo che ci potremo rivedere- disse lui, quando erano già nel vestibolo.

   -E perché no? Non ho ancora potuto fissare il giorno della partenza.

   -Neppure io. Ma non credo di trattenermi più di due giorni.

   -Se le pare, potremmo cenare assieme, domani. Sarò occupata tutto il giorno e non posso prendere impegni.

   -Io pure sarò occupato.

   Bernard, ritenendo che entrambi avessero problemi simili, aggiunse:

   -Ho un amico, qui, a Firenze. Se lei dovesse aver bisogno di qualcosa, sono sicuro che l’aiuterebbe. È’ antifascista- aggiunse sorridendo.

   -Grazie. Glielo dirò domani sera.

   -D’accordo?

   -Allo stesso posto di oggi? Alle nove?

   -D’accordo.

   L’indomani, Bernard rimase meravigliato dell’efficenza del dottor Riccardi. Gli aveva già trovato l’alloggio a Licodia Eubea, era in parola a Messina per una Fiat a  buon prezzo e gli aveva scritto delle lettere di raccomandazione per persone di sua fiducia…

   -Abbiamo avuto fortuna. Una cosa splendida, un mezzo palazzo, del quale lei potrà occupare un intero piano indipendente, con una scala sul di dietro che dà su un gran giardino. Al pianoterra abitano i proprietari, due sposi che si occuperanno di tutto: la roba, la pulizia, la tavola…

   Poi Bernard gli parlò del suo incontro della notte precedente.

   -Sì, certo, ha ragione questa ragazza: Piazza Armerina è diventata un posto privilegiato per gli archeologi.

   Bernard si vergognò della sua ignoranza e lo disse.

   -Non si preoccupi. Ci sono italiani che credono che Londra sia la capitale degli Stati Uniti.

   Discussero, poi, come organizzare il viaggio.  

   -In Sicilia si può andare per mare, da Livorno o, via terra, fino a Reggio e poi attraversare lo stretto.

   Bernard era dell’opinione che la miglior cosa da fare, per risparmiare, era affidarsi a una agenzia di viaggi. 

   -Come vedi, potresti partire domani stesso.

   -Sì, è vero, ma Firenze allora? Non ho visto neppure un museo, né una chiesa, né un palazzo…

   -Sfrutti il pomeriggio. E se vuole, potremmo cenare assieme.

   -Sono spiacente, dottore. Mi creda, sono spiacente. Ho preso un impegno e…

   -Come ha detto che si chiama?

   -Katharina.

   -No. Voglio dire di cognome.

   -Von Raitenau.

   -Non mi è nuovo. Non so perché, ma non mi è nuovo!

   Bernard credette d’avere, come si suol dire, una buona idea:

   -Perché non viene a cena con noi?

   -Dov’è l’appuntamento?

   Bernard gli dette il nome e l’indirizzo del ristorante.

   -Alle nove, dottore. L’aspettiamo.

   -Verrò.

   Il pomeriggio non passava mai. In albergo, chiese della signorina von Raitenau e gli risposero che non l’avevano vista in tutto il giorno. Poi, si ubriacò di nomi e di pittura, andò da un posto a un altro senza sapere ciò che ammirava e neppure se gli interessava. È’ superfluo dire che alle otto e mezza era già al ristorante. Katharina arrivò con alcuni minuti di anticipo e Bernard le spiegò che sarebbe venuto anche il dottor Riccardi.

   -L’inviteremo noi- disse lei.

   La serata non fu così eccitante come quella precedente, ma il dottor Riccardi simpatizzò con la ragazza, la ragazza con lui e il risultato fu soddisfacente.

   – Spero di poter risolvere tutti i miei problemi in una settimana- affermò lei. -Mi accetteranno, sicuro, mi accetteranno.

   Il dottore proseguì con la sua curiosità.

   -Von Raitenau, vero?

   -Sì, dice bene.

   -E dove l’ho già sentito?

   -Forse a Salisburgo- aggiunse lei. -Ma sono trascorsi molti secoli- concluse sorridendo.

   Anche il dottore sorrise, come se avesse capito la risposta che, per Bernard, non aveva alcun significato. Fu sul punto di chiedere chiarimenti, ma ebbe l’impressione che la ragazza preferisse non parlare di sé né dei suoi. 

   All’uscita dal ristorante, il dottore si offrì di accompagnarli con la sua auto, ma preferirono ripetere la passeggiata, tale e quale alla notte precedente. L’indomani mattina andarono assieme all’agenzia di viaggi dove lui fece il biglietto per il giorno dopo e lei ne approfittò per avere delle informazioni. Poi, visitarono dei musei, fecero alcune puntatine primaverili ai giardini di Boboli e una terza cena in quella trattoria che ormai  sentivano un po’ loro.

   -In Sicilia avrò una macchina- disse lui. -Una Fiat di seconda mano.

   Era un modo come un altro per farle capire che aveva voglia di rivederla.

   -Questo è il mio indirizzo a Licodia- e glielo scrisse.

   -Io ancora non conosco il mio- disse lei, scusandosi.

   -Sì, è naturale. Se le cose fossero andate in un altro modo, probabilmente avremmo potuto fare il viaggio assieme.

   -Chissà quando potrò partire. Fra una settimana, forse. O forse più.

   Se lei, invece di dargli quella risposta, gli avesse chiesto di aspettarla, lui avrebbe acconsentito immediatamente. Firenze era una città meravigliosa e non aveva fissato il giorno esatto del suo arrivo in Sicilia. Tuttavia, Bernard ebbe la sensazione che la ragazza non fosse particolarmente interessata a riprendere il rapporto, né, tantomeno, aveva l’aria di quelle che civettano e vogliono essere pregate più di una volta.

   Entrarono nell’albergo e si separarono come due persone che si erano conosciute per caso durante un viaggio, che avevano simpatizzato e che ora si trovavano nella logica esigenza di intraprendere separatamente il proprio cammino.

   “È logico- pensò Bernard, -ma è triste”. 

IX

   Quella passione per l’ordine che sempre l’aveva caratterizzato -ordine che era un po’ la sua seconda natura- gli permetteva ora di rivivere delle emozioni che solo Katharina, se fosse ancora viva, avrebbe potuto condividere.

   Le provava ora, mentre guardava quel pezzetto di carta, quel conto che aveva viaggiato assieme a lui attraverso mezzo mondo e che era saltato fuori all’improvviso, un po’ ingiallito, fra tanti documenti. “Ristorante Il Latini – Via dei Palchetti – Firenze – 3 aprile 1937 – 2 misto di prosciutto – 2 bistecca alla fiorentina – 2 tiramisù – pane e coperto – vino”.

   Per un brevissimo istante, nella lunga durata della vita, avevano condiviso tavola e cibo. Sembrava una sciocchezza, ma non lo era. Il corrimano non è essenziale quando saliamo le scale, ma ci aiuta. E la stessa cosa avviene con l’ascensore della memoria. Il cibo non era il motivo principale di quell’atmosfera di piacere, ma ora lo aiutava a ricordare, a fissare il momento con precisione, a dare valore a tutto ciò che di impalpabile poteva esistere nel profumo di un tiramisù. Pensò di definirlo come il seme dell’amore.

   Ma la realtà è dura, poiché il seme, quando lo teniamo tra le mani, ci pare una cosa minuta, senza valore e importanza. Ci occorrono molti anni per capire. Abbiamo bisogno di esperienza, d’aver visto molte sementi -nelle nostre o nelle altrui mani, fa lo stesso- per conoscere tutto il beneficio che possono dare quando fanno dei frutti perfetti.    

   La prospettiva temporale ci rende saggi. Ma cosa ricaviamo dalla saggezza quando abbiamo ormai perso la gioventù? In quell’istante ripercorreva il suo passato con una grande dose di amarezza, proprio perché conosceva quale fosse il futuro delle sue illusioni. O, forse, sarebbe stato meglio chiamarli sogni? Il sogno è la speranza di una realizzazione. Nel sogno la volontà ha una importanza capitale. Ma dopo, nella vita normale, quando prevalgono fatti che non abbiamo desiderato e situazioni nelle quali non siamo intervenuti, la volontà si trasforma in una specie di ruffiana che ci spinge a vivere l’immediatezza e a detestare le difficoltà. Non era stato capace d’essere l’eroe che la semente prometteva. Non sempre l’ uomo è il muratore della propria casa.

   Se non si fossero rivisti mai più, tutto sarebbe rimasto -seppure ne restava qualcosa- come una di quelle fragilissime avventure d’estate che non dànno mai frutto. Però ci fu la Sicilia. I torridi meriggi di agosto nel suo piccolo palazzo di Licodia Eubea, con l’acqua fresca del canaletto, i pampini ombrati dal fico nell’orto, l’uva che faceva capolino con i suoi chicchi nel pergolato, i finestroni aperti sul davanti e sul retro della casa e la brezza della sera -una brezza secca, profumata di senape dei  campi e di timo- faceva volare le tende di tutti gli altissimi balconi. E lì, c’era Katharina, seduta tra tanta bellezza, in silenzio e con la fronte un po’ sudata. Quella Katharina che gli parlava dei suoi genitori sorvegliati dalle SS, che sapeva cantare con una modesta voce di semplice bellezza. E poi un po’ di focaccia o di pastasciutta con un bicchiere di vino per cena e nuovamente a Piazza Armerina per lasciarla all’accampamento e rifare la domenica, tutto solo, la via del ritorno.                  

   Quante erano le stelle nel cielo della Sicilia? Non potè mai contare quelle che, per un certo tempo, cercarono d’indicargli la rotta del suo viaggio. Quando andiamo a scuola, quando ci iscriviamo al’università, quando incominciamo a vivere tra gli adulti con una certa nostra identità, bisognerebbe che qualcuno ci dicesse che di viaggi c’è n’è uno solo.

   Ma lui non lo sapeva. Sì, certo, era riuscito a scoprirlo, ma ormai era troppo tardi. E ora, quando voleva fermare il tempo per un paio di mesi e cercare di recuperare un brandello di quell’ appagamento perduto, si scontrava sempre con la morte quale unica risposta, una immensa ondata di morte che aveva coperto tutta l’Europa, quasi tutto il mondo.

   Sì, proprio a Firenze era caduto assassinato Giovanni Gentile, per il quale si era talmente interessato da andare fino a Castelvetrano. E l’avevano ucciso come un cane, così come a Mezzegra avevano ucciso Mussolini e la sua amante. La morte degli altri -i genitori, lo zio Arnold, i suoi professori di Cambridge- era logica, necessaria per mantenere l’equilibrio statistico.

   Aveva perso l’indirizzo del dottor Salvatore Riccardi, ma non era il caso di scrivere ai cadaveri. Dove si stavano sbriciolando le ossa di donna Agata e di compare Lanzara, che così bene l’avevano accudito durante i sei mesi trascorsi al palazzo di via Mugnos? Gli anni, dicono, fanno tabula rasa di tutto. Ma c’erano gli altri morti, quelli della guerra, quelli dell’immenso olocausto, del quale lui fu solo una modesta pedina periferica, là lontano, in una colonia del Pacifico. E colà, lontano, seppe che Katharina era sopravvissuta al quell’inferno.

   Era un po’ che dedicava i suoi pensieri a conoscenti e a estranei, timoroso, come sempre, di affrontare la verità della sua vigliaccheria. Questo sì che lo ricordava bene: aveva distrutto gli indirizzi dove, in futuro, avrebbe potuto localizzare una smarrita Katharina. Il suo senso del dovere -un dovere che aveva dei nomi: Vera, Kathleen, Paul- l’indusse a cancellare dalla sua vita qualsiasi nesso tra passato e presente. Ebbe sempre la paura di non poter resistere a quel grido d’amore. Mentre lo viveva -mentre viveva la paura- quell’amore gli sembrava quasi un possibile peccato, quasi una slealtà nei riguardi di coloro che vivevano sotto il suo tetto. Solo più tardi si era reso conto d’aver deposto i suoi sacrifici sull’altare dei falsi dei e che la vita vera gli era fuggita via, definitivamente, là a Ceylon, nel 1945, quando ricevette una lettera di Katharina, spedita da Vienna, e gli mancò il coraggio di aprirla. Lui era una autorità nell’isola, era il capo della polizia. E, abusando del posto che occupava, rispedì la lettera senza aprirla, con un timbro sul di dietro che diceva “Scomparso”, come se fosse stato una delle tante vittime delle bombe giapponesi.

   Adesso si confortava con quell’idea del viaggio, un viaggio che avrebbe potuto intraprendere oggi stesso se il dottor Barrington gli avesse prescritto un calmante efficace che lo liberasse da una fin troppo incombente incapacità. Se gli avessero potuto garantire non due mesi di vita, ma uno solo però di completo appagamento, si sarebbe sentito in animo di ripetere l’itinerario d’una volta: tornare all’hotel Byron e al ristorante Il Latini, rivedere la vecchia casa del dottor Riccardi, rifare le passeggiate con lei, volare in Sicilia e visitare Licodia Eubea e, forse, ritrovare degli amici d’un tempo e andare a vedere i mosaici, ora già scoperti, della villa del Casale, vicino a Piazza Armerina. Di colpo, gli tornò alla memoria un particolare che aveva dimenticato col passare degli anni: lì, all’accampamento, dove convivevano operai e borsisti, uno studente aveva avuto l’idea di raccogliere in un album le firme di tutti i visitatori. Si sarebbe fatto dare l’album e avrebbe comprovato l’ unione dei loro due nomi. Non Katharina e Bernard, separatamente. No affatto. Ricordava come le lettere si sovrapponessero, si abbracciassero, si amassero, si unissero in una specie di infantile desiderio di perdurare.

   Poi, sarebbe andato a Vienna. Quel cognome -von Raitenau- non era affatto frequente. Ora sapeva tutto su quell’antenato, arcivescovo di Salisburgo. Avrebbe cercato un albergo, avrebbe chiesto l’elenco telefonico e avrebbe cominciato a telefonare a tutti i Raitenau. Una fede assurda -”la fede di un moribondo”, pensò- gli faceva credere che la fortuna l’avrebbe accompagnato e che, nel momento di propiziarla, non sarebbe stata forse del tutto inutile l’offerta compensatrice di quasi cinquant’anni di inutilità.          

   Alle tre di notte entrò sua figlia.

   -Mi sono svegliata e ho visto la luce. Devi riposare.

   -Sì, hai ragione.

   Ma era come se gli avessero spezzato il filo sottilissimo che lo univa a un mondo che avrebbe voluto recuperare a qualsiasi prezzo, mentre cercava di evitare, in ogni momento, l’altro mondo, quello non desiderato.

   L’idea di andare in camera da letto, di svegliare Vera o, semplicemente, di vederla addormentata e pateticamente indifesa, gli divenne insopportabile. A diciott’anni gli avevano inculcato l’idea che era immorale osservare di nascosto una ragazza mentre si vestiva o si spogliava. Ora, la proibizione gli sembrava ridicola. Dietro quel desiderio c’era, per lo meno, un qualcosa di naturale, una specie di vittoria della carne e della bellezza e un desiderio permanente di perpetuazione.  Veramente immorale, invece, era contemplare una donna che è stata tua a vent’ anni e che ora ne ha settanta, una donna che si è tolta il trucco, che ha lasciato la dentiera in un bicchiere di vetro nel bagno, che dorme sul fianco destro e col braccio sinistro preme i seni avvizziti che le scivolano giù verso il ventre.

   Gli venne alla memoria Katharina, il giorno in cui fece il bagno sulla spiaggia di Selinunte! Quelle cosce snelle, quei seni minuti sotto il costume da bagno, quella bellezza accessibile, generosa e, tuttavia, rispettata.

   -È pronta la camera di Paul?

   -Sì. La mamma aveva pensato che forse sarebbe rimasto a dormire.

   -Ci dormirò io.

   Era come l’inizio di un adulterio. O chi sa se di una fedeltà ormai inutile. In ogni caso, da quel momento non avrebbe più dormito accanto a sua moglie.

X

   Non avrebbe mai immaginato che il sud dell’Italia avesse quella configurazione così aspra. Associava alcune regioni povere -Basilicata, Calabria- con l’idea di immense pianure aride, bruciacchiate dal sole, nelle quali non prosperava che un grano esile, minacciato da ogni specie di erbacce. E ora, al posto dell’immaginata sterpaglia -steppe, erica, agavi, rovi- mezzo morta di sete in un terreno sabbioso, scopriva un susseguirsi di montagne che sembravano non avere mai fine, accidentate, vigorose, coperte di pini e di castagni.

   Ancora una volta fu sorpreso dalla sua ignoranza. Non ricordava se quelle nozioni gli erano state insegnate a Cambridge. In ogni caso, non gli erano rimaste impresse. Dopotutto, siamo selettivi e, tranne alcune poche nozioni che ci sono state inculcate con straordinaria insistenza, tutto il resto dipende da ciò che già volevamo sapere prima che ce lo insegnassero, come se dovessimo soddisfare un desiderio personale.

   Quando lasciò l’albergo per dirigersi alla stazione chiese in portineria se c’era qualche messaggio per lui. Gli fu risposto di no. Allora chiese se la signorina Raitenau era ancora nella sua camera e gli fu risposto che era già uscita. Nulla, dunque: neanche una parola di commiato. In verità, non si sentiva troppo rattristato, ma gli doleva quell’indifferenza.

   Nel vagone che lo portava verso il sud si compiaceva nell’evocare la ragazza. In realtà, la vedeva con maggiore nitidezza di quando l’aveva avuta accanto. Era alta e snella, con una vita molto delicata, che le dava un’aria particolare, armonica. Stava sperimentando qualcosa di molto curioso, che nessuno gli aveva mai fatto provare: più che camminare sembrava scivolare, procedere ritmicamente, con una grazia che pochissimi animali possono offrire. Certo, c’era anche il corpo. Non che lui avesse chiare preferenze. Non sempre la bellezza è il risultato di proporzioni matematiche. Sicuramente ci sarebbe stato più di un giovanotto che avrebbe considerato Katharina una ragazza eccessivamente spilungona. Lui, però, era dell’opinione che non c’era nulla da modificare. Avvertiva in lei qualcosa di insolito, come se un più profondo senso della perfezione affermasse che era giusto che fosse fatta così. Questa sensazione d’equilibrio intimo veniva confermata nei pochi momenti in cui lei avvertiva qualche sintomo di stanchezza e pareva allentare quella specie di tensione che la manteneva viva. Se poi chiudeva gli occhi si trasformava, automaticamente, in una statua. Di cosa? Di quale allegoria? La risposta, benché semplice, non smetteva di sorprendere: nella statua di se stessa.

   Il volto era una parte molto importante. Specialmente gli occhi. E non per il colore. O, non solo per il colore. Ciò che li rendeva più interessanti era la loro capacità comunicativa e la loro sincerità. Trasmettevano sorpresa, umore, sofferenza, dubbio, gioia, riflessione, ironia. Poi, la bocca. Sottile, delicata, priva di quella esiguità che hanno le bocche crudeli e, ancor meno, di quella carnosità delle bocche volgari. E come fosse un complemento degli occhi, sapeva manifestare pensieri ed emozioni. Le orecchie, piccole, si presentavano cesellate con perfezione quasi di orefice. I capelli, lunghi, di un biondo un po’ oscuro, erano raccolti, di giorno, ma non sempre, in trecce e, di notte, li scioglieva come un piccolo torrente di luce dorata.

   Tutto quell’involucro carnale racchiudeva qualche cosa. Lo voleva paragonare a quelle lanterne di ferro battuto, di elaborata bellezza, che acquistano tutto il loro significato solo quando le vivifica una luce interiore. E così era lei con il suo spirito, come se il corpo fosse solo il veicolo perfetto per la fiamma.

   Nel mondo del pensiero tutto era irreprensibile. Tuttavia, non gli aveva lasciato neppure un misero messaggio, né un saluto di commiato, né una parola così semplice come “Grazie!”. Era normale un simile comportamento? Lui non aveva alcuna esperienza. Forse l’avrebbe potuta fare a Cambridge, in occasione di qualche festa di fine corso, con un po’ di punch (più limone che rum) e le quattro ragazze invitate. Ma neppure lì riusciva ad avere uno di quei flirt che non comportano ulteriori conseguenze. Era troppo noioso. Sembrava che non vi fosse differenza tra il Bern che usciva dall’aula e quello che entrava nella sala da ballo. E le ragazze lo evitavano. Perché ora aveva l’impressione che i rapporti con quell’ austriaca erano stati diversi? In quale altra sorta di relazione aveva sperato?

   Il treno proseguiva la sua corsa, indifferente alla distanza che lo separava sempre più da lei. Quanti nomi, quasi mitici, s’era lasciato indietro! Roma e Napoli, per esempio. Avrebbe potuto scendere e passeggiare per quelle città, perdersi tra la gente e cominciare il suo lavoro di ricerca in àmbiti concreti. Vedeva delle fotografie di Mussolini mentre arringava il popolo dal balcone di Piazza Venezia con frasi come “L’Italia ha finalmente il suo Impero!”

   Grazie al dottor Riccardi, aveva potuto risolvere molti problemi. Stava per arrivare a Reggio Calabria, attraversare lo stretto lo stesso pomeriggio, dormire a Messina e, l’indomani, andare a prendere l’automobile in parola e iniziare così il suo itinerario per l’isola. Se ripensava al passato, avrebbe certamente avuto l’impressione d’avere lasciato l’Inghilterra da una eternità. Rivedeva alla stazione la madre, il padre e lo zio che gli dicevano addio, gli facevano le ultime raccomandazioni, che poi sembrano sempre inutili. Un giorno ancora e sarebbe arrivato a destinazione. Tutto procedeva bene, quindi. L’aspettavano un’automobile di sua proprietà, un ambiente accogliente, una casa degna, interlocutori di fiducia. Sì, tutto procedeva bene. Tuttavia, perché provava allora quella specie di fastidio? Perché, invece di sentirsi esultante, pensava a quella notte e all’indomani e a tutti gli altri giorni come a un obbligo?

   Le persone che viaggiavano nel suo scompartimento erano incantevoli. Gli avevano offerto, con generosità del tutto spontanea, il loro cibo, il loro tabacco, il loro vino, la loro frutta. Alcuni giovani canterellavano le melodie di moda trasmesse profusamente dalla radio, e dei bambini si divertivano davanti ai finestrini. E poi c’erano contadini, mezzo addormentati, cullati dal movimento del treno. Il tutto aveva un carattere irripetibile di cosa viva, un carattere che non aveva mai visto viaggiando in treno nel suo Paese.

   Tutto ciò gli piaceva. Accettava e ricambiava. Era un mondo diverso, uno stile di vita diverso, e si sentiva appagato. Ma provava sempre un certo disincanto quando pensava che quel dono che la nuova vita gli offriva avrebbe potuto spartirlo con una ragazza che non gli aveva lasciato né una parola, né un saluto, né un commiato.     

   Cercò di dimenticare ciò che sarebbe potuto essere e non fu, trascinato dalla fretta della gente e dalle spinte sul marciapiede mentre cercava l’uscita. Bauli, cestelli, biciclette, bambini, frutta, grida e una specie di fila, più grossa delle altre, che si dirigeva alla stazione marittima per prendere il vaporetto per Messina. Quando il bigliettaio gli chiese se voleva andata e ritorno, gli parve, per il solo fatto di rispondere “Solo andata”, di stabilire una divisione definitiva tra passato e  presente.

   Il mare, d’una calma assoluta, era solcato da ogni tipo di imbarcazioni: immensi transatlantici, che forse facevano rotta verso l’America sognata, piccoli vapori da cabotaggio, rimorchiatori in movimento, pronti a fare da guida ai grandi e ciechi pontoni in quella specie di labirinto pullulante, imbarcazioni da diporto che mostravano l’eleganza perfetta della bianca vela latina. Non c’era, però, l’azzurrità sperata. Le coste della Sicilia, situate a così breve distanza, si intravedevano in mezzo a una caligine che toglieva chiarore al cielo e luminosità all’acqua. Abbondavano, invece, i madreperla e i rosa che, con le loro delicate tonalità, davano al paesaggio una bellezza più raccolta.

    Il tragitto fu breve. Sbarcò a Messina e fu sorpreso dalla notevole vivacità della città. Era immensa, con grandi viali, un transito assordante e alquanto caotico per il confluire di automobili, carrozze, biciclette e carri enormi trainati da cavalli corpulenti.  

   Poiché ignorava la sua prossima destinazione, lasciò le valigie al deposito  bagagli e si assicurò che fosse arrivato il baule dei libri spedito da Cambridge. Poi, chiese di via Manara, dove doveva trovare la Fiat di seconda mano. Non era troppo lontana, e così, decise di andarci passeggiando. Per fortuna, la prima parte del contratto sembrava corretta: in quella ditta specializzata nella vendita d’automobili avrebbe trovato quella che faceva al caso suo. Il padrone, una persona seria, parlò del dottor Riccardi come se i due fossero legati da vincoli di amicizia, senza esprimersi, però, con esagerate manifestazioni di affetto, bensí con convincente sobrietà. Confermò il prezzo pattuito per telefono e Bernard lo tradusse mentalmente in sterline: gli parve una somma francamente modesta se la paragonava ai prezzi del suo Paese.

   -Poiché il dottor Riccardi mi ha spiegato i motivi dell’acquisto, le farò una proposta: se alla sua partenza dalla Sicilia la macchina si troverà in buone condizioni, gliela ricomprerò a un prezzo ragionevole.

   Era più di quanto Bernard potesse sperare. Doveva solo mettersi d’accordo per il disbrigo dei documenti e su come effettuare il pagamento.

   -Ho una lettera di credito- disse.

   -Mi lasci il suo passaporto: prenderò nota di tutti i dati e domani mattina sbrigherò le pratiche per il cambio. Se viene alle dodici, troverà la macchina a nome suo. Poi, potremo andare assieme in banca.

   -Ho sempre problemi di contanti.

   -Lei pensa di sistemarsi a Licodia, non è vero?

   -Sì.

   -A poca distanza c’è una città importante: Caltagirone.

   -Ci devo andare.

   -La miglior cosa da fare, quindi, è aprire un conto. Eviterà così qualsiasi problema se vorrà pagare con assegni o ricevere denaro.

   Il gentile venditore -il dottor Riccardi gli aveva detto il suo nome: Andrea Sascia- gli raccomandò l’albergo ove trascorrere la notte. Dopo avervi portato le valige, si accorse d’avere ancora a sua disposizione parte del pomeriggio e decise di passeggiare per la città. Una delle cose che maggiormente attrassero la sua attenzione fu la pressoché totale modernità delle strade, dei viali, dei giardini, degli edifici e delle chiese. Tutto sembrava nuovo o ricostruito. La spiegazione era deprimente: i terremoti radevano al suolo Messina con drammatica insistenza. Desideroso di  conoscere altri dettagli di quella calamità geologica, venne a sapere che l’ultima grande catastrofe, quella del 1908, aveva distrutto quasi per intero la città e causato migliaia e migliaia di vittime.

   Tenacità e avversità. Poteva essere questo un buon inizio per il suo lavoro. C’è un Paese sottoposto alle prove più dure. La terra è accidentata, aspra, difficile da coltivare. Il clima è secco, povero di piogge, propenso a temibili tempeste locali. I fiumi, inesistenti. I terremoti e l’attività dell’Etna sono gli elementi distruttivi che bisogna aggiungere alla miseria originale. Le industrie non riescono a creare posti di lavoro sufficienti a frenare l’emigrazione. I proprietari terrieri vogliono mantenere i loro privilegi in un Paese in cui la produzione agricola non potrà mai essere prospera. I piccoli contadini vivono a stento su pezzetti di terra di penosa aridità o sono sfruttati dai grandi proprietari. Gli investimenti dello Stato centrale sono quasi inesistenti, essendo più redditizi quelli destinati al nord. Questo è il panorama. O, per meglio dire, lo era fino all’arrivo del fascismo. Se Mussolini è riuscito a prosciugare ae paludi pontine, tradizionali focolai di malaria, trasformandole in una ricca zona agricola, quali opere di grande impegno avrebbe potuto realizzare in Sicilia? O forse l’orologio che là segna le ore si è fermato all’epoca feudale?

   Bisognerebbe accertarlo, così come, prima o poi, avrebbe dovuto porsi il problema della mafia e cercarne una spiegazione. Disgraziatamente, la spiegazione di questi cancri sociali risiede sempre nella miseria o nella paura.

   Prima d’andare a cena in uno dei tanto locali che proliferavano nel quartiere del porto, comprò un giornale per mantenersi informato e per far passare un po’ di tempo. Le notizie riguardavano, soprattutto, la guerra civile spagnola e criticavano il governo britannico per non essersi unito al blocco delle coste cantabre decretato dal generale Franco. Si parlava, apertamente, degli aerei italiani che, con base a Maiorca, bombardavano la città di Barcellona. E non mancavano gli strateghi che cercavano complicate giustificazioni alla sconfitta delle camicie nere del generale Mario Roatta a Guadalajara nel marzo precedente.

   Dopo cena fece un altro giretto, lasciandosi andare per vie sconosciute e sperando d’imbattersi, di colpo, in un angolo inatteso: l’ambiente di un caffè, la magia di un giardino, la bellezza di una facciata nobile o -e perché no?- la grazia fuggente di un volto femminile.

   Si era proposto di non pensare più alla ragazza di Vienna ma, subito dopo,  pensò di telefonarle quella stessa notte. Aveva riposto nel portafoglio la fattura dell’ albergo e il conto del ristorante con i rispettivi numeri telefonici. Quanto avrebbero tardato a dargli la linea per Firenze? Provò, però, una specie di vergogna, l’ impressione di rendersi ridicolo, e si chiuse in camera, pronto a riempire di appunti il suo diario di viaggio e a preparare un elenco di tutte le cose che voleva acquistare l’indomani mattina, prima d’iniziare l’ultima tappa: una buona carta geografica, guide dell’isola, un manuale di storia locale, una antologia di letteratura autoctona, e qualche piccolo regalo di cortesia per i suoi futuri ospiti.       

   Si alzò presto, consegnò le valigie in portineria, lasciò l’albergo e uscì per sbrigare le quattro cose che aveva in programma. Alle dodici arrivò al negozio e il venditore lo fece passare nell’ufficio per consegnargli i documenti. Tutto era a posto.

   -Come ha fatto in così poco tempo?- domandò.

   -Qui siamo tra amici, e gli amici si aiutano…capisce?

   A Bernard parve, come per assurdo, di capire. Ricordò le lettere di raccomandazione che gli aveva scritto il dottor Riccardi ed ebbe l’impressione di essere entrato anche lui in un mondo differente, non ufficiale, retto da legami molto sottili.

   Poi si recarono in banca. Bernard pagò la quantità pattuita e, in segno di cortesia, invitò a pranzo il venditore. Questi accettò il pensiero, ma non l’invito: era a lui che competeva la gentilezza. A poco a poco, Bernard si impossessava dei particolari modi di dire della nuova lingua e la conversazione non risultò mai pesante. Ma, all’ora del caffè, -un caffè come non aveva mai sospettato che potesse esistere- il  discorso cadde nuovamente su un tema che conosceva ormai a memoria.

   -Il dottor Riccardi mi ha detto che lei è venuto nell’isola per scrivere un libro di storia o qualcosa di simile.

   -Sì: storia, archeologia… Vorrei andare a Piazza Armerina, a Selinunte- precisò, ricordando i progetti di Katharina.

   -Ciò che desidero dirle è che non si deve fidare troppo. Se non è dotato di un particolare istinto, è meglio che passi per scontroso che non per sfacciato. La Sicilia non è come l’Italia. Se ne accorgerà. Ma non vorrei accelerare le lezioni.

   -Perdoni: poiché mi parla in termini così schietti, sarò anch’io schietto. Perché ha detto “La Sicilia non è l’Italia”, invece di dire “La Sicilia non è come il resto dell’Italia”? Esistono, forse, germi nazionalistici?

   -Potrebbe darsi.

   -Tutto ciò mi disorienta. Di qui a poco sarò cauto come si conviene, ma ora mi permetta di chiederle se sbaglio o meno.

   -Dica.

   -In Sicilia, come in tutta Italia, il potere è nelle mani di una dittatura fascista. C’è anche, ridotta più o meno al silenzio, una opposizione formata da socialisti, comunisti, monarchici, liberali e democratici senza connotazioni precise. Come un secondo potere, che spesso agisce nell’ombra, troviamo la Chiesa, con i suoi ordini religiosi. Ma la Sicilia vive ancora dominata da un terzo potere più segreto: quello della mafia. E ora lei mi parla di minoranze nazionaliste che vorrebbero svincolarsi dalla tutela dello Stato. È così?

   -Stia attento, giovanotto. Ci sono italiani che in cinquant’anni non hanno imparato tanto quanto lei in una sola mattina.

   Poi, fecero un giro per la città con la Fiat. Bernard trovò molto scomodo dover guidare tenendo la destra, con tutte quelle leve messe dove non dovevano stare. Tuttavia, andarono alla stazione marittima a caricare il baule, fecero un piccolo giro fuori città, presero le valigie all’albergo e tornarono all’officina per gli ultimi controlli. Infine, arrivò l’ora del commiato.

   -La macchina è garantita per sei mesi, il tempo che dovrà trascorrere tra noi. Se ha un qualche inconveniente io verrò ad aiutarla ovunque ella sia. E mi faccia sapere se dovesse avere dei problemi (non della macchina, ma personali). Ho degli amici, come ben sa.

   Le quattro del pomeriggio. L’aspettava un lungo tragitto per strade sconosciute. Tutto bene fino a Catania. A metà del percorso, Taormina. Un posto per Katharina: rovine, teatro greco. Pareva come se tutta la Sicilia si fosse trasformata nel paradiso degli archeologi. E forse era proprio così, ma lui sapeva che il mondo che l’aspettava di lì a poco non sarebbe stato così imponente e cominciava a caricarsi di presagi di vita tumultuosa, agitata da qualcos’altro che non fosse la politica, e questo non se lo sarebbe mai aspettato a Cambridge.                

   Prese verso Siracusa, girò a destra verso Lentini e Francofonte, finché un cartello stradale gli disse che era arrivato. Quelle quattro case aggrappate a una collina soave, quel borgo desolato fra ondulate superfici di un terra che sembrava improduttiva, sarebbero stati la sua casa.

   -Via Mugnos?- chiese.

   -Tutto dritto. E poi, a destra.

   Era appena entrato in un mondo diverso, in una vita che doveva essergli di grande ispirazione. Non era possibile, dunque, che gli distruggesse l’anima.

XI

   Alla fine trovò la via e, nella via, la casa. S’era fatto notte e la scarsa illuminazione esterna non facilitava le cose. Provava, inoltre, una stanchezza enorme. Non aveva mai guidato secondo le norme del continente e quella tensione gli aveva procurato un bel mal di testa e una specie di gonfiore di tutti i muscoli del collo.

   I fari della macchina l’aiutarono a vedere il numero della casa ed anche la sua struttura. Non c’era nessuna porta, ma un gran portone aperto, formato da un arco a tutto sesto. Sul cuneo centrale, faceva bella mostra di sé uno scudo d’armi, anch’esso di pietra. Oltre il portone, un patio e, in fondo, preceduto da una inferriata di ferro battuto, uno spazio aperto, con delle piante, che si intravedeva grazie alla luce delle stelle.

   Tirò una maniglia metallica che pendeva da una catena di ferro e da qualche parte suonò una campana. Non dovette insistere. Subito si accese una lampadina esangue che non rischiarò del tutto quello scenario. A destra si vedeva una massiccia porta di rovere che immetteva alle stanze del pianterreno. Da sinistra partiva una scala tutta di pietra, di nobile aspetto, che portava alle stanze superiori.

   La porta di rovere si aprì e la prima cosa che vide Bern fu la sagoma di un gatto che fuggiva veloce verso il fondo, verso l’inferriata. Poi apparve un uomo d’età indefinibile -forse cinquant’anni compiuti-, occhi penetranti, sorriso affabile, nuca assai abbronzata e solcata da rughe finissime e mani grosse con alcune callosità. Aveva l’aria di un contadino, ma con una imprecisabile signorilità, come se fosse l’ erede di una aristocrazia rurale estinta. Indossava pantaloni di velluto color testa di moro, panciotto nero con bottoni argentati, camicia bianca, fascia grigia e stivaletti di pelle dura, alquanto impolverati.

   -Il signor Quayle?- chiese, e aggiuse senza aspettare risposta: -Sono Antonio Lanzara. Entri. Le presenterò mia moglie.

   Agata Lanzara, più giovane del marito, aveva un volto di delicata bellezza, che gli anni erano riusciti solo ad appesantire, ma non a cancellare. Al tratto, poteva sembrare disinvolta e di carattere forte, ma al primo impatto dava l’impressione di una donna goffa. Vestiva di scuro senza alcuna fantasia, calze nere di cotone, sandali legati alle caviglie, fazzoletto in testa annodato sotto il collo e un grembiule da cucina.

   -Ha cenato?- chiese. E proseguì senza attendere la risposta: -Noi sì, ma le posso preparare qualcosa.

   -Ho più sonno che fame.

   -Deve essere stanco.

   Trafficava in cucina mentre i due uomini trasportavano il bagaglio.

   -Pesa- commentò Antonio, afferrando il baule.

   – Libri- chiarì Bernard.

   Quella notte si portava dietro tanta fatica che non fece caso a nulla.

   -Riposi. Domani decideremo il da farsi. Le auguro una buona notte.

   Lo lasciarono solo in una immensa camera da letto, anch’essa mal illuminata da una minuscola lampadina dal filamento quasi rosso che pendeva dal soffitto.

   Aveva l’abitudine, presa a Cambridge, d’alzarsi presto, ma quel mattino era rimasto incollato alle lenzuola. Il chiarore diurno entrava da una fessura della finestra. La spalancò e la prima cosa che vide fu un cielo di un blu intensissimo e un modesto orizzonte di colline ondulate, con vegetazione piuttosto scarsa. La sua casa doveva trovarsi su un terreno relativamente elevato del paese, poiché vedeva tutte le altre più basse. Erano costruzioni semplici, alcune di colore ocra, altre bianche, di due piani al massimo.

   Il gran chiarore che entrava nella camera gli permise di fare un inventario più preciso di quello della notte precedente. Si trattava, indubbiamente, di una camera grandiosa, con un letto barrocco bellissimo, sedie dello stesso stile e un immenso armadio. E quindi comodini, un tavolo al centro, un paio di poltrone, un divano tappezzato di seta molto stinta, un canterano con sopra una vetrina che conteneva una immagine dell’Addolorata, un quadro con un paesaggio molto romantico ove spiccavano le rovine di un tempio dorico invaso da un gregge, un altro quadro offriva la drammatica visione dell’Etna fumeggiante e, infine, un mobile con scaffali che poteva servire per i libri.

   Poiché gli avevano detto che tutto il piano era a sua disposizione, uscì dalla camera col desiderio di dargli uno sguardo. C’era un gabinetto decente e con acqua corrente (“Che lusso!”, pensò), arredato con un lavandino di quelli che hanno sotto un recipiente per raccogliere l’acqua di scarico, e una tinozza da bagno di zinco che si poteva spostare. Scoprì, pure, una cucina con tutto lo stretto necessario, una spaziosa sala da pranzo con tavola per almeno venti commensali, altre camere da letto, una stanza di passaggio, il vestibolo e, soprattutto, un salone spettacolare. Situato al centro dell’appartamento, aveva delle porte in ogni parete: una, immensa, d’entrata, che immetteva direttamente sul pianerottolo; un’altra, a destra, conduceva alle camere non occupate; quella a sinistra, si riallacciava alla zona dov’era la sua stanza. Le due in fondo erano, in realtà, porte-finestre che davano su due balconi dalle ringhiere finemente elaborate e si affacciavano al grande giardino del pianterreno.                 

   I mobili della casa erano scarsi, ma quei pochi denotavano grande qualità: legni nobili, tendaggi signorili, vetrine di cristallo smussato, qualche specchiera con macchie di muffa e, solo nella sala da pranzo e nel salone, splendidi lampadari di cristallo e due arazzi con scene mitologiche di non cattiva fattura.

   Poi scoprì una porticina attraverso la quale, scendendo una scala rustica, si accedeva al giardino. Più che un giardino, si trattava di una vasta porzione di terreno  dove, tra disordine e voglia di far ordine, crescevano alberi e arbusti, che si alternavano alle aiuole di fiori. C’era una grande profusione di vasi, quasi tutti ordinari, altri, però, erano molto elaborati, quasi fossero usciti dalle mani di un abile vasaio. In fondo a tutto si intravedeva un grande stagno alimentato dall’acqua di un canaletto e ombreggiato da un pergolato.

   Invece di ritornare in camera sua, andò direttamente alla casa della coppia, passando dal giardino. L’uomo aveva parcheggiato l’automobile, nello spazio delle antiche scuderie.

   -È una casa magnifica!- commentò Bernard.

   -Lo è stata!- sentenziò Antonio.

   -Vuol fare colazione?- chiese la donna.

   -Ho molto più appetito di ieri notte.

   -Gliela porterò in sala da pranzo, se vuole.

   -Preferirei mangiare sempre con voi.

   E si spiegò. Una parte considerevole del suo lavoro consisteva nel frequentare la gente, vivere la loro vita quotidiana, parlare la loro lingua, leggere i loro giornali, partecipare alle loro feste e alle loro disgrazie.

   -Le feste, per Santa Margherita. Le disgrazie, tutto l’anno- commentò la donna con voce neutra, come se la cosa fosse fatale e non meritasse, quindi, di tornarci sopra.

   -Che vuol dire per Santa Margherita?

   -È la patrona del paese. Si festeggia il venti luglio- chiarì l’uomo. -Secondo quanto mi dice il dottor Riccardi, lei sarà ancora qui, non è vero?

   L’accenno fatto al medico di Firenze servì per avviare la conversazione verso il tema essenziale: i sei mesi di permanenza di Bernard Quayle in quella casa.  Precisarono l’aspetto economico, il vitto e il cambio della biancheria. Lui disse che avrebbe spesso trascorso la giornata fuori casa, che era interessato a conoscere diversi paesi dell’isola, che in alcuni ci sarebbe dovuto andare per forza (per la prima volta omise il nome di Castelvetrano, come se citare Giovanni Gentile non fosse affatto conveniente in certi posti) e, ricordando i consigli del dottore, giustificò la sua presenza nell’isola adducendo l’intenzione di scrivere qualcosa di storia, senza precisare se si trattasse di quella della Magna Grecia o di quella attuale.

   -Mi tolga una curiosità, il dottor Riccardi è nato in questa casa?- disse.

   -No- replicò Antonio. -Compare Turiddu è delle parti di Salanitro.

   -E questa casa, dunque?

   -Questa casa è nostra- intervenne la donna. È sempre stata della famiglia- aggiunse, quasi sulla difensiva.

   Bernard preferì non insistere. Per la seconda volta gli parve che il tema della casa non fosse il più adeguato per sostenere una conversazione vivace con i due ospiti. Forse solo il tempo ne avrebbe determinato l’importanza.

   -Oggi rimarrò qui- li informò. -Metterò in ordine la roba, i libri, tutto il bagaglio. Domani andrò a Caltagirone.

   Disse loro di voler aprire un conto e affittare una macchina da scrivere e Antonio Lanzara gli dette informazioni, indirizzi e orientamenti. Fu sorpreso da quella mescolanza di loquacità e cautela. L’avevano così messo in guardia sul modo di comportarsi che scelse il meno rischioso: aspettare che fossero gli altri a parlare.

   Le ore gli passarono volando. Sapeva che ogni giudizio era prematuro, ma già gli piacevano il clima, la casa, gli ospiti, il cibo. Avrebbe forse avuto delle difficoltà ad abituarsi all’olio e all’aglio, ma lo ripagava la simpatia che già nutriva verso quel vino rosso nostrano.

   Il viaggio a Caltagirone non gli parve faticoso. Quel tanto di pratica che aveva già acquisito e il fatto di circolare per strade poco transitate fecero del viaggetto una piacevole gita. Risolse il problema della banca e non ebbe alcuna difficoltà ad affittare una macchina da scrivere italiana, una Olivetti, che lo attrasse per il disegno elegante se lo paragonava alla grossolanità delle familiari Underwood o Remington. Prendeva nota di quei particolari, poiché pensava che un “analista” della società deve considerare significativo tutto ciò che la società gli offriva.

   Aveva detto ai Lanzara che si sarebbe fermato a pranzare a Caltagirone e così fece. In tal modo, avrebbe avuto a propria disposizione tutto il pomeriggio per far visita all’amico del dottor Riccardi, per il quale portava una lettera di raccomandazione. Consultò l’indirizzo e vi si diresse: via Vittorio Emanuele. La casa, di sobrio aspetto, sembrava completamente occupata da avvocati, medici, agenti commerciali o notari. Al primo piano vide la targa: “Giorgio Milazzo – Procuratore”.      

   Suonò due volte. Tardarono ad aprire. Ebbe, però, la sensazione che ci fosse qualcuno dall’altra parte della porta. Quando fu sul punto d’andarsene, gli aprì una donna di mezza età che, per il vestito e la cuffietta in testa, gli parve una cameriera. Chiese del padrone di casa.

   -Non c’è.

   -A che ora lo posso trovare?

   -Non c’è.

   In quel momento si sentì una voce che dall’interno gridava:

   -Assunta!

   La cameriera scomparve. Bernard ebbe nuovamente la sensazione d’essere spiato, finché apparve una seconda donna, più anziana della prima.

   -Vuole mio marito?- disse.

   -Per la verità, sì.

   -Cosa desidera?

   Bernard spiegò i motivi della sua visita e mostrò la lettera di raccomandazione del dottor Riccardi. La signora, nel sentire quel nome, trattenne un grido, prese la mano del disorientato Bernard, lo condusse verso uno studio e chiuse la porta.

   -Lei è molto amico del dottore?

   -Non ho questo onore. Ma lui è molto amico di mio zio.

   -E gli può telefonare?

   -Allo zio o al dottore?

   -Al dottore.

   -Credo di sì. Non mi pare che sia così difficile parlare con Firenze!- aggiunse, come se un po’ d’ironia potesse togliere tensione a quell’insolito interrogatorio.

   Ma la signora replicò:

   -Mio marito non c’è.

   -Lo so già. Me l’ha detto la cameriera.

   -È da due giorni che non c’è- esclamò con enfasi speciale.

   -In viaggio?

   -No, senta. Telefoni al dottor Riccardi e gli dica solo questo: che è da due giorni che mio marito non è in casa. Lui lo comprenderà. E ora, è meglio che mi dia la lettera di raccomandazione. Le potrebbe nuocere.

   Bernard non ci capiva nulla e lo dichiarò apertamente.

   -Eccole la lettera, ma le sarei grato se mi dicesse cosa sta succedendo.

   -Due giorni fa sono venute le camicie nere e l’hanno portato via. Suppongo che lo tengano a Lipari.

   -Vuol dire prigioniero?

   -Sì, signore.

   -Perché?

   -Lui non è del partito, è liberale. C’è molta gente che l’invidia e che l’odia. Procuratore dei tribunali, procuratore in Sicilia, lui, che non si lasciava comprare da nessuno! Lei non lo può comprendere, è chiaro!

   -E cosa potrei fare per aiutarlo?

   -Nulla, dimentichi tutto. Non venga più qui. La casa è sorvegliata. Ma quando farà ritorno al suo Paese, spieghi come stanno le cose nella Sicilia del fascismo.

   Bernard uscì da quell’appartamento, desolato. Pensò a tutto ciò che gli uni e gli altri gli avevano detto, cominciando da suo zio e finendo con la ragazza viennese. Non l’aveva mica dimenticata, no. Perfino quel mattino, mentre esaminava la carta geografica per cercare la strada per Caltagirone, s’era accorto d’essere prossimo a Piazza Armerina. Gli venne in mente l’idea d’andarci e chiedere di lei, di sapere se l’aspettavano o se era arrivata. Di nuovo desistette: dopotutto aveva già il suo indirizzo siciliano. Se provava un qualche desiderio di rivederlo, di fare qualche gita assieme a Selinunte o dove fosse, non le sarebbero certo mancati i mezzi per farglielo sapere.

   Ciononostante, quando quella notte tornò in via Mugnos per cenare, si sentiva triste e solo. Di ritorno, passando per Grammichele, si era fermato per fare la telefonata a Firenze. Per quale ragione aveva ritenuto che era meglio non farla da Caltagirone? Incominciava, forse, a contagiarlo una paura assurda? Il dottore si lasciò andare in una esclamazione d’ira. Bernard gli chiese se aveva notizie della ragazza austriaca e ottenne una risposta negativa. Mentre cenava con i Lanzara gli era venuta voglia di parlare dell’arresto. Ma non lo fece. Cominciava a rendersi conto cosa volesse dire la paura di sentirsi spiato, denunciato e imprigionato, senza altro motivo che la prepotenza dei più forti.

   L’indomani, a colazione, fece sapere a compare Toni che desiderava conoscere gente del paese, per frequentarla, studiare le loro idee, i loro costumi, il loro modo di vivere.

   -Se vuole sapere qualcosa, non faccia domande- gli disse Antonio.

   Convennero che, dopo pranzo, sarebbero andati assieme alla taverna accanto al Comune a prendere un caffè e una grappa. Lì, Bernard si avvicinò a un gruppetto di fannulloni e, seguendo il consiglio di Antonio, non dimostrò alcun interesse speciale per fatti o persone per cui, dopo mezz’ora, erano gli altri a fare domande e commenti. Nulla di importante, però: il prezzo del pesce, il raccolto, la siccità, l’ultima notizia del paese, la partenza di un compaesano per Genova. Stava gettando le basi per possibili relazioni future, di modo che, in pochi giorni, venne a sapere la storia di tutti, cominciando dalla famiglia Lanzara. Ben presto fu in grado di distinguere i soprannomi con i quali erano conosciute quasi tutte le persone del paese e si rese conto che parlavano in un difficile dialetto quando non volevano essere capiti dall’ospite. Cominciò a capire il modo d’essere di quella gente, attaccata a un pezzo di terra non troppo generosa con i suoi figli, e a comprendere che, forse, quella loro miseria secolare, mista all’amore, aveva loro foggiato un carattere che li rendeva capaci di chiedere l’elemosina con lo stesso orgoglio con cui un principe pretende i tributi. Erano schiavi della dura vita che li umiliava, ma signori di se stessi.

   Il caso dei coniugi Lanzara era chiarificatore. Lui discendeva da una potente famiglia della zona. Lei ne era stata la domestica. Quando lui la mise incinta volle sposarla, ma il padre minacciò di diseredarlo, e a nulla valsero i consigli di don Luigi, il parroco. A causa di ciò, tutti i beni, cospicui, erano finiti nelle mani di una sorella di Antonio -con la quale non si frequentava- che viveva a Vizzini. La casa di via Mugnos e quanto conteneva (oggi sfumato in parte per successive vendite), un po’ di terra alla periferia del paese e una certa quantità di denaro era tutto quanto aveva potuto ereditare da sua madre. La coppia aveva dovuto vivere sempre in grandi ristrettezze. Lui, signore di nascita, non era un contadino come gli altri. Le rendite del podere erano minime e quanto poteva ottenere di tangibile proveniva da alcuni investimenti fatti anni prima con i quattro soldi che facevano parte del legato materno. Per maggiore disgrazia, la creatura responsabile di quella situazione era morta al momento del parto e a commare Agata le si era preclusa la possibilità d’avere altri figli. Motivo per cui vestiva sempre di scuro. Motivo per cui a lui lo chiamavano compare “Scipito”, che voleva dire sensa forma né grazia, e a lei commare “Ventretuo” in maniera dispregiativa.          

   Trascorse la prima settimana senza accorgersene, occupato com’era a analizzare il materiale raccolto. Faceva escursioni nei dintorni e alternava le chiacchere dell’aperitivo con quelle del caffè. 

   La pace del paese gli aveva rapito il cuore; il silenzio della casa non aveva prezzo; le ore di lettura nel giardino divennero motivo di contemplazioni profonde. Tutto procedeva così come aveva desiderato. Finché una sera, nel rientrare da una gita, Agata gli porse un avviso di chiamata telefonica secondo il quale doveva presentarsi, alle dieci dell’indomani mattina, al centralino telefonico perché l’avrebbero chiamato da Firenze.

   -Il dottor Riccardi mi vorrà affidare qualche incarico- pensò.

   Ma, neppure in quel momento, osò mettere in relazione l’avviso di chiamata con la detenzione del procuratore di Caltagirone. Sia come sia, si rendeva conto di essere ancora un forestiero.

XII

   Uscì dall’hotel Byron di buonora, convinta di poter superare in poco tempo gli ostacoli che ancora si frapponevano alla sua definitiva partenza per la Sicilia. Poteva già contare sulla borsa di studio in Sicilia e ne conosceva quasi la località, ma un certo Archeoclub con sede in Firenze, un organismo che canalizzava l’affluenza in tutta Italia dei ricercatori stranieri, doveva decidere dove l’avrebbero destinata.

 L’idea di far ritorno prima di mezzogiorno per poter dire al compagno occasionale che forse avrebbero potuto intraprendere il viaggio assieme, le risultava assai gradevole. Non era certamente un ragazzo come gli altri. E non per il livello intellettuale, che apprezzava, ma piuttosto per il modo di comportarsi. Quando l’aveva trattata quasi come un essere neutro con la quale si potesse parlare di arte, di politica, di letteratura o di storia, lo aveva fatto denunciando una grande libertà di espressione e di giudizio. Ma quando si rendeva conto che lei era una ragazza, allora si chiudeva in una deliziosa timidezza che lo rendeva ancor più affascinante di quanto non fosse quando si atteggiava a erudito.

   A volte, senza pensarci, l’aveva preso a braccetto, mentre passeggiavano per strade di cui non conoscevano il nome, come se fosse un gesto spontaneo che dovesse obbligare lei alla riflessione. Ma quando se ne rendeva conto, quando si accorgeva d’avergli toccato con la mano la pelle nuda, si discostava come fosse una brace ardente e quasi chiedeva perdono per l’audacia.    

   Sì, sarebbe stato bellissimo viaggiare con lui fino a Reggio, attraversare lo stretto, essere con lui mentre acquistava la macchina a Messina e poi aspettarsi, da un giovanotto così cavalleresco, d’essere accompagnata in auto fino alla sua destinazione. Passò, però, tutta la mattina negli uffici di un ente caotico, pieno di burocrati che la facevano passare sempre da un ufficio a l’altro e da dove uscì con tutto il malumore possibile e senza aver risolto il suo problema.

   Quando fece ritorno in albergo, le dissero che Mr. Quayle era già andato via, ma che prima di partire aveva chiesto se lei avesse lasciato qualche messaggio. Le dispiacque di non averlo fatto, e fu sul punto di correre alla stazione per vedere se c’era ancora, ma poi dovette convenire che qualsiasi cosa avesse fatto non sarebbe servita a correggere l’errore del mattino, dovuto alla sua fretta speranzosa. Per il momento, volle attribuire il malumore a progetti frustrati -un compagno, una automobile- finché dovette ammettere che provava molta più simpatia di quanta l’egoismo le avesse permesso di accettare. Una settimana dopo aveva già superato tutti gli ostacoli: Piazza Armerina sarebbe stata, dunque, la sua destinazione. Quasi compaesani, dunque, con quell’inglese timido e intelligente, che sapeva così poco sul fascismo e sul nazismo.

   Per evitare qualsiasi sorpresa dell’ultimo momento, decise di telefonare al dottor Riccardi, annunciandogli la sua partenza e, incidentalmente, di chiedergli se avesse qualche incarico da darle per il comune amico.

   -Mi venga a trovare- fu la risposta del chirurgo.

   La fece passare nello studio, come una paziente qualsiasi.

   -L’ho importunata chiedendole di venire per parlare di una questione di fiducia- disse con tono affabile.

   -Cosa succede?- chiese inquieta la ragazza. -Si riferisce a Mr. Quayle?

   E lei stessa si sorprese della sua inquietudine.

   -No. Lui sta bene. Gli ho parlato un paio di giorni fa e mi ha chiesto di lei.

   -E dunque?

   -La nostra conversazione dell’altra notte, al ristorante, mentre cenavamo tutti e tre… quando parlavamo di politica…

   -Sì…

   -…Mi è sembrato che lei… Come glielo posso dire?

   -Vuol sapere se nutro simpatia per i nazisti? Le posso assicurare di no.

   -Neanch’io, naturalmente!- esclamò lui, con soddisfazione.

   -E quale relazione c’è, in definitiva, con Mr. Quayle? Sembrava piuttosto attratto dal fascismo.

   -Non lo credo. Lo considero un buon ragazzo che ha conosciuto del fascismo solo un aspetto politico che forse crede applicabile a certe forme moderne di governare uno Stato. Quando conoscerà l’altra faccia, desisterà. Ma c’è di più, mi pare che l’abbia già cominciata a conoscere quest’altra faccia.         

   -Non riesco a seguirla.

   -Veda: io, a richiesta di suo zio (amico mio, chirurgo come me e, detto per inciso, fervente laborista inglese), gli ho dato alcune lettere di raccomandazione per alcuni compagni in Sicilia, tutti di idee liberali e che si oppongono al fascismo. Il primo incontro di Mr. Quayle con uno di essi è avvenuto a Caltagirone, lì ha saputo che la persona a cui l’avevo raccomandato era stata arrestata dalle camicie nere due giorni prima. Di qui, il favore che vorrei chiederle.

   -Dica pure.

   -Vorrei che lei portasse alcuni documenti nell’isola. Sono compromettenti, non glielo posso nascondere. È libera di non accettare l’incarico. Ma se volesse compiacermi, quel che posso dirle è che queste carte debbono arrivare nelle mani del direttore della Cassa di Risparmio San Giacomo, di Caltagirone. Ed è consigliabile che sia Mr. Quayle a consegnarle. Quattro giorni fa vi ha aperto un conto e la sua presenza non desterà sospetti. 

   -Posso spiegare tutto ciò a Mr. Quayle?

   -A lui, sì. A nessun altro. Sono convinto che egli è, prima di tutto, un uomo d’onore.

   Katharina non vacillò neppure un attimo. Il dottore le dette il numero telefonico del centralino di Licodia Eubea e lei mandò un avviso di chiamata per poter parlare con  Bernard l’indomani, alle dieci del mattino, ora in cui lei avrebbe ormai risolto gli ultimi dettagli della sua partenza.

   Molto prima delle dieci era già all’ufficio telefonico di Firenze per evitare ogni ritardo. Tuttavia, non le fu possibile entrare in cabina che alle dieci e mezza suonate. Fu allora che sentì la voce di Bernard, dopo quella della centralinista che diceva: “Mr. Quayle? Parli pure, è in linea”. E di nuovo la voce di Bernard che, dirigendosi a lei, diceva:

   -Dottor Riccardi?

   Lei scoppiò in una risata sonora, seguita da:

   -No, Bern, no! Sono Katharina!

   -Buon Dio! Quale allegria!

   -Le devo spiegare molte cose, ma non per telefono. Mi rovinerei!

   -Ciò significa che ci rivedremo?

   -È quanto spero!

   -Quando?

   -Dopodomani, se vuole.

   -Certamente che lo voglio. Cosa devo fare?

   -Arriverò a Messina nel pomeriggio. Alla fine, mi hanno destinata a Piazza Armerina.

   -Posso venire ad aspettarla?

   -Ha già la Fiat?

   -C’è posto per noi due e ne avanza anche per i bagagli.

   -E potremo andare la stessa notte al mio accampamento? Non so ancora bene se sono tende o casette o baracche… Qui, a Firenze, nessuno sa nulla.

   -Non si preoccupi. La prima notte, se sarà necessario, potrà dormire dove abito io. Ci sono camere in abbondanza. Tutto dipenderà dall’ora del suo arrivo.

   -Lei gli disse con quale treno sarebbe partita.

   -Lo stesso che ho preso io. Quando sbarcherà a Messina sarà molto tardi. Ventiquattro ore di treno e, poi, fino a Piazza Armerina ci sono ancora circa duecento chilometri. Una bella faticata, che non le permetterà di dormire bene la prima notte.

   -Mi metto, quindi, nelle sue mani. E grazie.

   -Non mi ringrazi. Mi fa molto piacere rivederla.

   -Anche a me.

   Ci fu una pausa piena d’indecisioni. La ruppe lei dicendo:

   -È tutto chiaro, vero?

   -Chiarissimo! Dopodomani a Messina, di pomeriggio. So già dov’è il molo e, quindi, non ci potremo perdere.

   Riattacarono. Bernard tornò a casa e Antonio gli chiese:

   -Come va? Cosa le ha detto compare Turiddu?

   -Non era il dottore, era una sua amica- chiarì il giovanotto. -Ed anche mia, certo.

   -Qualche novità?

   -In un certo senso: è una ragazza austriaca, che viene a lavorare a Piazza Armerina nei mosaici.

   -Anche lei è una storica?- chiese Antonio.  

   -Si è specializzata in archeologia.

   -Il nostro è proprio un Paese adatto a gente simile!

   -È per questo che lei l’ha scelto. Devo andare ad aspettarla dopodomani a Messina, ma non può arrivare tardi all’accampamento. Ho pensato, quindi, che potrebbe trascorrere qui da noi la prima notte, se avete una camera disponibile.

   -Lei ha libere tutte quelle di sopra- disse Agata.

   -Lo so. Ma non vorrei far parlare la gente. È una ragazza giovane.

   -E che? Lei è a casa sua e può ricevere chi le pare- ribadì Antonio.

   -Grazie. Ma potrebbe darsi che si debba lavorare assieme: viaggi ad Agrigento, a Selinunte… E, forse, qui nell’appartamento, per scrivere. E vorrei sapere, nel caso decidessimo di trascorrere qualche domenica in casa, se lei potrà mangiare con noi, pagando la sua parte, s’intende.

   -Non si preoccupi. Faremo per lei tutto il possibile… E a maggior ragione se anch’essa è amica del dottor Riccardi.

   Bernard pensò che forse si era precipitato nel fare quelle previsioni, ma era soddisfatto dei risultati. E se un giorno fosse riuscito a conquistarsi la fiducia necessaria, avrebbe chiesto ai suoi ospiti l’origine di quella speciale devozione che nutrivano per il dottor Riccardi.

   Arrivò a Messina a mezzogiorno, andò dall’incaricato che gli aveva venduto la macchina, la lasciò nell’officina per una revisione e una lustratina, pranzò in una trattoria specializzata in pesce, dove gli servirono un delizioso pesce spada alla brace, innaffiato da un bianco Val di Lupo, che valeva, da solo, un banchetto. Acquistò, poi, alcune ghiottonerie per i Lanzara e, in più, gli restò buona parte del pomeriggio per riprendere l’automobile, passeggiare per la città, andare mille volte alla stazione marittima, innervosirsi e confondere il traghetto che aspettava con qualsiasi altro che entrasse in porto.

   Finché non fu più possibile sbagliare. Era appena entrata una nave nel molo designato e lì, vicinissima, affacciata al parapetto, vide Katharina. I primi minuti non ebbero niente di straordinario. Lei doveva trasportare un assortito bagaglio di valigie, borse e oggetti varii e Bernard si prestò ad aiutarla, facendo la spola tra la nave e la macchina. Poi, sistemata la parte pratica dell’incontro, si misero in cammino.    

   Parve ad entrambi d’avere mille cose da dirsi e, tuttavia, non sapevano da dove cominciare. Bernard considerò che la prima cosa da fare fosse quella di porle il problema della cena e del dormire.

   – Come vede è piuttosto tardi. Ho parlato con i miei ospiti e può trascorrere la notte in casa nostra. Non è forse la cosa più consigliabile installarsi a certe ore in un accampamento sconosciuto.

   -Sì, credo che lei abbia ragione, ma non vorrei crearle problemi.

   Bernard le spiegò la conversazione avuta con i coniugi Lanzara.

   -Viaggiare con lei deve essere molto piacevole. Sempre così previdente!

   -Scherza, vero?

   -No, affatto!

   -Sa perché? Sono gli anni di Cambridge. Vivendo solo devi saperti amministrare il tempo e il denaro.

   -A Vienna era diverso. Vivevo con i miei genitori. Un tram mi portava da casa all’università.

   Bernard, incuriosito dal cognome von Raitnenau, che tanto aveva interessato il dottor Riccardi, chiese:

   -La sua famiglia fa parte della nobiltà?

   -Lo dice per il Von? Diciamo di una aristocrazia molto annacquata, oggi. Un giorno gliene parlerò.

   – È un mistero?

   -No, affatto! Ma ora ci sono cose più urgenti da fare.

   -Quali?

   -Cenare. Ho una fame da lupi!

   -Ci ho già pensato. E ho detto a casa di non aspettarci.

   -E cosa ha deciso, uomo previdente?

   -Taormina. A mezza strada per Catania. Mancano pochi chilometri.

   -Taormina? Sa di cena molto romantica.

   -Sì. Un teatro greco, l’Etna sullo sfondo, pini, il mare dall’altra parte…

   -Già la conosce?

   -No. Mi sono informato. Ho pensato che le sarebbe piaciuta.

   Katharina provò una punta di tenerezza per quel giovanotto così aperto, così privo di astuzia. E lo scenario era, indubbiamente, eccezionale.

   Mentre cenavano gli disse:

   -Mi sono molto arrabbiata con me stessa il giorno della sua partenza da Firenze. Credevo di poter partire quella stessa mattina e mi avrebbe fatto piacere proporle di viaggiare assieme.

   -Anche a me è dispiaciuto. Non so perché, ma mi era sembrato che potevamo essere amici.

   -E lo possiamo.

   -Sì… Le cose una volta sapute…

   -Sì…

   -Ho domandato di lei al dottor Riccardi…     

   -Me l’ha detto.

   E Katharina considerò giunto il momento d’esporre al suo compagno l’incarico di portare quei documenti a Caltagirone.

   -Sembra un romanzo di spionaggio!- disse lui, ridendo.

   -Ma non è così, è la realtà- replicò lei, seria.

  Bernard riflettette un istante prima di chiedere:

   -Ciò la turba molto, non è vero? Le ricorda il suo Paese.

   -Noi austriaci abbiamo il nemico dentro casa. Non è un argomento piacevole, né se ne può parlare con leggerezza. Se le dico che la paura incombe su migliaia di famiglie del mio Paese, una paura repentina di vedersi imprigionate, perseguitate, umiliate o torturate, lei, forse, penserà che io esagero per passione politica, ma non è così, è la pura verità. E non solo gli aristocratici liberali come noi. Ci può aggiungere i socialisti e, soprattutto, gli ebrei. Posso arrivare a capire qualsiasi tipo di rivalità. E anche riconoscere che l’idea dell’economia che hanno i miei genitori, provenienti da una famiglia tradizionalmente ricca, è naturalmente differente da quella di un operaio disoccupato o che lavora per un salario da fame. Ma non posso transigere con quei partiti politici che, per restare al potere, basano la loro strategia sulla frode, l’assassinio, la menzogna, lo sterminio sistematico del nemico o, semplicemente, di chi dà loro fastidio.         

   -Quanto lei dice è grave.

   -Ma è la verità. Oggi tutti sanno che non furono i comunisti a incendiare il Reichstag, ma gli stessi uomini di Hitler per giustificare così la persecuzione contro la sinistra. E quando Ernst Röhm cominciò a dare fastidio, chi altri se non Hitler fece uccidere il suo vecchio compagno? E chi sterminò le SA se non le SS, entrambe hitleriane? E a casa nostra furono i nazisti ad assassinare Dollfuss, che non era uomo di sinistra, ma conservatore da sempre. Perché? Perché Hitler voleva che al potere vi fosse Seyss-Inquart. E la macchia si estende: Franco in Spagna, Degrelle in Belgio, Mosley in Gran Bretagna, Musset in Olanda, Salazar in Portogallo, Metaxas in Grecia, La Rocque in Francia…

    -Tutto ciò mi dà un po’ ragione- l’interruppe Bernard. -Vuol dire che ci sono motivi storici che…

   -Certo che ci sono! Sono i motivi che lei già sa: la paura delle grandi fortune di fronte al comunismo, il disastro economico in cui le nazioni vincitrici della guerra hanno costretto a vivere l’Austria e la Germania, il modo con cui hanno umiliato i nostri sentimenti nazionali. Senza colonie, senza mercati esteri, con la minaccia di una grande rivoluzione sociale simile a quella dell’URSS, era facile per qualsiasi patriota conservatore e nazionalista avere successo. Bastava solo cercare dei nemici sui quali poter scaricare l’odio accumulato, esaltare le virtù della razza, proteggere la grande industria e la piccola e media borghesia e un tale leader doveva per forza trovare dei seguaci.

   Bernard Quayle rimase d’apprima sorpreso e poi ammirato. La passione con cui quella ragazza difendeva i suoi punti di vista e le informazioni che prodigava dimostravano fino a che punto si preoccupasse per la politica del suo Paese. Non era, di certo, una di quelle conversazioni che si fanno dopo tavola.

   -Non ho alcuna voglia di discutere- affermò lui, -ma vorrei precisare che non sono fascista né nazista e che non sono iscritto a nessun partito politico. Penso, però, che se le dottrine totalitarie hanno potuto attecchire in tanti posti è dovuto forse al fallimento delle dottrine precedenti. In politica, la lotta tra partiti indebolisce l’ azione di governo e la democrazia, mentre la lotta di classe indebolisce l’economia. Sono fatti. È possibile che noi inglesi siamo in parte colpevoli dell’umiliazione tedesca dopo la Grande Guerra. È possibile che le strutture feudali e il regime zarista abbiano favorito il trionfo del comunismo in Russia. Ma non dimentico che Marx, un tedesco, formulò parte delle sue teorie dopo aver studiato sul terreno l’ingiusta economia capitalista inglese. Ed è quanto faccio anch’io: studiare. L’obbiettivo di tutta la mia ricerca consiste nel trovare una terza via, che possa conciliare la tutela delle garanzie personali, proprie di un regime democratico, con l’applicazione, senza inutili dibattiti, dei princípi giusti di una dittatura.

   -Lei vuole tornare al dispotismo illuminato che abbiamo avuto noi austriaci con Giuseppe II. Ma fallì.

   -Non smetterò di studiare le ragioni di ogni successo o fallimento storico che mi vengano in mente. Non sono influenzato da nessun credo. Ho una mia teoria e voglio tentare di metterla in pratica con regole eclettiche. Il che mi pare fondamentale in politica.

   -Pensa forse di dedicarvisi professionalmente?

   Bernard arrossì. Gli avevano appena fatto una domanda che lui si poneva da tempo e alla quale non aveva mai dato una risposta definitiva. E lo fece in quell’occasione.

   -Sì.

   Lei lo guardò con un’aria rispettosa e divertita. Ma, a giudicare dalla faccia, non pareva che lui avesse voglia di scherzare. Lo si vedeva preoccupato, come se avesse detto cose che era prematuro annunciare. Lei comprese quanto stava avvenendo nell’animo di quel giovanotto il quale mostrava, al contempo, un carattere audace e timido, ambizioso e onesto. E le parve che, grazie al turbamento forse momentaneo, era giunto il momento di cambiare argomento.

   -Mi farebbe piacere che lei vedesse in me un’amica. Vorrei aiutarla. E forse ora converrebbe…

   -Un momento, Katharina. Lei mi sta già aiutando. Se così non fosse, non le avrei detto ciò che le ho detto. Non l’avevo rivelato mai a nessuno. La sua compagnia…non so come dirlo, sa? Non mi era mai successo. È come se avessi trovato un compagno che, allo stesso tempo, è una ragazza meravigliosa, molto carina e molto comprensiva.

   -Se seguitiamo così, non arriveremo mai al paese- rise lei.

   Attraversarono Catania e infilarono l’ultimo tratto di strada. Quando Bernard mise la Fiat nelle scuderie si aprì la porta del pianterreno e Antonio, sporgendo solo la testa, disse sotto voce:

   -Tutto bene?

   -Alla perfezione.

   -Hanno bisogno di qualcosa?

   -Di nulla, grazie.

   -A domani, dunque.

   Bernard salì all’appartamento per far sì che la luce proveniente dal vestibolo illuminasse un po’ la scala. Katharina lo seguì portando solo una borsa.

   -Per una notte- spiegò -mi basta.

   -Questa è la sua camera. Là c’è un lavandino e, in fondo al corridoio, la cucina. Se ha bisogno di qualcosa, io dormo dall’altra parte dell’appartamento. Se di notte dovesse sentire qualche rumore, non si preoccupi: c’è un gatto che va sempre su e giù. Si chiama Garibaldi.

   -A che ora ci dobbiamo alzare?

   -È l’una e deve essere stanca. Facciamo colazione alle dieci?

   -Va benissimo. Avremo, però, il tempo per fare ogni cosa?

   -Sì. Le mostrerò la casa e conoscerà gli ospiti. Anch’essi la vogliono conoscere. Ho detto loro che era una amica del dottor Riccardi e sono molto colpiti. Sono persone stupende. Ne riparleremo.

   -E Caltagirone?

   -Vi arriveremo in meno di una ora.

   -Buona notte, Bern.

   -Buona notte, Katharina.

   Si dettero la mano. Si dettero solo la mano, ma la stretta durò un bel po’, come se attraverso il contatto si comunicassero chi sa quali cose.

XIII

   Bernard si alzò di buonora e, cercando di fare il minor rumore possibile, scese a salutare i Lanzara.

   -Ho portato quattro sciocchezze da Messina- disse.

   E pose sulla tavola della cucina qualche salume, dei biscotti e una bottiglia di moscatello di Siracusa.

   -E la sua amica?

   -È stanca, ma sta bene. Neppure oggi pranzerò in casa. Devo accompagnarla a Piazza Armerina, ma prima devo andare in banca, a Caltagirone.

   -Vuol fare colazione?

   -Aspetterò che lei scenda. Ci siamo dati appuntamento per le dieci.

   -Manca ancora un’ora- disse Antonio, dopo aver consultato il massiccio orologio che teneva in un taschino del panciotto. E, subito, aggiunse:

   -Domani ci sarà?

   -Penso di sì. Perché?

   -Il sindaco la vuol vedere.

   -Il sindaco?, Vito?, e che vuole?

   -Parlare con lei, glielo ho già detto.

   -E perché?

   -Bah!- esclamò, e si strinse nelle spalle.

   Bernard uscì in giardino. L’ora era tra le più belle: fresca, ombreggiata, profumata. La maggior parte dei vasi, erano gli ultimi giorni di aprile, cominciavano a offrire i loro fiori -narcisi, tulipani, gerani- e le aiuole erano un fiume di rose, di clematidi e di lillà. Era stato fantastico il lavoro, silenzioso, di Agata, quel lavoro che tende a rendere più bello tutto ciò che ci circonda.

   Gli parve di sentire rumore al piano di sopra. Guardò le finestre e i balconi e, finalmente, apparve un volto sorridente che diceva:

   -Dieci minuti e scendo!

   Mangiarono con appetito. Per Katharina tutto era nuovo ed eccitante: cibi ben diversi dai soliti degli alberghi, e quell’ambiente sincero, e la pace: si poteva quasi palpare. Come non bastasse, i Lanzara dimostrarono simpatia per lei, e lei per loro.

   -Lo stavamo dicendo al signor Quayle: se la raccomanda il dottor Riccardi…

   -Come mai siete tanto amici, se sono ormai anni che non vive a Licodia?- ardì chiedere Bern.

   -È una storia di poco conto, cose di paese, litigi di famiglia.

   -La puoi anche raccontare- intervenne la donna, -non mi dà alcun fastidio.

   -Mio padre non voleva che mi sposassi con Agata. Tutti mi voltarono le spalle. Mio padre era un uomo potente. Saremmo morti di fame se il dottore non ci avesse aiutati. Fino alla morte di mia madre, che era la proprietaria della  casa che ora abitiamo, non avevamo nulla di nostro. A quei tempi, il dottore lavorava a Grammichele. Possedeva una vigna e una barracca sulla strada per Monte Altore, e ci diede l’una e l’altra.

   -E poi con il bambino…- mormorò la donna.

   -Agata era incinta, e il parto si presentò difficile. Mio padre…

   -Da noi non veniva nessun medico- proseguì lei.

   -La verità è che mio padre lo impediva- esclamò l’uomo con malcelata amarezza. Come le ho già detto, Turiddu stava a Grammichele. L’avvisammo. Lui sì che venne: era troppo tardi, purtroppo. La levatrice aveva combinato disastri, e il bambino era morto. Era un maschio, sa? Il dottore ci fece compagnia. Fu l’unica persona che ebbe il coraggio di tener testa a mio padre.      

   -E perché suo padre si comportava così? 

   -Non voleva che mi sposassi con Toni- spiegò la donna. -I Lanzara sono una buona famiglia ed io non so né leggere né scrivere.

   Dopo colazione visitarono la casa e Katharina rimase meravigliata come era successo a Bernard qualche giorno prima.

   -Tutti e due abbiamo molto da fare- commentò Bernard, -ma quando saprò gli orari del vostro campo potremo organizzare qualche gita assieme. Che gliene pare?

   -Poter contare su di un’automobile, aiuta. Mi farebbe piacere trascorrere ancora una domenica in questa casa, in questo paese così tranquillo…

   -E ho anche una macchina da scrivere.

   -Non intendo dire lavorando, Bern.

   Prima di mezzogiorno erano già pronti a partire.

   -Se vede Vito, gli dica che andrò domani a salutarlo- commentò Bernard prima di mettersi in macchina.

   -Torni quando vuole- dissero alla ragazza.

   -Lo farò.

   Mentre si dirigevano a Caltagirone, Bernard considerò che sarebbe stato assurdo lasciare la ragazza in macchina, mentre lui restava tutto solo alla Cassa di Risparmio.

   -Non è che anche lei vorrebbe aprire un conto? 

   -Non mi pare una cattiva idea- assentì la ragazza.

   -Il direttore li ricevette dopo una decina di minuti.

   -Le porto un nuovo cliente- disse Bernard.

   Il direttore suonò un campanello interno e, all’arrivo dell’impegato, chiese alla ragazza:

   -Libretto di risparmio o conto corrente?

   -Conto corrente, come Mr. Quayle.

   -Mi porti i moduli- ordinò il direttore all’impiegato.

   Non appena furono soli, Bernard disse:

   -In realtà, la signorina von Raitenau desidera avere un conto qui, eppoi, ci è parso un buon pretesto per parlare con lei senza destare sospetti.

   -Sospetti? E perché? E di chi?

   Bernard cominciava a seccarsi di quel gioco fatto di reticenze. Era andato in Sicilia per raccogliere informazioni di prima mano sul regime, sull’opposizione, sulla mafia. Se tutte quelle velature che lo circondavano erano solo un puerile gioco di spionaggio, beh, lui non eran disposto a rendersi ridicolo. Se invece c’erano pericoli o notizie importanti, li voleva conoscere. Invece di rispondere, pensò dunque d’interrogare a sua volta:

   -Lei conosce il procuratore Giorgio Milazzo?

   -Sì.

   -E sa dov’è, ora?

   -So che non è a casa.

   -Conosce anche il dottor Riccardi?

   -Credo si trovi a Firenze…- quasi balbettò l’interrogato.

   -Non è a Lipari, se è questo che la preoccupa.

   In quel momento entrò l’impiegato con i moduli.

   -Li compilerò io- gli disse il direttore.

   Quando rimasero di nuovo soli, Bernard illustrò quanto era successo.

   -La risposta del dottor Riccardi gliela porta ora la signorina von Raitenau. Ma io vorrei sapere di chi siamo messaggeri. Il dottore mi manda dal procuratore. La moglie non mi dà alcuna spiegazione, e distrugge la lettera. Di nuovo, il dottore si serve di me come corriere e coinvolge una mia amica. Qui nessuno mi dà spiegazioni, ma tutti mi viogliono far credere che, se faccio domande o parlo, sarei in pericolo. Oggi, mi hanno detto che il sindaco di Licodia mi vuole vedere, e non so se è per invitarmi a pranzo o per deportarmi a Lipari.

   Il  direttore riflettette un po’ prima di rispondere.

   -Quando il potere abusa della propria autorità un altro potere nasce nell’ombra per lenire o combattere gli errori del primo. Il dottor Riccardi è del partito liberale. E anch’io e il procuratore Milazzo e molte altre persone che cercano d’aiutarci a sopravvivere alla tirannia. Nell’isola di Lipari c’è un castello che il governo utilizza ora come prigione. E sa chi sono i prigionieri? Maestri di scuola, professori universitari, gente che la pensa come noi, che è perseguitata, spossessata dei suoi beni, attaversano un lungo calvario di vicissitudini. A volte questa gente finisce uccisa a tradimento. Se le dico che esiste un’organizzazione clandestina che lotta contro questo stato di cose, certamente non le dico nulla che lei stesso non abbia potuto immaginare. Ma ciò che non posso fare né farò mai è dirle i nomi di coloro che compongono questa organizzazione. Lei non ne trarrebbe alcun profitto, e a noi potrebbe nuocere. Perciò, noi tutti le raccomandiamo di non fidarsi di nessuno. Potrebbe darsi che la persona, all’apparenza più aperta e antifascista, sia, invece, una spia che abusa della sua ingenuità. Come può verificarsi il contrario: lo stesso dirigente locale del partito potrebbe anche essere uno dei nostri.

   -E inoltre, la mafia- aggiunse Bernard, dopo un breve silenzio.

   -Sì, in effetti. Ma non confonda le cose.

   -Cosa vuol intendere?

   -La mafia è uno Stato nello Stato.

   -Non la capisco.

   -La mafia non è una scelta politica, ma un movimento nato qui da noi per bisogno di difenderci, lo abbiamo sempre avuto, dagli invasori. Da quando esiste, non lo sappiamo, ma è certo che operava già ai tempi di Napoleone.

   -E perché?

   -Difendeva i privilegi dell’aristocrazia. Tutto ciò, per un forestiero, non ha molto senso.

   -Per noi, sì- intervenne Katharina. Anche l’Austria cercò di frenare la spinta della Rivoluzione Francese. Ci fu una specie di compromesso con le nozze di Napoleone e Maria Luisa. Gli Asburgo vennero a patti, gli inglesi, no.

   -Un Paese ricco, come era l’Inghilterra- proseguì il direttore- poteva permettersi il lusso di mille esperimenti politici. Una terra povera come la nostra non può concedersi troppe fantasie quando deve amministrare le proprie risorse. L’incuria dei governi, l’incremento del latifondismo e il peggioramento della situazione sociale nel nostro secolo hanno fatto sì che la mafia abbia attecchito sempre di  più. E neppure il fascismo ci ha aiutati.

   -Cosa intende dire?- chiese Bernard.

   -Voglio dire che potrebbe trovare dei mafiosi tra i liberali o tra i cattolici baciapile. Se lei pensa che il problema principale dell’isola, il secolo scorso, era l’organizzazione rurale, capirà anche l’interessamento della mafia di fronte alla passività del governo. Contrastava gli abusi del bracciantato, fiscalizzava i contratti dei fittavoli e ha finito per diventare, come le ho detto prima, un governo che muove i fili della trama sociale con maggiore efficacia e forza di quanto non facciano i governi ufficiali. Poi, con l’arrivo delle grandi carestie…

   -E quale relazione c’è? 

   -La fame determinò l’esodo di molti siciliani verso gli Stati Uniti. Lì nacquero nuovi legami. I mafiosi vi portarono la loro organizzazione, che riusciva a sopravvivere anche in un ambiente ostile e, soprattutto, portarono la grande legge del silenzio, che, in un certo modo, può confondersi con quanto noi chiamiamo omertà. D’altro canto, quelli che lì si arricchirono non dimenticarono le proprie origini e cominciarono ad aiutare e a commerciare con gli amici e i parenti rimasti nell’isola, rafforzando sempre di più la trama invisibile. Alla fine, il loro potere divenne talmente grande e, allo stesso tempo, talmente irrintracciabile, che i funzionari dello Stato ebbero solo due possibilità: fare finta di non vedere o collaborare.

   -E ora?

   -Se Mussolini industrializzasse l’isola, se portasse qui i miliardi di lire che investe al nord, già ricco, la mafia perderebbe forza; il suo status si basa infatti sulla miseria e sulla paura. Ma ancora una volta, Roma si è dimenticata di noi e, quindi, stia in guardia: non confonda i fascisti con i mafiosi.

   Non seguitarono la conversazione. La ragazza consegnò al banchiere i documenti che le aveva dato il dottore a Firenze e lui, gentilmente, li accompagnò fino alla porta.

   Lì, però, aggiunse:

   -Se dovessero avere qualche problema, me lo facciano sapere.

   Quando s’erano già allontanati dalla Cassa di Risparmio, Katharina commentò:

   -È un mafioso.

   Quindi, un tantino preoccupata, aggiunse:

   -Cosa vorrà il sindaco?

   -Nulla, suppongo. Ho fiducia in Antonio. Mi avrebbe avvertito.

   Passeggiarono un po’ per la città.

   -Che meraviglia! Adesso capisco da dove donna Agata tira fuori quelle splendide terracotte!- esclamò Bernard.

   Effettivamente, si aveva l’impressione che tutta la città si dedicasse alla produzione di ceramica d’ogni tipo: dalle balaustre dei parapetti alle statuine più delicate. Davanti all’immensa scalinata, orgoglio della città, si fermarono.

   -Dovrebbero venire per San Giacomo!- li incoraggiò uno sconosciuto.

   Mangiucchiarono qualcosa e ripresero il loro viaggio verso Piazza Armerina. Si trovarono di fronte, ancora una volta, una città monumentale: non ne avevano mai sentito parlare sotto quella veste.

   -E io che la ritenevo solo una zona archeologica!- esclamò Katharina.

   -E io, allora? Non sapevo neppure che esistesse.

   Non avevano il tempo per visitare le piazze, le vie, le chiese e i monumenti. Decisero, quindi, di informarsi sul posto dove lei doveva andare. Glielo indicarono. Fu accolta da un tedesco, responsabile del loro gruppo, e qui Katharina ebbe la prima contrarietà. Il tesesco, un uomo sulla quarantina, che si comportava come se fosse un ufficiale dell’esercito e non l’incaricato di ricevere un gruppo di studenti, l’accompagnò fino a dei padiglioni di legno, suddivisi in scompartimenti, ognuno dei quali ospitava quattro letti a castello. Le indicò il suo e il suo armadio.  

   -Ma qui non c’entra nulla!- protestò lei.

   -Non pensava certo di trovare un albergo di lusso- insinuò l’uomo.

   E le consegnò un foglio zeppo di istruzioni. Dall’organizzazione gerarchica dei gruppi, agli orari di lavoro; dall’orario dei pranzi a quello del sonno. L’elenco dei divieti era poi lunghissimo. Quel posto assomigliava più a una organizzazione paramilitare, del tipo di quelle che Fritz Todt aveva creato nel Terzo Reich, che a un accampamento di archeologi.

   -Se ha dei dubbi, glieli chiariranno le sue compagne di dormitorio.

   -Sono anch’esse tedesche?

   -Sì, come lei.

   -No, scusi; io sono austriaca.

   -È la stessa cosa.

   Katharina si diresse verso l’automobile dove l’aspettava Bernard. Si sentiva molto depressa, ma cercò di non farlo vedere.

   -Se non le dispiace- disse, -mi dovrebbe custodire parte del bagaglio. Non dispongo di spazio sufficiente. Forse dovrei cercare una camera in paese e comprarmi una bicicletta per andare su e giú. Come mi ha detto il gauleiter, questo non è proprio un albergo. 

   -Chi?

   -Nulla, scherzavo.

   -Non sei contenta, vero?

   -Ero troppo bene abituata! Firenze, Taormina, Via Mugnos… e lei ne è il colpevole.    

   -Cos’è successo?

   “Come è facile leggermi in volto!”, pensò. Ma vedendo che il ragazzo era veramente inquieto, rispose:

   -Ho un capogruppo tedesco. E sospetto sia un nazista.

   -E cosa pensa di fare?

   -Cosa vuole che faccia? Sono venuta a lavorare, non è vero? Quindi lavorerò.

   Poi, consultarono il foglio con le istruzioni e videro che il tempo libero a disposizione dei residenti dell’accampamento andava dal mezzogiorno del sabato fino alle prime ore del lunedì mattina.

   -Verrò a prenderla sabato- le assicurò. -Dormirà nuovamente in una casa. Potrà mettere in ordine la sua roba, fare ciò che desidera, riposare… Le cose, da lontano, si vedono in un altro modo: più facili o più difficili. Non avrei mai pensato che mi sarei introdotto in questa società così chiusa, ed eccomi qua: mezzo spia, amico di cospiratori, in contatto con mafiosi, e un sindaco che mi invita…

   Lei cercò di sorridere, e lui proseguì:

   -A quanto pare, lei non ha avuto la stessa fortuna.

   Le strinse con forza la mano, come per infonderle coraggio, e concluse:

   -Entrambi attraversiamo momenti di sconforto, quindi ci dobbiamo aiutare.

   -Per il momento è lei solo ad aiutare. Io sono un disturbo.

   Poi rise un po’ e aggiunse:

   -Noi ragazze siamo sempre ben poca cosa, non è vero?

   -No, lei no.

   Mise in moto la macchina. Provava, in quel momento, una certa tristezza, ma sapeva che era una tristezza positiva, generatrice di futuri momenti di pienezza.  

XIV

   Rincasò abbastanza presto e fece sapere che Katharina sarebbe tornata il prossimo fine settimana. Toni gli disse che il sindaco l’aspettava l’indomani alle undici. Cenò e decise di trascorrere la serata a scrivere una lettera allo zio Arnold, se la meritava. Usando uno stile diretto, quasi colloquiale, senza circonlocuzioni né immagini letterarie, gli raccontò, in sintesi, i fatti più importanti che gli erano accaduti. Descrisse i personaggi con grande vivacità e gli ambienti con chiarezza.

   L’indomani scese, con la lettera in tasca, abbastanza presto per poter far colazione con i Lanzara. Agata non smetteva di elogiare Katharina, e quando Bernard spiegò i motivi che l’avevano costretto a tenere a casa una parte del bagaglio e accennò a quel capogruppo tedesco, ebbe l’impressione, per la prima volta, che i Lanzara non nutrissero alcuna simpatia per i nazisti.

   -Ah! le Camicie brune!- esclamò Antonio, alludendo con disprezzo alla loro uniforme.

   Con una certa cautela, Bernard s’arrischiò a dire:

   -Neppure la signorina von Raitenau simpatizza con loro.

   -L’Austria soffrirà molto con Hitler- vaticinò Antonio. -Quando gli austriaci potevano contare sull’aiuto dell’Italia era un’altra cosa. Ma adesso che Mussolini li aveva abbandonati e aveva firmato il famoso patto di ferro Roma- Berlino…

   -È stato un errore?

   -Lo chieda a loro,- tagliò corto Antonio -a noi non piace parlare di politica.

   -Non sarà di politica che mi vorrà parlare il sindaco?

   -Politica? No, e perché mai? Lei è straniero, e studente. Nessuno le darà fastidio se non si immischia in cose che non la riguardano.

   -In ogni modo,- arguì il giovanotto -per una persona come me, che studia la storia, è castrante andare in giro senza fare domande.

   -Per questa volta, cercherò d’orientarla. Lei sa come la pensa il dottor Riccardi?

   -Credo di sì.

   -Ebbene, se le ha raccomandato qualcuno, vuol dire che questo qualcuno la pensa come lui.

   -Grazie del chiarimento. E ora, Antonio, permetta anche a me una domanda: i siciliani sono fascisti?

   -Forse sì. O in buona fede, o per opportunismo. Quasi tutti, però, ritengono che una amministrazione autonoma, non condizionata da Roma, servirebbe di più all’isola.

   Si imbatteva nuovamente con il filone autonomista -un filone che in Inghilterra non conosceva- forse particolarmente vivo in famiglie, che, come quella di Antonio, vivevano in campagna, appartenevano alla campagna. Dietro a quell’atteggiamento, intuiva il passato di un Paese di tradizione rurale, retto da una aristocrazia legata alla terra e, quindi, super conservatrice delle tradizioni, dei costumi e, in modo particolare, del loro fiorito dialetto. Nei secoli passati, quando erano il centro della Magna Grecia, erano stati invasi prima dai fenici e poi dai cartaginesi. Successivamente, furono conquistati dai romani, dai vandali, dai bizantini, dagli arabi, dai normanni. Tanti domini e nessuna integrazione! Quando era stata annessa all’Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, nessuno poteva sperare o pretendere che la sua unione col “continente” si realizzasse con la solidità che, ad esempio, legava la Toscana al Lazio o la Toscana alla Lombardia.

   Alle undici si presentò in Comune e il sindaco, Vito Piccioni, lo fece passare nel suo ufficio. Era un uomo sulla cinquantina, bassotto, grassoccio, di carnagione rosata, senza rughe e quasi completamente calvo. Aveva l’abitudine di parlare con un tono di voce molto basso, senza inflessioni. In compenso, gesticolava moltissimo, e la gente del paese, sempre incline al soprannome, l’ aveva ribattezzato “Gridamani”, per indicare, appunto, la sua gestualità.

   -Le ho chiesto di venire per parlare di un argomento che le sta a cuore, un argomento di storia.     

   -Attuale?

   -No, cose di archeologia, di epigrafia…

   Bernard non poteva smentire l’informazione da lui stesso intenzionalmente divulgata e ora temeva di fare una brutta figura. Ricordò, però, che Katharina sarebbe ritornata presto e pensò che, se per il momento fosse riuscito a salvare la faccia, avrebbe potuto poi discutere con lei la questione e trovare una soluzione.

   Si era preoccupato senza ragione. Il  sindaco Piccioni era stato maestro a Ragusa e lì aveva lavorato, da volontario, agli scavi della vicina città greca di Camarina, acquisendo indubbie conoscenze tecniche. Quella esperienza, sommata all’intuizione e alla passione, finì per fare del dilettante uno studioso molto più competente di tanti professionisti. E fu così che, tornato al suo paese natale, cominciò a cercare dei reperti che servissero a localizzare -non esistevano fonti scritte- l’ubicazione della leggendaria Eubea sicula.

   -Per quanto concerne la storia della nostra isola,- chiarì parlando con Bernard -il terremoto del 1693 e l’Unità d’Italia sono stati entrambi due avvenimenti nefasti per noi. L’Unità ha comportato saccheggi, dispersione degli archivi… e anche la confisca dei beni ecclesiastici: questo ci abbiamo guadagnato!

   La critica allo Stato centralista tornava.

   Poi, si mise a parlare di Erodoto e di Strabone, e delle sue riflessioni sugli scritti di quegli autori, e infine aggiunse:

   -Il nome del nostro paese era Licodia, ma nel 1872 una Giunta Comunale deliberò di aggiungervi quello di Eubea. Già allora i nostri nonni sognavano, dunque, di vivere sul territorio dell’antica colonia greca. Le origini greche del nostro minuscolo paese, l’ipotesi di collegare la nostra storia a quella della civiltà omerica ha sempre solleticato la fantasia dei paesani, al di là delle dimostrazioni scientifiche. Mi piacerebbe tanto chiarire se il nostro territorio sia lo stesso della mitica Eubea!

   Poi, quasi fosse una notizia importante lasciata a bella posta per il finale, parlò di alcune pietre che aveva trovato non troppo lontano dal centro cittadino, con delle iscrizioni greche di difficile trascrizione. Per fortuna, il greco classico studiato da Bernard a Cambridge si dimostrò sufficiente ad aiutare il sindaco.

   Purtroppo, in quelle pietre, graffiate dal trascorrere dei secoli, bastava che un tratto delle maiuscole fosse appena deformato per trasformare un’alfa in una delta o una psi in una epsilon. I dubbi erano frequentissimi e un frammento di epigrafe poteva essere interpretato indifferentemente come un patronimico o come una carica  o un mestiere, oppure come l’oscura parola di un popolo quasi mitico.

   Bernard si scusò per le sue lacune, dicendo di essersi specializzato in storia medievale, e parlò della sua amica, che dipinse come una grande esperta del mondo antico. Aggiunse che sarebbe venuta in paese proprio quella domenica. Vito si entusiasmò alla notizia e gli fece promettere che si sarebbero recati a casa sua nel pomeriggio della domenica.

   In sé questi particolari sembravano non avere grande importanza, ma per Bernard erano di grande rilievo. Erano un po’ il termometro dei continui progressi di socializzazione in un ambiente che, all’inizio, gli era stato descritto come chiuso e ostile. Dopopranzo, aveva preso l’abitudine di andare a prendere il caffè con la gente del paese, nella taverna situata accanto al Comune. Se il tempo era buono -e quasi sempre lo era- si sedeva fuori, con in mano un libro e un block-notes. Invariabilmente, dopo cinque minuti, gli si avvicinava il bottegaio che non aveva ancora aperto il negozio, il contadino che aveva troppo caldo per andare all’orto, il vigile urbano che era smontato dal suo primo turno in Comune e aspettava le cinque per tornarvi. Tutta gente che parlava volentieri di tutto e di niente. Si erano insomma abituati alla sua presenza, tanto da considerarlo uno di loro. Non si peritavano a discutere e a litigare tra loro in sua presenza, anche se non lo mettevano a parte della natura delle loro questioni. 

   Un giorno si parlava di mafia. La cautela e il silenzio, naturali in quei frangenti, vennero rotti da un proprietario che disse: “Se quei due là -il gesto indicava un paio di compaesani che conversavano dall’altra parte della via- stessero tramando qualcosa, e io li sentissi,  non andrei a denunciarli”.

   In circostanze simili, Bernard aveva imparato a tacere. Paradossalmente, il silenzio era il suo miglior alleato. Giorno dopo giorno, la sua discrezione guadagnava la fiducia della gente, che cominciò a parlare con lui di amici “che a lei farebbe piacere conoscere”. Ciò gli permise di farsi una lista di persone che sarebbe stato utile contattare nei vari paesini della zona: Vizzini, Grammichele, Monterosso, Palazzolo, Chiaramonte, Buccheri erano borghi che, a prima vista, non sembravano possedere interessi particolari per uno storico, ma che, invece, fotografavano lo stile della vita del momento e i rapporti di dipendenza che tale stile conservava con il passato. Bernard si rese conto molto presto che quel miscuglio di trasparenza e silenzio, di amicizie e inimicizie, coperte dal mistero sempre lì lì per essere svelato, erano appunto quanto avrebbe potuto proficuamente analizzare nella sua tesi. A Cambridge non ci avrebbe mai pensato! Lì ragionava con la freddezza dell’intellettuale che credeva d’avere in mano già ogni soluzione, qui con il calore che le circostanze gli mettevano di fronte con grande prodigalità.

   Lavorò intensamente per avere libero il fine settimana e andare a prendere Katharina. La trovò rincuorata, ma anche con una gran voglia di trascorrere alcune ore di pace a Licodia Eubea, nel palazzo dove abitava Bernard, dove si sarebbe potuta lavare e liberarsi così della polvere finissima del cantiere che le si intrufolava dappertutto. Avrebbe potuto mangiare, seduta a una tavola ben fornita, dormire in un letto comodo e fresco, e conversare con persone che la stimavano e che non le davano ordini in continuazione.

   Le ore trascorsero fluide e sottili come se il tempo non esistesse. Cenarono presto. Poi, decisero di passeggiare fin sulla cima del colle dove si alzavano i ruderi dell’antico castello di Licodia. Non c’era anima viva. Ai loro piedi, un paesino quasi addormentato, con la rara presenza di qualche nottambulo che si dirigeva al caffè per giocare a carte. Ombre profonde nella fossa del Pioppo, briciole di chiarore per i pendii di Donna Puma, pennellate di nero nella pineta della Caduta. La notte, piena di stelle, con un brandello di luna calante, dava al paesaggio quel tono magico che acquistano le rocce e la vegetazione quando le bagna l’argento degli astri. Quasi non parlavano. Le parole erano inutili.

   Di alcune cose, però, avrebbero dovuto parlare: del lavoro, della vita dura dell’accampamento, della roba di lei in casa di lui, della visita al sindaco, dei progressi di Bernard, delle delusioni, delle speranze, e… anche di loro. Di loro che erano giovani, due ragazzi, che senz’altro percepivano meglio di tanti altri il profumo delle notti di maggio. Di loro che avrebbero dovuto essere solidali, perché vivevano soli in un paese straniero. Ma forse avevano capito che era più importante trovare una intesa, tacita, sulla loro integrità, sulla loro purezza senza tempo, e il silenzio, in  tali momenti s’imponeva.

   Katharina lo ruppe per dire:

   -Sono cattolica.

   Lui capì il motivo di quella affermazione solo quando la prese a braccetto per accompagnarla sulla via del ritorno e la sentì tremare un poco. Avrebbe desiderato baciarla, ma, intuendo le sue remore, non lo fece. 

    L’indomani andarono alla “Matrice”, come chiamava quella chiesa la gente del paese. L’oro degli altari, il verde brillante della pianeta del sacerdote, il fumo dell’incenso, l’allegria delle campane, i vestiti di festa messi in bella mostra dai contadini, tutto contribuiva a fare del giorno di domenica un giorno particolare. E particolare fu anche il pranzo. Katharina, abituata ai pasti sempre uguali dell’accampamento, trovò squisito tutto; dal timballo di maccheroni gratinati, al coniglio in umido, dalla frutta primaticcia al vino rosso paesano, così forte e aspro.

   Nel pomeriggio, mentre andavano da Vito Piccioni, Bernard disse:

   -Credo… se lei non ha nulla in contrario… ho detto tante volte che c’era tra noi una grande amicizia che…

   -Ci dobbiamo dare del tu, non è vero?- l’interruppe lei, ridendo.

   -Sì, se ti pare, se…

   -Ne sarei tanto contenta, ma non essere così timido!

   Rise nuovamente, con quella risata profondamente gioiosa, e poi aggiunse:

   -Sì, Bernard, sì, diamoci del tu. Sei un ragazzo meraviglioso e comincio a volerti un po’ di bene.

   Poi, di nuovo la risata. Una risata che riempì di vita l’attimo presente e, forse, anche gli altri che si sarebbero succeduti non si sa per quanto tempo. Una risata fresca e niente affatto canzonatoria. Simile allo zampillo di una fontana quando si ha sete.

   -Oh, Katharina, che pomeriggio!- fu il commento.

   La casa del sindaco non si trovava esattamente dentro il paese, ma sulla strada per Monte Altore. Situata tra una vegetazione abbastanza prospera, con mandorli, olivi, peschi, fichi d’India e quattro viti, pareva più una vecchia barracca d’ortolano restaurata per abitarvi che non una vera e propria casa.          

   La moglie di Vito era esattamente come un forestiero se la sarebbe immaginata. Rispondeva ai canoni più tipici della sicilianità: più bassa che alta, magra, e con le mani e il volto scuriti dal sole, vestiva di nero e non prendeva mai parte alla conversazione. Vito, al contrario, gesticolava in continuazione ed era di una esuberanza quasi teatrale. Si preoccupò di mostrare subito alla coppia i tesori disotterrati grazie alla sua iniziativa -pietre tombali, pietre squadrate con iscrizioni, lapidi- che, a quanto diceva, sarebbero stati esposti un giorno nel museo. Per un profano erano solo quattro pietre incise di scarabocchi illeggibili.

   Katharina, da competente, si entusiasmò e avanzò alcune  ipotesi, che erano state confortate in casi analoghi. Sopra una specie di bancone, fatto con tavole e cavalletti, il buon uomo aveva sparso, accanto alle pietre, una grande quantità di disegni, che ricostruivano gli edifici e i monumenti che credeva d’aver riconosciuto grazie ai reperti trovati.

   A un certo punto, li interruppe la moglie per dire che aveva preparato una merenda nel salotto, che poi era la loro stanza da pranzo. Tutto era informato alla semplicità. Gli arredi erano quelli caratteristici dei popolani. Un calendario, appeso a una parete con un angelo con le ali aperte, e dipinte con la porporina, che sovrastava le fotografie ingiallite, vetuste finestre spalancate su un passato di famigliari morti.

   Mentre mangiavano -pasticcini fatti in casa e moscatello di Noto- il sindaco chiese degli scavi di Piazza Armerina.

   -A quanto pare,- disse Katharina -verso il secolo XII, ci fu un enorme scorrimento di terra dal monte Mangone, e una immensa massa di fango coprì tutti gli edifici. Questo li ha conservati così bene per secoli.

   -E ora, cosa state facendo?

   Katharina descrisse alcuni dei mosaici più interessanti -scene mitologiche, d’amore, di caccia-, e tracciò uno schizzo della pianta dei più importanti elementi architettonici portati alla luce -l’atrio, i bagni, il peristilio- e, con un tratto più sottile, aggiunse quelle che, probabilmente, avrebbero trovato in seguito.

   Quando la coppia stava per tornare in paese, il sindaco si rivolse alla ragazza e le disse:

   -Perché non rimane a Licodia? A Piazza Armerina c’è molta gente e qui devo lavorare da solo.

   -Non posso!- esclamò. -E non perché non ne abbia voglia!

   -E… allora?- s’incuriosì Piccioni.

   -Ho un debito morale ed economico verso chi mi ha permesso di venire qui.

   La conversazione finì così. Mentre rincasavano, Bernard chiese:

   -Ti piacerebbe veramente rimanere a Licodia?

   -Sì.

   -A causa del tedesco?

   -Non esattamente.

   -E perché?

   -Non lo so, forse per te, per questa vita così autentica che ti circonda, per i tuoi amici del paese, per tutto ciò che io non ho e che rimpiango.

   -Non sei felice?

   -Non è questo. Non mi posso lamentare. Credo che il mio sia un problema d’adattamento. Volevo dedicarmi alla ricerca erudita e non faccio altro che spazzare la terra scavata dagli altri.

   -Il signor Piccioni ti ha fatto un’ offerta. Vale la pena di riflettere.

   -Lo farò, te lo prometto. Non si tratta di soldi. I miei, in caso di bisogno, mi possono aiutare. Ma lasciare i miei compagni dell’accampamento mi parebbe, in questo momento, una vigliaccheria.

   -Non voglio influenzarti. L’idea di lavorare e di vivere vicino a te mi tenta troppo e allo stesso tempo mi fa paura.

   -Paura? Perché, paura?

   -Te l’ho detto, sarebbe troppo bello. Quando si presentano due strade che pare conducano a uno stesso risultato, io scelgo la più difficile: se sbagli, nessuno ti potrà tacciare di egoismo. 

   Decisero di non parlare, per il momento, di quella possibilità con i Lanzara. Cenarono di buon’ora. Un pasto leggero. Katharina andò in quella che era ormai la sua camera per mettere un po’ d’ordine nelle sue valigie. L’indomani, di buon mattino, partirono per tornare a Piazza Armerina. Sapevano che si sarebbero rivisti il prossimo fine settimana. Non lo confessarono nemmeno a se stessi, ma provarono tristezza al momento di separarsi: erano stati così felici insieme! Si misero in viaggio nelle prime ore del mattino di un lunedì glaciale, con un cielo mezzo grigio, popolato di uccelli che riempivano l’aria con la loro aggressività di cacciatori mattinieri.

   All’arrivo, Bernard scese dalla macchina per prendere le valigie. In quel momento apparve il gauleiter responsabile del gruppo di Katharina e aggredendola le disse:

   -Arriva tardi!

   Lei non lo salutò neppure, e si rivolse a Bernard, come per reazione alla villania del “capetto”.

    “A sabato”, gli disse in un tedesco molto sonoro e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si alzò sulle punte dei piedi per dargli un gran bacio sulla guancia.

   Poi, sorridendo, si diresse al suo alloggio.

XV

   Trascorsero un paio di settimane senza novità di rilievo, poi, un giorno Bernard ricevette una lettera dallo zio Arnold. Dentro ne trovò un’altra del “Sunday Express”, con una offerta molto concreta.

   Il mistero è presto detto. Quando lo zio ricevette la lettera del nipote, trovò che il racconto che lui faceva di quella regione dell’Italia meridionale era una cronaca di buon livello, sia per l’informazione che per la prosa, così diversa da quella dei giornalisti di professione. Dopo avere spunto alcuni riferimenti compromettenti e modificato alcuni nomi, la spedì al “Sunday”, che la pubblicò. Ma c’era di più, il giornale apprezzò a tal punto il pezzo che offrì a Mr. Quayle la possibilità di scrivere una cronaca settimanale dalla Sicilia.

   Bernard non volle attendere i possibili ritardi della posta, l’offerta era troppo importante, e telefonò subito al settimanale. Trovarono un accordo sui compensi che gli sarebbero stati girati su una banca di Caltagirone, e promisero anche di spedirgli quella tessera di giornalista che avrebbe aperto molte porte. E così fu. Grazie a quella, poteva accedere a vari uffici e intervistare magistrati, politici, prelati e gerarchi del partito, intellettuali e dissidenti in incognito. Queste interviste, assieme a quelle meno spettacolari che aveva con la gente comune, gli permisero di inviare regolarmente dei reportage che, oltre alla notorietà e al denaro, gli consentirono di raccogliere materiale per la sua tesi.

   Verso la fine di maggio le relazioni con Katharina erano diventate stabili, tranne qualche modifica imposta dai loro impegni di lavoro. Di norma, passavano insieme i fine settimana e intercambiavano punti di vista e informazioni. Lei non era troppo contenta del suo lavoro, e per il trattamento insolente del gauleiter, che non trovava il coraggio di denunciare, e per i compiti irrilevanti che le venivano affidati. Questi erano più vicini alle mansioni di un manovale, che a quelle di un archeologo.

   -E se chi l’ha destinata a Piazza Armerina la trasferisse altrove, lei che farebbe?,- le chiese una sera il sindaco di Licodia.    

   -Accetterei, se non altro per liberarmi del tedesco.

   Venne giugno. Il tempo era splendido, le giornate si erano allungate, e i due pensarono di andare finalmente a visitare Selinunte e Castelvetrano. 

   -Potremmo andare la prossima settimana- propose lei.

   Agata disse che se avessero voluto mangiare sulla spiaggia, avrebbe preparato loro un bel cestino con il pranzo.

   -Hai il costume da bagno?- chiese Katharina.

   -No!- esclamò lui, un po’ stupito.

   -Sei proprio imbranato, avresti bisogno di una donna che si occupi di te!

   A Caltagirone comprarono il costume e, visto che era lì, ne approfittò per andare alla Cassa di San Giacomo per ritirare il bonifico dal “Sunday”.

   -Il direttore le vorrebbe parlare- gli disse un impiegato.

  Lo fecero accomodare nell’ufficio.

   -Fantastica la puntualità inglese, i soldi sono già stati accreditati sul suo conto.

   Non l’invitò a sedere, e dopo una piccola pausa, aggiunse:

   -Il procuratore Giorgio Milazzo è ritornato a casa.

   -Cos’è stato? Un malinteso?

   -Non so nulla, io non so nulla. Lo vada a trovare. Casomai, sarà lui a spiegarle quanto è successo.

   Era presto, e andò a fargli visita. Fu ricevuto dalla signora.

   -Il sabato non è il giorno più addatto-, (l’anticamera era piena di gente) -se vuole, le posso fissare un appuntamento per lunedì mattina.

   Bernard comprese che in quel momento la sua presenza era di troppo. La signora scomparve un attimo, e quando tornò gli disse:

   -Allora, alle undici.

   -Mi farebbe piacere accompagnarti.- disse Katharina.

   -Puoi chiedere un permesso?

   -Posso provare. Se arrivo all’accampamento di buon’ora e mi dicono di sì… Però dovresti fare avanti e indietro un paio di volte!

   -Sai bene che questo non è un problema.

   La domenica si alzarono alle cinque del mattino. Trovarono in cucina il cestino con la colazione e il pranzo. Era abbondante e, soprattutto, preparato con amore.

   -Non vorremmo fare troppo?- disse lei. -Castelvetrano, la spiaggia, Selinunte… e Agrigento, proprio lì a due passi!

   -Abbiamo ancora molte settimane…

   Improvvisamente lei domandò:

   -Conosci qualcosa di Pirandello?

   – Perché me lo chiedi?

   -Era di Agrigento.

   -Era?

   -Sì, è morto a Roma l’anno scorso.

   -Sai tutto!

   -Mi piace il suo teatro, e a te?

   -Io sono un ignorante, sono uno di quegli inglesi che pensano che esista solo Shakespeare. No, confesso di non saperne nulla.

   -Un giorno o l’altro dovremmo andare a vedere qualche suo lavoro.

   -Adesso sì che mi sento meglio!

   -Non fare lo sciocco!

   -No, no, è che accanto a te, tutto ha un altro sapore.

   Si rese conto che Bernard era sincero, e non volle scherzare. Avrebbe potuto ferirlo.

   Il viaggio, con la brezza mattutina, fu piacevolissimo. Attraversarono Gela di buon’ora e proseguirono -in qualche tratto costeggiando il mare- verso Licata e Agrigento, finché giunsero a Selinunte. Decisero di visitarla subito, per poi fare un bagno. Avrebbero pranzato sulla spiaggia e, nel pomeriggio, sarebbero andati a Castelvetrano.

   Era la prima volta che visitavano insieme resti archeologici tanto importanti. Katharina, nonostante l’abitudine, non poteva celare lo stupore che le causò la grandiosità dell’acropoli. Era il simbolo di una civiltà che aveva voluto esprimere, attraverso le pietre dei suoi templi, non solo un concetto religioso dell’esistenza, ma anche una sublime volontà di perpetuarsi. Quelle pietre esprimevano tutta la concezione di un mondo che per affermarsi, aveva realizzato qualcosa che assomigliava alla potenza assoluta.

   Sotto il blu cobalto del cielo e accanto ai bianchi smerli delle onde minute, l’oro delle pietre era maestoso, seducente. Che senso avrebbe avuto usare davanti a quello spettacolo i soliti termini eruditi? Dorico, metope, triglifo, abaco… no, la magia non si descrive e, quando la si trova, per caso, non resta che immergervisi e lasciare perdere i ragionamenti.

   Percorsero la grande acropoli, sgranando il drammatico rosario dei templi in rovina, sino al santuario di Demetra Malophoros. Di colpo, il silenzio contemplativo fu rotto dalla voce decisa di Katharina. Bernard scoprì che le parole della ragazza riuscivano a conferire alle pietre quei significati profondi che lui aveva solo intuito. Il suo discorso travalicava il nozionismo. Lei parlava di religione, dei cammini che deve seguire l’anima dopo la morte, del simbolo della resurrezione che si nascondeva dietro il mito di Persefone, dei digiuni, indispensabili per accedere a una specie di ascesi. Un passato millennario si univa al presente, come se l’uomo fosse sempre una stessa costante e solo mutassero le circostanze che lo circondano.

   -Non so esattamente- mormorò Katharina -quali siano le mie origini, se greche o latine, ma quando mi trovo davanti a queste pietre mi pare di sentire una voce interiore che mi dice: “Sei tornata a casa”.

   Poi fecero il bagno dove forse si immergevano gli iniziati nei misteri di Eleusi. L’ora era propizia. La mancanza di brezza dava al mare l’aspetto di metallo pulimentato. La spiaggia, immensa e deserta, dove la sabbia era più asciutta, luccicava come una striscia d’oro e acquistava, invece, toni rosati, laddove era bagnata dalle minuscole onde.   

   Katharina aveva sotto il vestito variopinto di cotone a maniche corte, il costume da bagno. Quando lo slacciò e lo fece passare dalla testa, le sue braccia, alzate e incrociate, diedero l’impressione che il suo corpo fosse quasi completamente nudo, tanto perfetta era l’armonia del gesto. Le sue gambe erano solide, i fianchi perfetti, la vita esile e i seni minuti. Tutto sembrava coronare degnamente la sua testa statuaria.

   Bernard corse verso l’acqua e cominciò a nuotare quasi con furia. Era turbato, quella donna gli piaceva in modo spasmodico. La vide camminare ritmicamente verso di lui, ignara della poderosa forza delle sue cosce, e delle sue ginocchia tonde come un frutto. La sua bocca era tremante per il sùbito contatto del corpo con l’acqua fredda, quando disse:

   -Nuoti molto bene!

   -A Cambridge ero un atleta.

   -Lo sei ancora.

   -Grazie.

   Anche lei, dunque, l’aveva guardato. Forse tutti e due stavano lottando affinché il desiderio non si impadronisse di loro. Bernard non era ossessionato dalla colpa e dal peccato, ma dava un grande valore alla continenza per ragioni che nulla avevano a che fare con il comandamento. Se si fosse trattato solo di un divieto religioso, forse non vi avrebbe prestato orecchio. Magari, avrebbe rispettato la verginità della ragazza per elementare cortesia verso la sua asserzione “Sono cattolica”, non per convincimenti personali. Per lui,  la castità era un bene di per sé. L’atteggiamento di rinuncia era un trionfo sul mondo dei sensi che, dominati, aprivano la mente verso nuove profondità e capacità di percezione che superavano di gran lunga quanto di effimero contiene la realtà.

   Si sdraiarono su un grande asciugamano da spiaggia che lei aveva steso sulla sabbia tiepida. Lui le si avvicinò, la baciò sulla spalla e le disse:

   -Sei molto bella.

   -Grazie!

   E, a sua volta, lo baciò sulla guancia. Ora ognuno sapeva che l’altro provava un analogo sentimento.

   Fecero nuovamente il bagno e si asciugarono altre due volte e giocarono come cuccioli, con esuberante vitalità. Poi il pranzo, divorato con gioia infantile: prosciutto, tonno marinato, costolette d’agnello impanate, formaggio, frutta, vino… Il sangue fluiva veloce, come se procedesse da una fonte estranea al proprio corpo. Era chiaro che stavano mangiando qualche cosa di più di ciò che Agata aveva preparato: mangiavano cielo, mare, colonne doriche e amore. Non se lo dicevano e forse non lo sapevano neppure, ma il seme era dentro di loro.

   Cercarono l’ombra protettrice dei pini e lei si assopì. Bernard la guardava. Era indifesa, e lui sentiva quell’impercettibile respiro nasale e vedeva il suo petto sollevarsi e abbassarsi con regolarità. Un raggio di sole faceva germogliare sulle sue gambe una lanugine dorata, simile a quella di un frutto. A un certo punto, gli parve di sentirla russare tenuamente, e provò una gioia profonda: dunque, anche lei era umana.

   Di pomeriggio, mentre si preparavano a partire per Castelvetrano, le chiese perché aveva parlato di una possibile eredità latina o greca.

   -Forse la mia famiglia- rispose.

   -I tuoi antenati?

   -Più o meno. Non hai mai sentito parlare di Wolf Dietrich von Raitenau?

   -No.

   -Era un mio trisavolo, eletto arcivescovo di Salisburgo nel 1587.

   -Credevo che i sacerdoti cattolici non si potessero sposare.

   -Non si sposò, infatti! Ma visse con una ragazza che, secondo quanto dice la storia, era di una folgorante bellezza. Ebbero quindici figli, lei si chiamava Salomè Alt. Ebrea.

   -E allora?    

   -Allora so che il mio trisavolo era un innamorato dell’Italia. Aveva studiato a Roma e si era legato di grande amicizia con i Medici. Di ritorno a Salisburgo, cercò di introdurre lo spirito rinascimentale nella sua città, un arcivescovo era allora potente come un principe, e cercò di fare di Salisburgo la Roma austriaca. Purtroppo non vi riuscì. I nemici che si era procurato nel suo tentativo fecero sì che cadesse in disgrazia. Qualche tempo dopo, fu imprigionato e morì nel 1612 nella fortezza di Salisburgo, quella che si trova sulla cima della collina.

   -E tu!?

   -Io discendo da uno di quei quindici figli. L’albero genealogico è un po’ confuso a causa delle rivalità che la nostra famiglia ebbe con i duchi di Baviera. Ma eccomi qua. E se per caso vai a Salisburgo, potrai ancora vedere le rovine del castello di Mirabell, che il mio antenato fece costruire per la sua amante.

   -È’ vero quello che hai detto?

   -Perché ti dovrei ingannare?

   -Cosa ne pensano i tuoi genitori?

   -I miei genitori, come la stragrande maggioranza degli aristocratici, hanno cercato di ereditare ciò che è veramente nobile, ciò che ci dovrebbe contraddistinguere. Quanto al resto… hanno cercato di dimenticare, non ne vanno certo orgogliosi.

   -E tu, perché me l’hai raccontato?

   -Perché non ne provo vergogna. Il mio trisavolo era un uomo del suo tempo, un uomo ammirevole. Oggi conserviamo le apparenze, ma abbiamo perso ogni slancio. È’ come se il sangue si fosse annacquato e incodardito con il trascorrere dei secoli. Sono sicura che Wolf Dietrich, se vivesse in questo nostro tempo, lotterebbe con tutte le sue forze contro Hitler e i suoi seguaci.

   -Ma tu non abiti a Salisburgo?

   -No. I miei genitori non sono gli unici von Raitenau e, forse, neppure i più importanti. Io, per esempio, ho un cugino che si chiama Dietrich, discendente da un ramo più diretto del nostro. Noi siamo una famiglia normale. Abitiamo nel centro di Vienna in un grande appartamento accogliente. Non abbiamo più castelli, né palazzi, né cappelle private. Terre, quelle sì. E qualche investimento, le cui rendite, anche se si fanno ogni giorno più esigue, sono comunque sufficienti a vivere discretamente. Una vita monotona. In casa amiamo tutti la musica. Mia madre suona molto bene il pianoforte e io, quando ero ragazzina, avevo cantato qualcosa di Schubert e di Mozart. Sai? Anche Mozart amava l’Italia.

   -E la vostra paura?

   -Mio padre appoggiava Dollfuss. Era, cioè, favorevole a miglioramenti salariali e sociali ispirati alla dottrina della Chiesa. Poiché tu non sei cattolico, ti è difficile comprendere la grande importanza che ebbe per noi l’enciclica “Quadragesimo anno” di Pio XI. Siamo quindi contrari sia al socialismo che al nazionalsocialismo di Hitler. Tu sai già come è andata a finire: Dollfuss fondò il Vaterländische Front, cioè il Fronte Patriottico, e cercò in tutti i modi d’osteggiare i nazisti di Seyss-Inquart, e questi si sbarazzarono di lui assaltando la Cancelleria e assassinandolo. Mio padre era un militante di quel partito. Le sue idee ti sarebbero piaciute: repressione del socialismo, sfiducia nella democrazia, Stato corporativo…

   -E a te piaceva?    

   -No. A me, no. Non  mi sono mai messa in politica, ma se lo facessi, militerei più a sinistra. Mio padre è troppo conservatore.

   Bernard evocò alcuni fatti storici che aveva studiato e disse:

   -Ma a voi cosa potrebbe succedere adesso, se fu proprio Dollfuss a abolire la costituzione e a schierarsi apertamente in favore di Mussolini?

   -Ci siamo sempre opposti all’unione con la Germania e abbiamo lottato contro il sistema repressivo dei nazisti. Formiamo parte d’una aristocrazia non solo di sangue, ma anche di pensiero. Inoltre, siamo moderatamente ricchi. Cosa ci può accadere, dici? Confisca dei beni, perdita di tutti i diritti, deportazione… Dovresti solo vedere cosa fanno agli ebrei.

   Finalmente comprese:

   -Tu sei ebrea, no è vero?

   Dopo aver riflettuto qualche istante, aggiunse:

   -Per questo, a Firenze, quando il dottor Riccardi insisteva tanto con il tuo cognome…

   -Sì, doveva conoscere la storia della nostra famiglia, e ha ritenuto che tutti i von Raitenau dovessero discendere dal nostro amato e prolifero arcivescovo e da quella bellissima ebrea, Salomè Alt.

   Si erano già asciugati e si vestirono per mettersi in viaggio verso Castelvetrano. Man mano che si avvicinavano, Bernard notava che scemava il suo interesse per quella città che, in fin dei conti, non aveva altro fascino che l’essere stata la culla di Giovanni Gentile. Era un fatto circostanziale se paragonato ai forti sentimenti del mattino. La loro unione improvvisa con quella terra e i suoi secoli di storia li aveva fatti entrare nel ciclo interminabile del tempo, e lì è impossibile discernere le circostanze dell’oggi da quelle del sempre.

   Castelvetrano! Un migliaio di abitanti, una chiesa normanna, una vecchia casa natale. Pomeriggio di domenica, e dei ragazzini che sfilano per la strada al suono dei tamburi e delle cornette, vestiti con la divisa del partito e che cantano, con entusiasmo infantile, “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!”. Dopo la gloria ardita di Selinunte, sembrava uno scherzo da carnevale. Gentile era un filosofo onesto, non una delle caricature d’una “italica civiltà”. 

   Mentre stavano per sedersi alla terrazza di un affollato caffè, un fotografo ambulante li fotografò. Ordinarono una cassata siciliana.

   -Vuoi andare da solo a fare le interviste? -chiese lei.

   -Non ho intenzione di lavorare. Non voglio lavorare. È stata una giornata troppo bella, perché rovinarla.

   -Suvvia! Non fare il bambino!

   -È vero, Katharina. Non so come spiegartelo. Posso solo dirti che questa giornata la ricorderò tutta la vita. 

   Fecero ritorno a Licodia stanchi, ma felici. Sentivano ancora bruciare il sole sulle loro spalle e il sapore del sale era ancora vivo sul loro corpo. Nella mente, una mescolanza di dolore e l’appagamento che ci pervade quando si riesce a scoprire in noi qualcosa di molto profondo. Una specie di bellezza indescrivibile, uno stato d’animo che non si può stimolare a piacimento. In momenti così ci si rende conto che una vita che non riesca a prescindere dalle volgarità, dai condizionamenti del presente, non può nemmeno riconsegnarci, non dico il bello che abbiamo intravisto, ma nemmeno il suo ricordo.

   Quella notte, dopo una cena molto leggera, non fu facile per loro separarsi.

   -Se dobbiamo essere a Piazza Armerina alle otto…- insinuò lei.

   -Non è possibile che il tempo cancelli ogni cosa, vero, Katharina?

   Quando furono nell’appartamento, prima di ritirarsi ognuno nella propria camera, lei l’abbracciò. Non lo baciò né le disse “Ti amo!”. Solo l’abbracciò in silenzio e, in silenzio si separarono.

XVI

   Erano assonnati, quasi febbricitanti.

   -Ho la schiena che mi brucia!- esclamò lei.

   -Il sole della spiaggia inganna, come quello della neve. Dovresti metterci del talco.

   -E tu, come stai?

   -Lo sopporto. Ma se oggi a quello SS dovesse saltare in mente di farmi lavorare in pieno sole, mi spellerò come una serpe!

   -Ti accompagno io e insieme parleremo col direttore degli scavi. Vorrei tanto che tu venissi con me dal procuratore. È assurdo che un imbecille come quello ti terrorizzi.

   Rimase per un bel po’ pensierosa, poi chiese:

   -Ricordi quanto ti ho detto ieri sui miei antenati? Se quel poliziotto che ci fa da capo ne fosse a conoscenza, mi renderebbe tutto più difficile…    

   -Perché hai un po’ di sangue ebreo?

   -Sì, tu non puoi ancora capire. Lo sai che chi vuole entrare nelle SS deve dimostrare d’avere l’ascendenza ariana negli ultimi duecento anni? Che uno dei loro obbiettivi è la pulizia etnica? In modo più o meno scoperto stanno perseguitando gli ebrei anche ora, non vorranno mica sterminarli tutti? Se Hitler riuscisse ad annettersi l’Austria, i miei genitori ed io potremmo fare una fine poco piacevole.

   -Mi stai spaventando, Katharina!

   -Purtroppo è proprio così. Ora ti faccio una domanda, e voglio che tu sia assolutamente sincero.

   -Falla.

   -Ti dispiace che io sia ebrea?

   -Certo! Come potrò stare tranquillo quando tu tornerai in Austria?

   -No, non è questo che voglio sapere. Io intendevo… sì… lo vorresti un figlio da me?

   Non era certo il momento più adatto, ma Bernard non si contenne.

   -Un figlio tuo? E chiedi questo a me! Ma non lo vedi che ti amo?

   Lei cercò di metterla sul riso.

   -Non avrei mai immaginato che un uomo mi facesse la dichiarazione in una macchina, per giunta di seconda mano e che va a sessanta all’ora tra le buche e la polvere delle strade siciliane… Povero Bernard, hai scelto proprio un bel momento!

   -Non ridere.

   -Non rido. È molto bello quello che mi hai detto, e te ne sono grata.

   -Ma è la verità.

   -Lo so, lo so, ma la prossima volta fallo in una situazione più romantica.

   Lo baciò sulla guancia, come aveva fatto altre volte.

   -Ti prendi gioco di me, vero?

   Di colpo, Katharina divenne seria.

   -No, affatto. Credo di volerti bene anch’io, ma so che spesso la vita ci tende dei tranelli… non vorrei sbagliarmi, e ancora di più mi dispiacerebbe se a sbagliarti fossi tu.

   Ora Bernard guidava taciturno.

   -Non ti scoraggiare,- rise ancora -se non altro non ti respingo.

   Una volta arrivati, non si curarono del tedesco, ma si diressero subito all’ufficio del direttore degli scavi. Lei fece le presentazioni di rito (“Mr. Quayle, storico, il professore Di Blasi, archeologo”), ma prima che lei potesse esporgli il suo desiderio di andare a Caltagirone, il professore esordì:

   -Vedo che le hanno già dato la notizia!

   -Quale notizia?- chiese.

   -Non lo sa? Ordini dall’alto. Dovremo fare a meno del suo aiuto. Vogliono che lei vada a Licodia Eubea a vedere se c’è del materiale archeologico di un qualche interesse. Dovrà prendere contatto con il sindaco, il professor Vito Piccioni.

   Katharina promise al dottor Di Blasi di tenerlo al corrente sul suo lavoro, poi si accomiatò da un paio di compagni e andò a prendere le valigie. Il tedesco l’accolse in maniera rude:

   -Dall’una alle tre. Adesso non è l’ora d’andare nei padiglioni.

   -L’ora d’andarci è quella che pare a me.

   Bernard, che assisteva alla discussione, fu sul punto d’irritarsi, non capiva quanto stava succedendo, parlavano tutti in tedesco. Vide Katharina dare una spinta al giovanotto, mentre in un italiano scandito e chiaro diceva:

   -È così, e lo dico io! 

   Sulla strada per Caltagirone scherzarono sull’incidente. A un certo punto lei osservò:

   -Adesso dovrò cercare un posto dove vivere.

   -Perché no dai Lanzara?

   -Un fine settimana, due, o magari tre…, nessuno poteva darci troppa importanza, ma tutti i giorni… la gente parla, sarebbe un imbarazzo per i tuoi ospiti… e forse anche per noi, credimi.

   -Ti riferisci a quello che ti ho detto prima? Che ti amo?

   -Ieri notte ci siamo abbracciati, e non ho fatto nulla per evitarlo. Era stata una giornata meravigliosa. Trascorreremo forse molti altri giorni meravigliosi e non voglio sottoporti a continui tormenti.

   Alle undici in punto il procuratore Milazzo li fece entrare nel suo ufficio. Parlarono della lettera di raccomandazione del dottor Riccardi, dei contatti che anche Katharina aveva avuto con lui e, naturalmente, della sua detenzione.

   -Ogni settimana spedisco un articolo al “Sunday Express”- disse Bernard. -Mi permette di pubblicare la notizia della sua detenzione? 

   -E perché no? Ma non faccia nomi, potrebbe nuocere ad altre persone.

   Su richiesta dei due giovani e con un punto di sdegno nella voce per le angherie sofferte, spiegò:

   -Un mio cliente, proprietario terriero, aveva dei problemi di confine in alcune sue terre, problemi che si sarebbero potuti risolvere con un po’ di buona volontà. Ma un gerarca del partito, innamorato di quelle terre, si era messo in testa di comprarle per pochi soldi, e a forza di minacce. Studiando il caso, ripescai degli atti notarili del secolo scorso che stabilivano, senza ombra di dubbio, i diritti del proprietario. Di qui la denuncia d’appartenere alla clandestinità, e le perquisizioni domiciliari. Trovarono quanto cercavano, gli atti notarili, e mi reclusero nel castello di Lipari. “Carcere preventivo”, dissero.

   Fece una lunga pausa di riflessione e aggiunse:

   -Faccia attenzione a quanto le dirò adesso. Qui in Sicilia esistono due poteri: il fascio e un “altro”. Il mio cliente si rivolse “all’altro”. E in Sicilia, quando interviene questo secondo potere, neppure il fascio può nulla. Ha capito?

   -Perfettamente- assentì Bernard. -Ma lei, fino a che punto ne è coinvolto?

   -Non lo sono affatto, io non so nulla. So solo che un funzionario del carcere un bel giorno mi disse che si era trattato di un malinteso. E così mi rimisero in libertà.

   -Ma un domani, chi l’ha aiutato…

   -Non li conosco nemmeno, del resto, si aiutavano tra di loro. Non aiutavano certo me.

   -E il gerarca?

   -Tace. Sa che è meglio per lui.

   Benché sembrasse incredibile, Bernard comprese che quella storia era vera e decise di pubblicarla. 

   Quando arrivarono a Licodia andarono subito dal sindaco, il quale era già al corrente del trasferimento di Katharina.

   -È stata tutta opera sua, non è vero?- chiese la ragazza.

   -Se lei non avesse dimostrato un vero interesse, non avrei avuto il coraggio di intervenire- rispose il  sindaco.

   -Dovrò ora cercarmi un posto dove alloggiare- insinuò lei.

   -Ho già pensato a tutto. Avrà a sua disposizione un locale del Comune, e così potrà anche risparmiare.

   -E per mangiare?

   -Se si mette d’accordo con i Lanzara può consumare i pasti da loro. Per il pranzo, però, ci sarebbero delle difficoltà.

   -E perché?

   -Io credo che, prima di lavorare ai nostri scavi, sarebbe bene che lei prendesse visione di alcuni territori circostanti: Minardo, Marineo, Ragoleti e Serra Grande. E non può certo trascorrere l’intera giornata facendo avanti e indietro. Sono terreni accidentati e… Per caso, lei monta a cavallo? Sì? Bene, è il miglior mezzo dalle nostre parti. In quanto al pranzo, credo sarebbe più conveniente per lei mangiare dove si trova, ora qui ora lì.

   -Ma è meraviglioso!- esclamò lei. -Un cavallo! Che allegria!

   Quella stessa sera trasferì le sue cose da via Mugnos alla sua nuova residenza. Pensava a una stanza da letto, ma si accorse di avere a sua disposizione un’intera ala del primo piano del Comune che era stata adibita ad appartamento per il sindaco. Ora era libero, in quanto Piccioni preferiva vivere nella sua casetta in periferia. L’appartamento del Comune, poi, avrebbe tratto vantaggio dall’essere abitato.

   Il nuovo lavoro fece rivivere Katharina. Si sentiva utile e non era sottoposta a quelle vessazioni che avevano fatto di lei un’operaia. Lo scavo di Piazza Armerina era certamente più importante della zona che studiava il professor Piccioni, ma ora lei poteva dedicarsi davvero a una ricerca  con tutti i rischi che la cosa comportava, ma anche con la soddisfazione di svolgere un lavoro autonomo.

   Dopo avere eseguito alcune prospezioni, scelse di lavorare soprattutto nella zona di Ragoleti, nella valle del Dirilo. Di lì a poco, e non sperava davvero, ebbe la fortuna di contare sull’aiuto di più di un volontario. Dei giovanotti della zona, che studiavano a Catania, avevano trovato entusiasmante scavare sotto la sua direzione durante il periodo delle vacanze. Benché i reperti fossero pochi e, quasi sempre di scarso valore, tuttavia quei ragazzi si sentivano orgogliosi dei loro ritrovamenti. In poco tempo, Katharina mise su un autentico cantiere, con tende, attrezzi, una cucina da campo, latrine, ecc.

   Katharina e Bernard, a poco a poco, si erano introdotti in tutti gli ambienti della piccola comunità rurale. A lei, avevano già chiesto di cantare in chiesa il giorno di santa Margherita, patrona del paese. A lui, di scrivere un bell’articolo sul paese visto da un forestiero che avrebbero stampato sui programmi della festa. Trattavano tutti con affetto e si facevano benvolere. Più d’uno li considerava una bella coppia, e il loro comportamento perfetto non dava adito a maldicenze. 

   Alla fine di giugno però scoppiò la bomba. Una sera, alcuni agenti in borghese si presentarono in via Mugnos e arrestarono Bernard. Il motivo? Loro non lo conoscevano, ma invitarono il ragazzo a prendere i suoi effetti personali. Perquisirono il suo alloggio e confiscarono alcune carte. Agata, intanto, era corsa a cercare il sindaco, ma la presenza di “Gridamani” fu inutile.

   -E Kaharina?- chiese Bernard.

   -Non è ancora tornata- si lamentò Piccioni.

   Arrivarono a Palermo a notte fonda, che Bernard dovette trascorrere in prigione, visto che nessuno avrebbe potuto interrogarlo. L’indomani, verso le undici, lo portarono in un ufficio dove, accanto al commissario, c’era un membro del partito, con tanto di divisa. Quando Bernard vide una copia del “Sunday Express” sul tavolo immaginò il motivo di quell’arresto. L’interrogatorio confermò i sospetti. Qualche settimana prima, probabilmente senza averne calcolato troppo le conseguenze, aveva inviato il suo articolo sulla vicenda di Giorgio Milazzo, il procuratore di Caltagirone, e ora volevano sapere chi gli aveva fornito quelle informazioni. Si rifiutò di parlare adducendo diritti che forse gli sarebbero stati riconosciuti in Inghilterra, ma che il fascismo, con la stampa sottoposta a censura o imbeccata dal regime, non poteva prevedere.

   Non gli permisero né di parlare con un avvocato, né con il console della Gran Bretagna. “Preventivamente”, lo trasferirono, quella stessa sera, a Lipari. Il castello, situato sul promontorio della piccola isola, era una antica costruzione,  una prigione durissima d’altri tempi: umidità, topi, lezzo, buio, totale assenza di igiene e un trattamento che, senza arrivare all’agressione fisica, si caratterizzava per la sua durezza.

   Bernard vi giunse di notte, e fu messo in una cella quasi priva di luce e occupata da altri prigionieri. Non c’erano letti, ma giacigli di paglia negli angoli e coperte tarmate. La sua presenza destò la curiosità degli altri detenuti. Uno, socialista, era stato sindaco di un miserabile paesino di pescatori e il suo delitto era stato quello di avere lottato contro gli abusi dei padroni delle grandi barche da pesca. Un altro, professore di filosofia al liceo, aveva elogiato con troppo entusiasmo Benedetto Croce. Un terzo, disertore, aveva rifiutato di partecipare alla guerra civile spagnola come “volontario”. Bernard spiegò le ragioni del suo arresto e tutti gli consigliarono di cercarsi dei protettori che l’aiutassero dal di fuori, altrimenti sarebbe potuto anche ammuffire in prigione.  

   Alla luce del giorno, la situazione non gli sembrò poi tanto funesta. Ebbe la possibilità d’uscire dalla cella e passeggiare in un cortile con vista sul mare e su buona parte dell’isola. Scoprì anche che, avendo del denaro, e lo aveva, poteva convincere i secondini, duri con i disgraziati e ossequiosi con i ricchi, a farsi portare del cibo da fuori. “Con qualche altra mancia, potrò forse ottenere anche dell’altro”, pensò. Sapeva che Katharina avrebbe fatto l’impossibile per aiutarlo. In quei mesi, aveva scoperto le sue grandi doti di coraggio. Certo, gli mancava, ma sapeva che lamentarsi a vuoto conduce al degrado. Lei doveva essere motivo di conforto, non d’angoscia.

   Piano piano cominciò a considerarsi fortunato. Era sicuro che prima o poi avrebbe riacquistato la libertà, e pensava che quella sua prigionia era un’occasione unica per conoscere, da un diverso punto di vista, la temperatura politica del Paese. Era come se un caso fortuito lo stesse aiutando a realizzare i propositi che l’avevano spinto in Sicilia. E poi l’amore per Katharina poteva ben bilanciare le attuali contrarietà.

   Un bel giorno gli dissero che c’era una visita per lui e lo fecero passare in una stanzetta arredata male, ma più confortevole di quelle che aveva conosciuto nel castello. Katharina era lì a attenderlo. Non appena lo vide dimagrito dopo quei giorni di carcere, gli buttò le braccia al collo, e lo strinse con tutte le sue forze. Quella donna, così forte e coraggiosa, piangeva con dei singhiozzi parossistici che le scuotevano il petto.

   Poi venne il momento delle spiegazioni. Lanzara, Piccioni e lei  aveva smosso mari e monti. Aveva telefonato a Firenze per mettere al corrente il dottor Riccardi ed era andata a parlare con il procuratore Milazzo, con l’archeologo Di Blasi, con i consoli di Gran Bretagna e d’Austria, e con il capo della polizia di Palermo. Alla fine, aveva ottenuto il permesso di fargli visita e aveva affittato una modesta camera in una pensione di Lipari, in attesa del suo rilascio che sperava prossimo.

   -E il tuo lavoro?- chiese Bernard, con incredibile ingenuità.

   -Come ti viene in mente di pensare a quello? L’unico mio pensiero sei stato tu.

   -Allora mi vuoi bene?

   -Certo che te ne voglio, sciocco! Per dircelo, scegliamo sempre i momenti più adatti, non è vero? Però anche tu, no è che sei troppo imprudente?

   -Sì, credo proprio di sì. Ma se tutto andrà come speriamo, questa esperienza mi servirà. Ho visto la faccia nascosta del fascismo, ora so che bisogna che io trovi un punto di equilibrio che concili le mie idee politiche con la libertà imprescindibile. 

   -In paese, tutti hanno un soprannome, non è vero? Ebbene, sai quale è il tuo? Ti chiamano “Testa di fumo”.

   Passarono altri due giorni prima che il console inglese arrivasse da Palermo per presenziare alla sua liberazione e controllare che non fosse stato maltrattato. Lei, in quel lasso di tempo non perse occasione per fargli visita. Quando arrivava era come se un raggio di luce entrasse in quel castello, coacervo di amarezze, di dubbi, di paure e di ingiustizie.

   Nessuno spiegò a Bernard i motivi per cui gli venivano aperte le porte, ma gli consigliarono di essere, in futuro, più prudente con i suoi articoli. Era di pomeriggio. Uscì ebbro di gioia. Lei l’aspettava giù, in fondo alla rampa. Si baciarono con una intensità disperata, profonda. Era la prima volta che si baciavano sulla bocca, e provarono un enorme desiderio d’essere sinceri con se stessi. Lei gli chiese di andare assieme a pregare nella chiesa della Madonna delle Grazie. In altre circostanze, lui avrebbe probabilmente scherzato su quella devozione che considerava irrazionale, ma in quei momenti la fede della ragazza l’aveva commosso. In fin dei conti, si trattava di un’ulteriore prova dell’amore che nutriva per lui. Poi, scesero per via del Concordato per andare a Marina Lunga, dove lei aveva la pensione. Bernard prese una camera, si lavò, si fece la barba, si vestì con della roba pulita che lei gli aveva portato da Licodia, e uscì con lei a passeggiare per il paese. Cenarono in una trattoria vicino al mare, e godettero della sua ritrovata libertà e del loro amore.

   Prima di imbarcarsi decisero di concedersi ventiquatto ore di vacanza. Telefonarono a Firenze, a Licodia e a Caltagirone per dare la buona nuova. L’indomani noleggiarono uno di quei carretti siciliani, così incredibilmente decorati, e andarono fino al grande promontorio delle Puntazze, dove si potevano vedere le isole di Alicudi, Filicudi, Salina, Panarea e Stromboli.

   Quando fu notte, in albergo, dovettero lasciarsi, ma lo fecero con difficoltà. Non era tanto l’attrazione sessuale frustrata che li faceva soffrire. Al di là delle convinzioni religiose o di quelle genericamente morali, tutti e due ritenevano, in buona fede, che l’attesa servisse ad accrescere la passione e, ad accentuare al massimo l’intensità dei sentimenti. Il fatto è che si erano talmente abituati a condividere tutto che il lasciarsi, anche solo per poche ore, li faceva soffrire.

   Il giorno dopo consultarono l’orario dei vaporetti per la Sicilia e decisero che si sarebbero imbarcati l’indomani di buonora. Una volta a Messina sarebbero andati da Andrea Sascia, il commerciante di automobili, e gli avrebbero chiesto se poteva accompagnarli a Licodia. Durante il viaggio erano come ipnotizzati. Qualche gabbiano volava basso sull’acqua illuminata al sole del mattino. Vulcano si presentò davanti ai loro occhi nella nebbia dei suoi fumi sulfurei e ossidati. Tutt’intorno, un odore acre di segrete combustioni minerali.

Sascia li lasciò davanti al Comune di Licodia. Era di notte, ma ciò non impedì che mezzo paese fosse là ad accoglierli. Il procuratore di Caltagirone aveva parlato di due poteri: il fascio e “l’altro”. Adesso, Katharina e Bernard scoprivano, con una emozione tutta speciale, che ne esisteva un terzo: quello dell’amicizia disinteressata.

XVII

   Il paese intero si stava preparando alla festa della Patrona. Il programma era denso di attività sacre e profane. Dalla messa solenne cantata alle danze popolari; dalla processione agli spettacoli teatrali e ai pupi. Il tutto tra danze moderne, giostre, tombole e tiro al bersaglio.

   Katharina, che andava a messa tutte le domeniche, si era già familiarizzata con i canti dei parrocchiani e spesso univa la sua voce a quella degli altri. Il parroco, che aveva buon orecchio, colse la buona attitudine musicale della ragazza e le chiese se volesse cantare da solista per il giorno della Patrona. Emiliana, una ragazza che aveva studiato piano, e che di solito suonava l’organo della chiesa, simpatizzò immediatamente con Katharina.

   -Cosa canterai alla messa?- Le chiese.

   -L’ ”Ave Maria” di Schubert. Piace a tutti.

   -Conosci qualcosa di Bellini?

   -Da cantare, no.

   -Peccato, era di Catania, e qui te ne sarebbero grati.

   -Se trovassi qualcosa… ma non ha composto solo opera?

   -No, ha fatto anche qualche canzone, anche religiosa.

   Le prove in casa di Emiliana, che aveva un pianoforte verticale, finivano sempre in chiacchierate di tipo salottiero. Bernard non mancava mai. Che i due fossero innamorati era dato per certo, e la cosa piaceva per l’esemplare buon gusto con cui i due portavano a passeggio il loro amore per le strade del paese. Un paese, in cui l’onore di una donna era sacro e il rischio di perderlo continuo. Si capisce, allora, come il comportamento di quei due forestieri costituisse una specie di esempio inimitabile per i ragazzi del posto, sempre desiderosi di palpare carne alla prima occasione utile. Quei due erano uno specchio: guardandoli, non potevano che vedersi deformati.

   Un giorno, Katharina si presentò a casa di Emiliana con un fascio di partiture per voce e piano che aveva portato da Vienna e che non aveva ancora avuto il tempo di esaminare. C’erano lieder di Schubert, di Schumann e di Brahms, ballate e alcune arie operistiche accessibili alla sua voce.

   -Fra tutte, ne preferisco una di Mozart.

   -Perché non ce la canti?

   Katharina era troppo modesta per farsi pregare. Si scusò per la propria limitatezza e porse a Emiliana uno spartito dell’aria della contessa dalle “Nozze di Figaro”. La pianista, dopo una breve diteggiatura, le fece cenno che era pronta. In un silenzio incuriosito, attaccarono “Dove sono i bei momenti”. Il salotto non era grande e, dunque, l’estensione di voce non doveva per forza essere poderosa. Grazie a quel clima sommesso, gli accenti drammatici della contessa, nel suo lamento d’amore, suonavano più sublimi e più comprensibili. Bernard si sentì particolarmente commosso. Gli pareva che, in un momento, fossero già trascorsi molti anni e che una voce premonitrice gli rinfacciasse un disamore di cui si era reso colpevole. “Dove sono i bei momenti di dolcezza e di piacer?” chiedeva quella voce. “Dove andaro i giuramenti di quel labbro menzogner?” Si sentiva vagamente colpevole di cose che non erano avvenute e, quando la voce implorava una qualche speranza, lui giurava a se stesso che mai avrebbe abbandonato quella donna che, in quella notte e attraverso quella musica, gli offriva una nuova prova della sua capacità d’amare.

   I loro sentimenti erano controllati, quasi abitudinari, ma mai comuni. Consapevoli forse di essere guardati come modelli, l’ordine e il rigore erano per loro diventati un costume di vita. Lui viaggiava molto. La sua reclusione nel castello di Lipari gli aveva aperto, paradossalmente, molte porte. Non quelle dei nemici del sistema, come si potrebbe pensare, bensì di molti fascisti che desideravano conoscerlo e addottrinarlo. Bisognava che lui sapesse, però, ben distinguere gli opportunisti dagli idealisti. Lei era tutta presa dall’organizzare la ricerca in località Ragoleti che, di giorno in giorno, acquisiva nuove forze ed era contenta e soddisfatta del suo lavoro. La tenacità e un po’ di fortuna le avevano permesso, a detta degli archeologi di prestigio, di scoprire qualche reperto di buon valore e ciò favoriva i finanziamenti e gli aiuti. La gente del paese lo sapeva e ammirava sempre di più quella ragazza così modesta.

   L’amore, che avvolgeva entrambi, era esente da alterazioni o squilibri folgoranti. Cresceva con tutta la forza della passione iniziale, contornato però da un clima benigno, tranquillo.

   – Tu hai una fede incrollabile. Hai un Dio e un’anima immortale che vuoi salvare- osservò Bernard.

   -E tu no?- replicò lei.

   -Non è questo il problema. Il problema sta in cosa si vuol salvare. Se uno vede bruciare la casa si domanda: “Per quale tesoro, fra tutti quelli che posseggo, vale la pena che io rischi la vita?” Io so quale è il tesoro che salverei a rischio di tutto, è un’anima immortale.

   -Dove vuoi arrivare?

   -A dirti, e spero che tu mi capisca, che la mia anima immortale sei tu.

   -Un paragone che non merito.

   -Non saprei esprimerlo in modo migliore. So solo che se un giorno ti cancellassi dalla mia vita, nulla avrebbe più senso. Sarebbe come accecare qualcuno: non potrebbe scorgere più nulla e delle cose già viste gli rimarrebbe un ricordo sempre più tenebroso e inutile.

   -E perché ci dovremmo perdere?

   -Temo, te l’ho detto più d’una volta, temo il tuo ritorno a Vienna. Ora siamo felici, liberi. Ma a ottobre finirà questa nostra spensieratezza. Dovrò lottare con forza e assiduità se voglio mettermi in politica. Quando ci saranno le elezioni, voglio presentarmi come candidato indipendente. Dovrò sostenere la campagna elettorale, e senza averti al mio fianco. Gli uomini e le donne della nostra posizione devono sottostare a precise norme sociali: sposare, avere una casa propria, accettare ciò che ci circonda… Non sarà mai più come qui, dove possiamo vivere in questa specie di presente interminabile. A volte, vorrei avere il coraggio di rinunciare al futuro che sogno dai tempi di Cambridge, e di sposarmi con te domani stesso, cercare un lavoro qualsiasi, qui, in questo paese ignorato da tutti.

   -E perché non lo fai?

   -Ho paura. Mi sembrerebbe una diserzione, un egoismo in nome della felicità a danno del dovere.

   -Forse questo tipo di onore è il tuo modo di salvare l’anima.

   -Forse è proprio così, ma non sono felice.

   Quel luglio era splendido, pieno di sole. Era passato un anno dall’inizio della guerra civile spagnola e, malgrado l’aiuto italiano e tedesco agli insorti, non se ne vedeva la fine. L’Italia e la Germania erano sempre di più invise all’opinione pubblica. Il loro sprezzo verso la Società delle Nazioni, la loro politica del fatto compiuto, il mancato rispetto degli accordi presi dai Comitati del Non Intervento inducevano a temere che il conflitto si sarebbe allargato: altro che pace a breve termine in Spagna.

   -Chi l’avrebbe detto! Io, britannico, simpatizzo per Mussolini e tu, austriaca, odi il tuo compatriota Hitler. Se scoppiasse la guerra, dove starebbero i nostri cuori, e dove le nostre menti?

   Ma, alla vigilia della festa, gli abitanti di Licodia Eubea non pensavano certo a queste cose. Avevano adornato con catenelle di carta le strade per dove sarebbe passata la processione e sui balconi splendevano paramenti di seta e copriletto di lussuosa fattura. La vigilia di santa Margherita, nel pomeriggio, ci furono gare per i bambini e ingegnose rappresentazioni di pupi, i tipici burattini siciliani. Dopo cena, sullo spiazzo antistante il Comune, si tenne una rappresentazione, calorosamente applaudita, di danze tipiche siciliane e tarantelle che, a volte, si facevano frenetiche, vertiginose. Le ballerine più brave lanciavano in alto delle brocche variopinte, che avevano prima percosso ricavandone dei rumori sordi, per poi riafferrarle con geometrica precisione.

   L’indomani, si celebrò la messa cantata officiata dal vescovo della diocesi, il quale era salito appossitamente in paese per dare solennità alla cerimonia. I gradini di accesso alla chiesa erano adornati con vasi fioriti e, all’interno, la navata era un mare di fiori. Ogni cosa emanava una gioia contagiosa, semplice e, nello stesso tempo, profonda e misteriosa. Bernard non aveva mai visto nulla di simile. La cerimonia gli fece capire perfettamente l’importanza del rituale solenne, inteso come strategia per conservare e alimentare la fede nel popolo. L’emozione si fece generale e tangibile quando Katharina intonò “l’Ave Maria”. Parve come unta, un piccolo miracolo e tutti credettero di sentire la voce corporea dello spirito, immateriale.

   Il pranzo della festa della Santa Patrona era un fatto eccezionale per quella gente che viveva di continue privazioni. Sia Vito che Antonio volevano invitare Katharina. Dai e dai, alla fine, Vito fece prevalere, per il pranzo, la propria autorità di sindaco e, insieme decisero che compare Scipito avrebbe invitato tutti per la cena.

   Nel tardo pomeriggio uscì la processione. La mescolanza di contrasti era indescrivibile. Per alcune ore, sembrò a Bernard che quel popolo fosse tornato alle sue origini pagane: il cattolicesimo così reinterpretato, sembrava un travestimento di antichi riti greci. Alcuni uscieri con divisa e pennacchio aprivano la processione, grondando sudore (“mi squaglio” disse uno di loro). Dietro, la banda musicale di Siracusa intonava l’aria con degli arrangiamenti sulle musiche, le più marziali ed eroiche, di Verdi e Rossini. Quindi, su una carrozza stracarica di decorazioni, la statua della Santa coperta di fiori. E come uno strascico, autorità d’ogni grado che, a uno spettatore obbiettivo, potevano produrre l’impressione che si trattasse di una mascherata: il vescovo con il suo piviale; il sindaco con la fascia tricolore alla vita e con una piccola sciabola che gli pendeva dalla cintola; un graduato tracagnotto, con una sciabola più grande di lui che strascicava per terra quando si dimenticava di reggerla; il federale, un ometto minuscolo, con feluca, che cercava di gonfiare il petto come un Mussolini da operetta; il capo dei Vigili Urbani, impettito nella casacca blu, gallonata con spalline e alamari, e con in testa un cappello a lanterna; e poi assessori comunali, cappellani e vicari, scolari con gonfaloni, ricamati con l’immagine della Santa e della Vergine, e fregiati di iscrizioni latine.

   Una piccolo drappello di otto balilla, che suonavano con enfasi il tamburo, precedeva i fedeli in corteo: borghesi agghindati; contadini vestiti a festa; gente del popolo e forestieri; ragazzini vivaci che chiudevano la sfilata con i loro schiamazzi innocenti. Questi ultimi, del tutto insensibili al culto della verginità di Margherita, ignoravano quel fastoso simbolismo che, qualche secolo prima e nella stessa terra, si esprimeva in analoghe teorie. Solo che allora, invece della santa e delle autorità, sfilavano le fedeli di Dioniso, ebbre di vino e di lussuria.     

   Terminata la processione, Emiliana invitò a casa sua qualche amico per una merenda. Lei e Katharina fecero della musica per riempire l’ozio festivo. Fra un valzer di Chopin e un preludio di Respighi, la delicata romanza di Bellini “Vanne, o rosa fortunata”. L’atmosfera si fece intensa ed emozionante quando suonarono e cantarono un paio di lieder della “Bella mugnaia” di Schubert. Era come se Katharina volesse palesare in ciò, aiutata dalla sensibilità del compatriota viennese, tutta la sua diversità culturale e tutto il suo ideale di bellezza, personale, intimo, raccolto.

   Dopo la cena da Antonio, andarono a vedere lo spettacolo. Una compagnia di dilettanti, venuta da Grammichele, aveva montato una pedana addossandola in qualche modo a un muro del Comune. Sopra, avevano appeso, a mo’ di scenario, un lenzuolo su cui era dipinta una strada con delle case ai lati e, nel fondo, un orizzonte di campi aridi e deserti. A destra e a sinistra, due quinte rappresentavano le porte di una casa. Lo scenografo non era riuscito a rendere, sempre che ne avesse avuta l’intenzione, l’atmosfera rurare. Il tutto era abbastanza penoso. La compagnia di sconosciuti dilettanti aveva preteso di rappresentare niente di meno che un’opera di Pirandello, L’altro figlio.

   – Te lo ricordi? È quello di Agrigento, che è morto l’anno scorso…

   Nella piazza, come è ovvio, non c’erano né poltrone né sedie. Alcuni si erano portati da casa qualcosa per sedersi, altri s’erano ingegnati con casse vuote rimediate. L’ambiente aveva un’aria sordida e penosa. Quando salirono gli attori sulla pedana-palcoscenico qualcosa cambiò. Osservavano un insospettato decoro ieratico, come se obbedissero a una risaputa sostanza della loro terra. Si spensero i lampioni della strada e la scena si illuminò di una luce fredda, del tutto  inadeguata. Una delle attrici emise la sua voce smorta e desolata, e intonò la battuta: “E alla calata del sole, quest’altra partenza!” Non ci sarebbe stato bisogno di niente altro. Era il lamento della povera gente priva di tutto, che trovava nell’emigrazione l’unica e amara speranza di sopravvivere. Il seguito, l’intero argomento del breve dramma dell’emigrazione, era tutto scritto sulla carne di quella sfocata attrice che denunciava, nell’aspetto, i morsi secolari della miseria. 

   Non era quello il Pirandello del disorientamento, dello sdoppiamento, delle maschere e della ricerca di una cosa così volatile quale è la verità di ciascuno. Ma, il figlio della disgraziata Sicilia. Katharina aveva ragione: tutto era in Pirandello di una serietà impressionante. A Bernard pareva che quella rappresentazione notturna racchiudesse molta più religiosità di quanta ne avesse vista in chiesa, con quel vescovo ben nutrito, sfacciatamente vestito di ori lussuosi, la cui lucentezza serviva solo a celare, per qualche ora, il pianto degli oppressi.

   Terminate le feste di Licodia incominciarono quelle di Caltagirone. Furono invitati in quella cittadina dal procuratore Milazzo ed ebbero l’opportunità di ammirare nella notte di san Giacomo, lo spettacolo della grandiosa scalinata illuminata. La devozione popolare aveva acceso, nei circa centocinquanta gradini, più di quattro mila lucerne di vetro variopinto che offrivano la tremula fiammella del loro stoppino imbevuto d’olio. L’insieme era indescrivibile. Le fiammelle erano vive, come delle squame d’oro su una pelle iridata.

   E poi venne anche agosto: era il mese dell’incertezza, delle tempeste, delle piogge improvvise e localizzate. I chicchi d’uva si gonfiavano con l’acqua e si addolcivano col sole, ma bastava un po’ di grandine e in un attimo tutto andava perduto. La coppia viveva le vicissitudini della gente, partecipava completamente all’ansia del paese e respirava l’aria comune con lo stesso atteggiamento d’angoscia e di trionfo. La festa di luglio era passata e ora, pensando a settembre, si preparavano per la sagra dell’uva. Nuovamente riaffiorava la servitù ancestrale alla terra. La terra madre, la Demetra di sempre, la dispensatrice che bisognava propiziarsi con danze e cantici ogni qual volta i carri, provenienti dai vigneti, giungevano in paese ricolmi i tinelli della frutta dal chicco nero, carnoso e succolento. Avrebbero dato il vino, l’ebbrezza indispensabile per vincere la miseria quotidiana di sempre.

   E quanto più soffrivano e gioivano, quanto più si sentivano carne e sangue di Licodia, tanto più si accorgevano che stava per giungere l’ora della partenza. E arrivò. Arrivò con un seguito di domande senza risposta, di progetti senza futuro, di speranze senza domani.

   -Dovresti venire a Vienna a parlare con i miei genitori.

   -Devo prima assicurarmi un futuro. Senza la borsa di studio, posso fare affidamento solo sull’aiuto di mio zio, e non posso ancora pensare al matrimonio.

   -Io potrei restare a Licodia… ma penso ai miei con inquietudine. Le lettere che ho ricevuto non sono tranquillizzanti. Le voci di una forzosa annessione alla Germania aumentano di giorno in giorno. Se si parla di plebiscito… vuol dire che pensano di costruirsi una maggioranza.

   -E se l’avessero davvero?

   -Non è possibile. Deve trattarsi di una trappola legale. I nazisti, quando lo vogliono, riescono a falsificare ogni risultato.

   L’addio con la gente del paese fu penoso. Tutti si facevano in quattro per ossequiarli. Non solo i Piccioni e i Lanzara, ma anche gli studenti che Katharina aveva istruito agli scavi, i compagni di conversazione di Bernard, Emiliana e il suo gruppo giovanile. Quando la Fiat di seconda mano, carica di valigie, imboccò la via principale per dirigersi verso la discesa del cimitero, i paesani si affacciarono ai portoni e li salutarono con un gesto, un addio che parve amaro e definitivo.

   Anch’essi soffrivano. Leggi non formulate, norme non scritte li obbligavano ad abbandonare quel paradiso dove, come aveva detto Bernard, “l’anima poteva sentirsi salva”. Se v’era stato un qualche frutto proibito, essi avevano rispettato la proibizione. E, tuttavia, la vita innarrestabile li cacciava da quella pace e da quel sentimento di realizzazione, d’appagamento totale.

   Catania, Taormina, Messina. Era un totale ritorno alle origini, come se quella esperienza non fosse stata altro che un passatempo. Se le ricchezze dello spirito fossero paragonabili alle altre, loro avrebbero potuto considerarsi come degli avventurieri che, dopo aver scoperto un tesoro in terre lontane, tornavano a casa per goderselo. Sarebbe stato possibile spendere in un altro clima e in altre circostanze i benefici ottenuti a Licodia? Qualora, arrivato il momento, si fossero giurati eterno amore, quale valore assegnare a tale concetto di eternità, se avevano rinunciato allo scenario che lo rendeva possibile?  

   Avevano già detto addio a tutti. Dovevano solo restituire la vecchia macchina al commerciante di automobili e imbarcarsi alla volta di Reggio Calabria, per poi proseguire per Roma dove si sarebbero separati. Nulla li tentava. Una sosta a Napoli? E perché? Una scappatina a Firenze? E perché? Ogni cosa acquistava un aspetto agonico: lotta e morte. Non volevano dover decidere, dover dire, dover fare. Era finita la grazia che gli dei, raramente, concedono ai mortali.

   Improvvisamente, Bernard si ricordò della frase: ne volle parlare con lei, anche se in tanti mesi trascorsi insieme, non ne aveva mai fatto cenno. Lo fece lì a Roma, sul marciapiede della stazione Termini.

   -Sai cosa disse Lawrence della Sicilia? “Ha concesso a tutti il momento della massima ispirazione, e poi ne ha distrutto l’anima”.

   Era giunto il momento. Il treno diretto in Austria partì. Subito dopo si mosse anche quello che portava in Francia Bernard. Roma era una città odiosa!

XVIII

   Come soleva fare ogni settimana, quando andava a Great Missenden a trovare i suoi genitori, mise in valigia il minimo indispensabile: camicia da notte, il nécessaire e una blusa come ricambio. In questo caso, sarebbe stato meglio dire a trovare suo padre, sempre più distratto e sempre più cosciente della propria fine.

   Avrebbe voluto indossare il tailleur, ma la gonna le stava stretta. Era ingrassata, o peggio ancora, le era aumentata la vita, a causa del passare degli anni e del rilassamento muscolare che ne deriva. Lo stesso che le afflosciava le guance, le toglieva turgidezza ai seni e le trasformava le natiche in due masse di carne amorfa.

   Non era mai stata una di quelle bellezze che fanno girare gli uomini, né aveva mai fatto affidamento sulla bellezza per avere successo. Ma, per lo meno, sapeva che a sedici anni era stata una ragazzina attraente, benché la madre avesse fatto di tutto per non farglielo credere.

   Abitavano a Singapore. Il padre, ufficiale, comandava una guarnigione di stanza nei pressi dello stretto di Johore, dall’altra parte della capitale, oltre la foresta vergine. La città con la sua vita sociale e le sue distrazioni era molto distante dal luogo dove risiedevano. Dovevano per ciò supplire con la fantasia a ciò che la civiltà non concedeva loro: un ballo, un concerto, una partita a bridge.

   L’attendente del padre era molto giovane, biondino, gentile: in uniforme, sembrava un attore cinematografico. Quando compì sedici anni vollero dare una piccola festa al bungalow, dove viveva con la sua famiglia e con i domestici malesi. Il padre le disse che ci sarebbe stato anche l’ufficiale biondino. Scherzava sempre con i suoi sentimenti, ma lei sapeva che li comprendeva e che la voleva aiutare. La madre, invece, era diversa. Paul, che doveva avere allora dieci anni, la trattava con una maliziosa crudeltà che spesso divertiva la madre.

   Lei -se ne ricordava perfettamente- era una bambina timida, solitaria. Evitava la compagnia della gente, tranne i malesi e, soprattutto, la domestica più anziana, che raccontava storie fantastiche di incantesimi. Se qualche volta usciva di casa e si avventurava sino al bordo della foresta, dove i genitori le avevano proibito d’andare, avvertiva una specie di ansia, mista ad aspettativa, come se all’improvviso si dovesse produrre il miracolo. Un miracolo romantico nella sua breve vita di sognatrice adolescente. A volte immaginava d’essersi sperduta, d’essere attaccata da una tigre o da un serpente gigante. E, quasi sempre, la salvava un guerriero hindù, pieno di gioielli sul turbante, oppure il poliziotto biondo, o suo padre.

   Perché, proprio oggi, ricordava quei giorni? Forse perché le si era ingrassata la vita? Quanti anni erano ormai trascorsi dacché aveva perso ogni illusione! Tuttavia esisteva una grande differenza tra il respingere gli uomini e il  constatare che gli uomini non si interessavano più a lei. Non aveva mai avuto grande successo, anche se sapeva d’essere carina. Non era certo l’aspetto fisico ad allontanarli, quanto la sua invincibile timidezza: la stessa timidezza che oggi la rendeva dura, quasi crudele, come se con ciò volesse difendere il suo isolamento, o giustificare il fatto d’essere rimasta zitella.

   Ora che nessuno più la notava, ora che avrebbe potuto abbassare la guardia e non difendersi più, ora si controllava allo specchio e scopriva il progressivo avanzare delle rughe: prima quasi impercettibili sulle palpebre; poi attorno al naso, quando sorrideva; più tardi, sulla fronte, come se fosse sempre un po’ irritata o pensierosa. Ma ora, ora già le spuntavano sul collo, modellandolo di pieghe inutili di pelle. E le poche volte che aveva esaminata la nudità del suo corpo -sebbene in là con gli anni provava un residuo di vergogna!- scorgeva la cellulite sulle cosce, la pinguedine nel ventre, la flaccidezza nelle braccia e la graduale caduta dei seni, più grossi e meno eretti.   

   Sì, l’ufficiale biondino sarebbe venuto. Suo padre le aveva portato dalla capitale un vestito molto elegante, femminile, adatto a una donnina come lei: gonna svasata, giacca a maniche corte e blusa cinese piena di ricami. Avrebbe desiderato che sua madre le avesse acconciato i capelli a signorina, ma la madre le lasciò i boccoli che portava quando andava a scuola e che apparivano ancora più ridicoli con quella blusa un po’ scollata e con la gonna molto stretta in vita. Forse, questo era il motivo per cui ora se ne ricordava: quella gonna stretta di vita.

   Doveva trattarsi di un “lavoretto” di Paul. Non poteva credere che sua madre fosse capace di tanta viltà, anche se fu la prima a burlarsi di lei davanti al biondino il quale, forse per farle piacere, proruppe in una risata graffiante. Paul doveva aver scucito qualche costura di quella gonna prima che lei la indossasse. Quando il padre la chiamò per salutare l’ufficiale, che aveva in mano un mazzo di fiori, la gonna, incredibilmente, scivolò giù e, davanti a quel giovanotto, restò in braghette, e con i merletti che le fasciavano entrambe le gambe.

   -Oh, Kathleen!- esclamò la madre. -Non c’era bisogno che mostrassi anche la tua nuova biancheria intima!

   E rideva, con una risata che cervava di contenere, come se volesse evitare all’ospite il pur minimo imbarazzo, come se andare in giro mostrando le braghette fosse cosa da bambini, da non prendere sul serio.

   Il padre le mise una mano sulla spalla, la condusse in camera sua e le dette un bacio, in silenzio. Lei sentiva il brusio giungere dal salotto. Erano venuti gli amici della colonia. E tutti ridevano, scherzavano. Aveva il sospetto che sua madre stesse raccontando a destra e a manca la scena amena con cui si era presentata la ragazza. Doveva essere il suo compleanno, il suo aperitivo, la sua cena, il giorno dei suoi regali (ammesso che ce ne fossero) e, invece, stava piangendo nella sua stanza senza avere la forza di affrontare quel mostro odioso e impersonale che ha nome “gli altri”.

   Tutto sino a che la vecchia domestica non andò a chiamarla. Esaminò la gonna, osservò che era stata manomessa, la rimise a posto e, come se non bastasse, sciolse l’acconciatura della ragazzina, modificando i boccoli in chignons laterali, intrecciati con filo d’argento.

   -Ti aspettano per il pranzo- le disse. -Non piangere. Sei la più bella di tutte. Devi dimostrare, ora, d’essere anche una signorina.

   Fece il suo ingresso nel salone e si accorse che tutti la stavano aspettando con un sorriso beffardo sulle labbra. Tutti, tranne il padre. Quella volta non si lasciò abbattere. Con una disinvoltura che solo si poteva attribuire alla gran tensione a cui era stata sottoposta, sicura della bellezza della sua gioventù, salutò tutti con gentilezza e il sorriso beffardo della gente si trasformò in sorriso d’ammirazione.

   -Ma è una donna!- fu l’esclamazione quasi unanime. -Auguri, signorina!-

   Tranne sua madre. Con quella voce gentile, che lei conosceva così bene e che paragonava al fischio di un serpente, le chiese:

   -Dove vai, cara, con codesta acconciatura da donna?

   -È una donna e va alla festa del suo compleanno- tagliò corto il padre.

   Dopo pranzo, tornarono nel salone e ascoltarono dischi di musica leggera: vecchie canzoni di Bing Crosby e il rock, che già cominciava a prendere piede. Il giovanotto biondo l’invitò a ballare. Era un pessimo ballerino. Lei lo prendeva continuamente in giro, tanto che lui arrossì e desistette. Fu come gettare un seme d’odio. Ma perché quel seme doveva diventare un albero tanto robusto? Perché, ogni qualvolta volta le si avvicinava un giovanotto, lei pensava d’avere la gonna arrotolata sulle caviglie e di mostrare le braghette nel modo più ridicolo possibile?

   E perché anche suo padre si chiudeva, a poco a poco, in un guscio di indifferenza verso gli altri? Perché, quando erano andati in Inghilterra per brevi vacanze, lui partiva sempre un paio di giorni prima, con la scusa di dovere preparare tutto? Perché, se poteva farne a meno, non viaggiava mai con sua moglie? Perché arrivò il momento in cui la distanza tra la coppia si fece così grande che suo padre non si preoccupava nemmeno di nasconderla davanti ai suoi amici? 

   Da piccola, non poteva capire ciò che accadeva. Poi, quando ebbe l’età per sapere cosa fossero l’infedeltà coniugale e i disamori, non riuscì mai a scoprire -e neppure a sospettare- una possibile avventura segreta di suo padre. E ora non ricordava quando pensò, per la prima volta, che se lui aveva provato una passione inconfessata non era stato certo per nessuna persona viva o, almeno, per nessuna con la quale potesse avere ancora rapporti.

   Se fedeltà e adempimento del dovere erano concetti identici, suo padre era l’ uomo più fedele del mondo. Non l’aveva mai visto togliersi l’uniforme di marito ufficiale. Non scherzò mai, oltre il limite delle normali convenienze sociali, con nessuna altra donna della colonia. In realtà, non scherzava mai con nessuno. A Ceylon, trascorreva giorni e giorni vagando nella foresta, lottando contro ribelli e banditi. A Singapore, faceva un lavoro d’ufficio, molto più tranquillo, il cui compito principale consisteva nel ricostruire le strutture che i giapponesi avevano distrutto. Questo almeno sino a che non si presentò l’eterno problema dei comunisti.

   In seguito, col trascorrere degli anni, Kathleen fece quello che fanno tutti i figli: cominciò a giudicare i genitori con severità dolorosa. Ma, quando vivevano nella colonia, suo padre fu per lei come una specie di eroe cinematografico, o da romanzo. Sia in casa, quando, per le feste familiari, indossava lo smoking bianco e il monocolo che gli conferivano quell’aria tanto aristocratica. Sia nel palazzo del governatore, quando si recava per qualche cerimonia ufficiale, vestito con l’uniforme di gala. Sia quando, al mattino, era svegliata dal  suono del clacson: dalla finestra della sua camera, lo vedeva tornare dalla foresta al volante d’una jeep sporca di fango. Scendeva sporco di sangue rinsecchito sui pantaloni dell’uniforme, e con la pistola alla cintura. Indossava una camicia trasandata e macchiata di sudore e in testa aveva un salacot sfibrato, forse dal colpo di un machete di qualche nemico.

   Stava sempre al suo posto. Era gentile con i suoi uomini quando smontavano dal servizio e, pur esigente, non pretendeva dagli altri quanto lui stesso non avrebbe potuto fare. Si levava alle cinque del mattino per studiare il singalese o il malese, dipendeva dell’isola, ma non con finalità letterarie, bensì per servire al meglio il suo ufficio.

   Eppure Kathleen aveva ricevuto alcune lettere di una sua cugina sudafricana che le chiedeva se suo padre fosse ancora così spiritoso e di battuta facile, come quando aveva vent’anni. Cosa era dunque successo? E quel nome, Katharina, che lei aveva scoperto mentre l’aiutava nei fine settimana a rimettere ordine nell’immenso bagaglio delle sue carte: perché non l’aveva mai sentito pronunciare in famiglia? Perché non le avevano mai detto che suo padre si era presentato, come candidato indipendente, alla Camera dei Comuni? Quale era stato il suo programma politico? E come era possibile che in tanti anni non avesse visto un quaderno con su incollati articoli del “Sunday Express”, firmati da suo padre, nei quali spiegava come i fascisti lo avessero rinchiuso in un castello di Lipari? Per quali oscuri motivi sembrava che la vita di quell’uomo avesse avuto inizio solo a Ceylon e dopo essersi sposato con sua madre? Con che tipo di materiale si sarebbero potuti riempire i ventott’anni precedenti?

   Intravedeva una risposta: quanto stava facendo suo padre, ora che sentiva prossima la morte, non era se non ricostruire il “prima di Ceylon”. Lei non aveva alcuna intenzione di frugare nella sua vita intima e nei segreti che forse lui voleva custodire a qualsiasi prezzo. Ma, se il padre cercava qualcuno con cui dividere il peso di una sua frustrazione, di una sconfitta intima, anche se vergognosa, lei avrebbe fatto tutto il possibile per fargli capire che era più che disposta ad ascoltare le sue confidenze.

   Soffriva dell’indifferenza di sua madre, e per quella specie di barriera che esisteva tra i due. Ciononostante, comprendeva sua madre. O meglio: che desse a intendere indiffenrenza. Tutti i dispiaceri, infatti, che la madre le aveva procurato negli anni -non solo quando la ridicolizzò il giorno del suo sedicesimo compleanno- non erano frutto che del desiderio di vendicare nella figlia quanto non aveva saputo ricevere dal marito. C’era poi il suo nome, Katheen, lo stesso della ragazza di Vienna, ancora viva nel 1938, a giudicare da quella foto che non si incastrava a nulla di conosciuto.

   Fuggì dal centro della città ove aveva parcheggiato e cercò l’uscita per Denham, con l’intenzione di immettersi nella circonvallazione in direzione di Amersham, fino a Great Missenden. Era la routine d’ogni settimana, diventata, negli ultimi tempi, angosciosa per la decadenza di suo padre. Ma, più i giorni passavano devastando il suo fisico, tanto meno lui dava l’impressione di considerarsi una vittima imminente.

   Una volta di più la figlia ammirava il coraggio del padre, quella sua resistenza, non solo morale ma anche fisica, di fronte al dolore che, in alcuni momenti, doveva essere insopportabile. Dopo l’uscita balzana di Paul di qualche settimana prima, non c’era alcuna necessità di fingere. Era come se la verità, invece di essere fonte di perpetuo lamento, servisse a rendere tutto più chiaro, trasparente: l’uomo accettava quella fine e non chiedeva altro alla medicina che un supporto per il suo fisico che fosse sufficiente per permettergli di portare a termine un qualche proposito che nessuno di quanti gli stavano vicino poteva nemmeno intuire.

   Quella notte quando, dopo cena, salì come sempre a fargli compagnia, si accorse che le carte, prima così sparpagliate, cominciavano ad avere un ordine definitivo, ben classificate in raccoglitori, cartelle e album.

   -Ogni giorno che passa mi avvicino sempre più alla partenza- le disse, in modo un tantino enigmatico.

   -E dove vuoi andare?- gli chiese, rifiutandosi di accettare che quel viaggio fosse quello della morte.

   -Ho un debito. Se posso, vorrei pagarlo.

   -E non te lo posso pagare io?

   -No. Non c’è nessuno che possa dare la propria anima a un altro.

   -Sei ammalato, papà, e lo sai.

   -Sì. Una volta, molti anni fa, commisi un grande errore, una specie di crimine. E ora ho bisogno di sapere se la persona che uccisi è ancora viva. E se è viva, le voglio chiedere perdono.

   -Tu non hai mai fatto nulla di male, papà.

   -Sì, non aprii una lettera: come vedi, è molto semplice! 

   -Ed è questo che ha distrutto la tua vita? Ora non c’è però bisogno che tu finga. So che non sei mai stato felice con la mamma. Perché?

   -Vedi tutto ciò che ho messo in ordine? È per te. Quando sarò morto, lo terrai tu. Non vi troverai nulla che possa interessare gli altri. Interessa solo te, perché mi vuoi bene. È la tua vita. O quella parte della mia vita che tu non hai conosciuto. Le etichette te la indicano: Cambridge, Firenze, Sicilia, Londra, Ceylon. Non c’è nulla di eccezionale. È la vita grigia di tuo padre. Di sicuro, una vita come mille altre: un susseguirsi di illusioni, finita in un susseguirsi di fallimenti.

   -Ma tu non sei un fallito. Sei sempre stato un esempio per gli altri.

   -A cosa serve una buona chiave, se hai perso il tesoro?

   -Non ti capisco.

   -Lasciamo perdere. Sono stanco, adesso. Mi stanno somministrando degli analgesici così forti che mi stordiscono un po’. E non ho ancora finito. Mi manca poco. Mi sono  già familiarizzato con l’idea della morte e non faccio altro che prepararmi a riceverla. Non è poi così difficile, credimi. Tutto sta nel non nutrire né illulusioni né rimorsi.

   Kathleen l’accompagnò fino alla camera.

   -Vuoi andare al bagno?- gli chiese.

   -Ci posso ancora andare da solo… quando mi è possibile- rispose, desolato. -È proprio questo ciò che mi amareggia: l’essere schiavo del corpo. Più del dolore, come vedi!

   Quando furono sul punto di lasciarsi lui aggiunse:

   -Dovrei andare a Londra, un’intera mattina. Mi ci potresti portare lunedì con la tua macchina? Ormai mi stanco troppo a guidare.

   -Ma certo!

   -E rincaseremo di sera?

   -Naturalmente! Non c’è nulla che io possa fare per te?

   -Sì, tacere.

   Mentre si dirigeva verso la sua camera, vide la madre che le faceva un segno dall’altra porta. Le si avvicinò.

   -Cosa voleva tuo padre? Di che parlavate?- le chiese, mentre la tirava all’interno della camera.

   -Cose sue. M’ha detto che, dopo morto, tutte le carte che ha messo in ordine passeranno nelle mie mani.

   -Non so proprio cosa vi possa trovare, credimi! Per me è rimbecillito. La sua unica fissazione è guardare e riguardare quelle benedette carte. Ma, cosa vi può trovare? Fatti straordinari, momenti di successo? Nulla di tutto ciò, pover’uomo! Un biglietto ferroviario antidiluviano per Firenze, un programma della festa della Patrona di un misero paesino della Sicilia, la fotografia di un castello mezzo diroccato in un’altra isola italiana… Hai presente tutte quelle bagatelle che conservano i bambini? Biglie, figurine… Ecco, qualcosa di simile, ai suoi settant’anni!

   -E se per lui fossero importanti?

   -Certo che lo sono! Ed è per questo che è ancora più ridicolo. Si dice che quando invecchiamo diventiamo un po’ come dei bambini.

   -Forse è bello, mamma. Forse è bello tornare indietro e riavere l’anima che possedevamo da fanciulli; voglio dire le illusioni e l’innocenza.

   -Lo so. Qualsiasi cosa faccia tuo padre, anche la più assurda, ha sempre per te una speciale grandezza.

   -Buona notte, mamma.

   -Perché mi pianti così? Forse non posso più dire ciò che penso a casa mia?

   -Perché? Ormai è tutto inutile.

   Di colpo il volto di sua madre si alterò. Kathleen ricordò quanto essa stessa aveva pensato ore prima, come le si erano gradualmente afflosciati i muscoli del corpo fino a farla diventare una donna troppo flaccida e troppo corpulenta. E scoprì, come se non ci avesse mai pensato, che sua madre era già un’anziana indifesa, un’anziana angosciata e amareggiata che non sapeva piangere e che a stento riusciva a mantenersi in piedi grazie a un sentimento incomprensibile, fatto metà d’amore e metà di rancore.

XIX

   Gli avevano dato un paio di mesi di vita, forse tre. Passato il primo, sopportava ancora la decadenza con una certa dignità. Sapeva che non poteva farsi illusioni, ma forse l’evoluzione sarebbe stata più lenta di quanto aveva previsto il medico. La temuta occlusione intestinale non era avvenuta e, sebbene con dolorose difficoltà, la lotta con la pervicace stipsi non aveva un chiaro vincitore. Poi, i calmanti. Aveva imparato a farsi le iniezioni, quelle intramuscolari gli davano un relativo benessere: né lungo, né definitivo, ma sufficente.

   Negli angoli più reconditi del suo pensiero poteva forse albergare il sospetto che stesse ingannando se stesso, che la mania di andare a Vienna e incontrarsi con Katharina fosse una bugia necessaria per dare un senso alle sue ultime ore. E quel senso gli dava il coraggio. Per condurre a termine il progetto aveva bisogno di un certo tempo, ma non eccessivo. Supponiamo, un giorno per andare da Londra a Vienna, via aerea. Un altro per localizzare Katharina, ammesso che fosse ancora viva. Se non l’avesse trovata, niente avrebbe avuto più senso. Ma se avesse potuto rivederla, la morte non sarebbe stata un peso, ma una libertà. L’azione inesorabile del tempo non gli faceva paura. Ben altre cose avrebbero dovuto sopravvivere in lei, se lui, ormai moribondo, continuava a pensare a come salvare quei tempi, non misurabili, che gli avevano elargito la più completa pienezza del suo essere, lì, in Sicilia.

   Quando l’idea di andare a Vienna -a morirvi, forse- cominciò a impadronirsi di lui, ricordò con impotenza che, anni prima, aveva distrutto tutte le lettere di Katharina e, con le lettere, l’indirizzo. Avrebbe dovuto battagliare con l’elenco telefonico. E se non c’era? E se aveva cambiato nome per essersi sposata? E se non abitava più a Vienna? Solo più tardi, grazie a un automatismo mentale, ricordò il nome della via, come se l’avesse scritto il giorno prima. Gli fu d’aiuto quel disco a 78 giri comprato anni prima, nel quale Martha Eggerth cantava l’ ”Ave Maria” di Schubert, la preghiera che tanto l’aveva emozionato quando, a Licodia Eubea, l’aveva sentita cantare da Katharina. Fu una pura coincidenza, una semplice associazione di idee: la Eggerth era ungherese, Schubert era stato precettore di musica in Ungheria, in un castello degli Esterházy. Ecco, quindi, il nome della via: Esterházygasse.

   Kathleen aveva l’ufficio nella zona dello Strand. Lui scese dalla macchina a Trafalgar Square e si dettero appuntamento, alle cinque della sera, davanti al St. Martin in-the-Fields.

   -Come stai?

   -Non ti preoccupare.

   -E l’iniezione?

   -Me la posso fare da solo.

   -Lo so. Ma non te la farai su una panchina pubblica, come tossicodipendente.

   -Forse non lo sono già? Questi farmaci…

   -E cosa sei venuto a fare a Londra, tutto solo?

   -Cose che per l’appunto debbo fare da solo.

   Si salutarono. Lui si diresse verso gli uffici della British Airways, in Regent Street. Aveva calcolato il giorno della partenza. Non voleva intraprendere il viaggio senza aver prima riesaminato le poche carte che non avevo ancora messo in ordine e che riguardavano il periodo compreso tra il suo ritorno da Licodia Eubea, nell’ottobre del 1937, e il matrimonio con Vera, a Ceylon, nel 1940. Quando ebbe fissato il giorno e il volo, l’impiegata gli chiese:

   -Andata e ritorno?

   Tutta la sua vita si sarebbe potuta riassumere nella risposta…

   -Solo andata- disse.

   Era stato un fedele servitore del dovere per quarant’anni e alla fine aveva scoperto l’immoralità di tale servitù. Il dovere, ecco la grande menzogna. L’ amore per una donna infatti, l’amore per i figli, e perfino l’amore per il proprio Paese non hanno nulla a che vedere con il dovere. Per quarant’anni aveva mentito a Vera, aveva ingannato se stesso e aveva creato una famiglia i cui componenti non si sentivano a loro agio, a cominciare dai discendenti nati sotto il doppio giogo dell’istinto e della diffidenza.

   Andò alla Barclays a controllare il suo conto. Se gli restavano solo quindici o venti giorni di vita, bastava la carta di credito. Se l’agonia si fosse prolungata, poteva disporre di altre risorse. Uscì dalla banca e con lo stesso spirito entrò da Marks & Spencer a comprare una valigia leggera, che riempì della sua biancheria intima, due camicie, il servizio da toilette e d’altre cose per passare i suoi primi otto giorni di sradicamento. Poi, lasciò tutto negli stessi magazzini, dicendo che sarebbe tornato a prenderlo entro una quindicina di giorni.

   Come se l’intenzione di fare qualcosa o, meglio, l’entusiasmo che provava nel farla, esercitasse sul suo corpo una specie di terapia -tutto ciò che aveva sentito dire sulla guarigione per mezzo dello spirito-, pranzò con un certo appetito e, quando venne l’ora, entrò in un gabinetto del ristorante per farsi l’iniezione e anche qualcos’altro. Era incredibile quel miglioramento temporaneo d’una salute che già considerava perduta!

   Alle cinque, come convenuto, incontrò la figlia e, insieme, si diressero verso casa.

   -Come è andata? Hai una bella cera.

   -Sto bene. Molto bene. Lo so che non durerà, ma io sono come gli animali di sangue freddo, sai? Quando c’è il sole si riscaldano per il freddo che verrà.

   Il silenzio durò un bel po’. Lo ruppe Kathleen, non appena furono usciti dal centro della città, e il traffico, non più tanto intenso, glielo concesse.

   -Papà, non mi puoi dire cosa hai fatto tutto il giorno? 

   -Sono andato in banca a mettere ordine in altre carte, diverse da quelle di casa.

   -E non potevi venire con la mamma?

   Con tono un po’ duro, quasi violento, replicò:

   -Con tua madre non abbiamo nulla in comune, neanche i soldi.

   Ma reagì immediatamente e aggiunse:

   -Non mi provocare, figlia mia, per favore. Te l’ho detto proprio oggi: ci sono momenti in cui si deve restare soli. Se denudi il tuo corpo davanti agli altri puoi provare vergogna, ma è una cosa insignificante paragonata a ciò che rappresenta denudarsi lo spirito.

   -Sai perché insisto tanto? Probabilmente ti sembrerà assurdo, ma ho pensato per un momento che ci volevi abbandonare.

   -Hai ragione: vi sto abbandonando.

   -No, sai bene che non è questo ciò che voglio dire. Voglio dire che vuoi… Ah! Come me lo rendi difficile!

   -Morire, vuoi dire, non è vero? Morire lontano da voi, come gli elefanti. Ti ricordi a Ceylon? Quando gli elefanti sentivano prossima la morte, andavano al loro santuario, in un posto segreto della foresta.

   -Non mi hai risposto.

   -Lo farò con una domanda: non questo lunedì, ma il prossimo, mi porterai ancora a Londra?

   -Sì. E visto che non vuoi denudarti, come tu dici, aggiungerò una cosa sola: ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene e te ne vorrò qualsiasi cosa tu faccia.

   -Me lo prometti?

   -Sì, papà, te lo prometto.

   -Ciò mi aiuterà molto più di quanto tu possa pensare.

   E a Great Missenden, anche Vera chiese:

   -Cosa hai fatto? Credi forse che le tue condizioni ti permettano tante fantasie? Il dottor Barrington ti aveva detto…

   -Sto bene. Lasciami in pace. Te ne prego, Vera, lasciami in pace.

   Kathleen andò a dormire presto. Vera (“Per loro, sono una serva”, pensò) raccolse gli avanzi della cena, mise i quattro piatti nella lavastoviglie e si sedette per vedere un programma alla televione, uno di quei divertenti serial che, con molto humor, rispecchiano così bene la realtà della classe media inglese. Quando, poi, si ritirò nella sua camera, dove covava l’amarezza della sua solitudine ormai definitiva, si accorse che il marito, in preda alla sua recente e malaticcia ossessione senile, teneva la luce dello studio accesa. Esaminava il passato, come se ciò che lasciamo dietro di noi possa avere ancora un qualche valore. Aveva ragione quando aveva detto alla figlia: “È rimbecillito”.

   E mentre le donne cercavano il sonno, Bernard classificava i documenti di quell’episodio, frustrato, della sua vita: l‘aspirazione di diventare membro della Camera dei Comuni. Era il 1937, appena tornato dalla Sicilia, quando cominciò a preparare la sua campagna. Ora quell’avvenimento lo poteva analizzare con un’amarezza attenuata. La sua sconfitta politica era infatti appena rilevante se paragonata alla catastrofe che aveva sconvolto il mondo. “La caduta degli dei”, l’avevano chiamata. Degli dei? Di quali dei? E di quale strano Olimpo? Dei, demoni, uomini e donne, credenti e non credenti, innocenti e colpevoli, tutti uguali di fronte a una distruzione che, per un po’, sembrava volesse essere totale. Hiroshima e Nagasaki, appunto. Agosto del 1945. E lui, a Ceylon, a festeggiare una vittoria (“Resa incondizionata!”, gridava Churchill), della quale, ora, si vergognava. Certo, erano morte decine di migliaia di persone, ma lui provava orrore anche per tutte le altre morti, per le morti individuali: Giovanni Gentile, il filosofo di Castelvetrano, ministro della Pubblica Istruzione negli anni venti, più tardi membro del Gran Consiglio Fascista, fedele a Mussolini perfino in quella deplorevole Repubblica di Salò dell’ultimo momento. Le brigate antifasciste l’assassinarono a Firenze -proprio a Firenze!- nel 1944.

   E Mussolini, l’ispiratore di buona parte delle sue dottrine giovanili? Giustiziato, anche lui, dai partigiani mentre cercava di fuggire con la sua amante, la sventurata Claretta Petacci. Che fine poco eroica! Appeso testa in giù, come un maiale al macello, con la sua donna nella stessa  vergognosa posizione. Era l’aprile del 1945.

   L’anno dopo, moriva sulla forca il nemico dei von Raitenau, quell’Arthur Seyss-Inquart che, da “Statthalter” dell’Austria, da commissario del Reich in Olanda, finì imputato al processo di Norimberga, che lo giudicò colpevole.

   Il braccio armato dell’odio arrivò sino al 1962, allorché gli ebrei processarono e giustiziarono Adolf Eichmann, l’organizzatore dello stermino degli ebrei in Austria nel 1938.

   Era come se si fosse aperta una diga imprevedibile e le acque copiose del fiume di indifferenza avessero trascinato via tutto.

   Prese a mettere nella penultima cartella gli appunti scritti per il suo primo comizio. Se ne ricordava ancora: aveva avuto luogo nel piccolo locale accanto alla chiesa del suo paesino, proprio dove il pastore faceva proiettare di domenica pomeriggio qualche film morigerato.

XX

   La stanchezza che lo prostrava quando arrivò a Londra non era dovuta solo alle tante ore di treno, ma anche alla lacerante separazione sofferta là, a Roma, alla stazione Termini, quando partì il treno che doveva portare Katharina a Vienna e il volto di lei, incorniciato nel finestrino del vagone, svanì in una una frazione di secondo. Lo ricordava sorridente, ma con gli occhi pieni di lacrime.

   Non essendo del tutto sicuro sulle coincidenze ferroviarie, non aveva avvisato la famiglia. E ora si trovava solo alla Victoria Station, a notte inoltrata, senza sapere dove andare. Dormì come un ghiro in un modesto albergo. Spesso il corpo e lo spirito percorrono sentieri diversi. Aveva immaginato che i nervi non lo avrebbero lasciato dormire e che avrebbe trascorso le ore girandosi e rigirandosi nel letto. Ma così non fu. Sognò, davvero assurdo!, un fatto accaduto quando era piccolo: la madre, mentre andavano al mercato, gli aveva comperato una caramella; pioveva e la caramella gli era caduta nel fango e lui l’aveva persa.

   Appena alzato -era un sabato- cercò di rintracciare lo zio Arnold. Gli disse in quale albergo alloggiava e rimasero d’accordo che lo zio sarebbe passato a prederlo per accompagnarlo con la sua macchina fino a casa dei genitori. Lì avrebbe parlato delle sue esperienze, e anche dei programmi futuri.

   Durante il viaggio verso Beaconsfield, il paesino in cui era nato, Bernard spiegò allo zio gli avvenimenti più importanti di quel semestre, specialmente quelli di carattere politico, e i rapporti avuti con il dottor Riccardi, con il procuratore Milazzo, con il sindaco e, senza alludere ai sentimenti intimi che li univano, con la ragazza austriaca, di remota origine ebrea e così nemica dei nazisti e dei fascisti.

   -E ora, cosa farai? Hai venticinque anni, una laurea…- aggiunse la madre.

   -Una laurea che non gli servirà a nulla- fu il commento del padre. Se tu avessi studiato medicina, come tuo zio, avresti trovato sicuramente un lavoro senza muoverti da questa casa.

   L’idea era, se non altro, pittoresca. Quella casa era divisa in tre parti ben differenziate: una, occupata dal modesto ufficio postale, affidato al padre; un’altra, destinata alla vendita di prodotti vari, quali frutta, pane, conserve, ciabatte e profumi, gestita dalla madre; e l’ultima, situata nell’unico piano dell’immobile, era stata trasformata in un alloggio grazioso ma senza pretese.

   -Bernard ha idee tutte sue- intervenne lo zio, -vuole darsi alla politica.

   -Ma se non sei neppure iscritto alle Trade Unions!- esclamò il padre. -Chi vuoi che ti aiuti?

   -Non vuole che l’aiuti nessuno. Vuole essere indipendente. È questo il suo messaggio, non è vero, giovanotto?

   -Vedi, papà, -intervenne il giovanotto -non credo che il concetto attuale di sindacato sia quello giusto.

   -Perché? Le condizioni dei lavoratori migliorano.

   -Certo, ma diminuisce la produzione e la concorrenza. Non mi convince neppure il tradizionale sistema bipartitico britannico. Noi, con le nostre piccole lotte interne per arrivare al governo e con i nostri sindacati, che con le loro esigenze rovinano l’economia, non siamo attrezzati per affrontare l’agressività della Germania di Hitler. Ha preso il potere nel 1933, e guardate cosa ha combinato in quattro anni! Ci deve pur essere qualcosa di positivo nel suo sistema. E la stessa cosa è successa con Mussolini: non solo ha elevato il livello di vita del popolo italiano, ma il suo espansionismo comincia a crearci problemi nell’Africa del Nord. Il fatto è che, per nascondere le nostre indecisioni e la nostra incompetenza, non troviamo di meglio che segnalare gli errori dei nostri rivali, senza voler ammettere i loro successi. Ma se un giorno la Gran Bretagna dovesse affrontare la Germania, non ne uscirà certo vittoriosa, almeno sino a quando sarà governata da persone tanto nefaste e arrendevoli come il signor Chamberlain.

   -Vuoi dire che bisogna seguire una politica di guerra in tempo di pace?- chiese lo zio.

   -Non mi pare che lo sforzo collettivo per migliorare il Paese e la vita dei suoi abitanti possa essere paragonato a uno stato di guerra.

   La discussione continuò. E tanto ai genitori come allo zio parve innegabile che il giovanotto sapeva esporre le sue idee e che non gli mancavano certo i mezzi per farsi strada nella vita, benché le sue possibilità fossero modeste. 

   -Voi stessi mi date ragione. State dicendo, tanto per cominciare, che mi dovrei iscrivere a uno degli attuali partiti per godere del loro appoggio. Ed è appunto ciò che bisogna evitare. Non si devono accettare favori o protezioni: prima o poi, chi li elargisce ti presenta il conto. Chi muove i fili segreti del sistema politico chiamato democrazia, se non i gruppi di pressione, quelli che mettono nei posti chiave persone di paglia, sempre ubbidienti alle segrete esigenze dei loro protettori?

   -In teoria, hai del tutto ragione,- arguì lo zio -ma hai bisogno di mezzi per cominciare. E vorrei sapere su cosa conti!

   -Aspiro ad essere membro dei Comuni, e mi voglio presentare alle elezioni, come indipendente,  per il nostro distretto. Su cosa conto? Su molto poco, lo so bene. Faccio affidamento sul “Sundey Express” quale possibile piattaforma in cui esporre le mie idee. Finanziariamente, dispongo di modesti risparmi. Credo di potere contare sull’aiuto di qualche vecchio compagno di Cambridge, che condivideva, in parte, i miei punti di vista. Inoltre, lavorerò: posso dare lezioni, tradurre dall’italiano…     

   -Tutto sommato, una miseria!- sentenziò la madre.

   -Non gli tarpare le ali. Se sono di cera, troverà chi gliele scioglierà- intervenne lo zio.  

   -E perché non diventi camicia nera di Mosley?

   -Sono stato in Italia, papà, e se c’è qualcosa che non tollero è la violenza. 

   -Perché ti hanno imprigionato?

   -Per un mio articolo sulla detenzione illegale d’un procuratore.

   -Non mi sembra un fatto poi tanto grave.

   -Non lo era ma, da lontano, le cose si vedono sempre in modo diverso.

   -Vuoi dire che non capisco nulla, vero?

   -No, papà, voglio dire che non è possibile capire ciò che non si conosce.

   Lo zio, malgrado la sua risaputa militanza laburista, sembrava più disposto a concedere a Bernard qualche margine di fiducia e di movimento.

   -Mi sento un po’ colpevole della tua formazione. Mi farebbe piacere, quindi, aiutarti. Anche economicamente, se sarà necessario.

   Vi furono altri motivi per nuove conversazioni. Bernard tardò un po’ nel ritoccare la tesi dottorale che doveva discutere a Cambridge, il frutto fecondo della sua borsa di studio. Quando, finalmente, lo zio la lesse rimase meravigliato per la precisa esposizione, per il rigore dell’argomentazione, e per come aveva strutturato il futuro progetto. In essa, si definivano dei princípi politici, un programma per poterli realizzare e anche un progetto per arrivare al potere e  applicarli.

   Il giovanotto ebbe, tuttavia, una prima delusione quando, dopo molta insistenza, riuscì a parlare con il direttore del “Sunday”. Le parole gentili, le pacche sulla spalla e gli auguri per un grande futuro si sprecarono. La verità era però un’altra, e bisognava leggerla tra le righe. Gli fecero capire che il suo lavoro di giornalista li aveva interessati solo in quanto corrispondente da un Paese, che (Mussolini, il Negus e il fascismo), in quel momento,  era di moda tra gli inglesi; ma se pensava di inviare delle cronache da Beaconsfield, beh, era meglio che se lo togliesse dalla testa. E per ciò che concerneva le sue aspirazioni politiche, il “domenicale” non poteva, considerata la sua indipendenza, fare l’apologia di nessuno e, tanto meno, quella di un antico collaboratore. Tuttavia, se avesse voluto inviare, di tanto in tanto, qualche cosetta, avrebbero cercato di fare il possibile per…

   La società era crudele, in quanto competitiva. E l’onestà, se si voleva aver successo era, forse, più un ostacolo che un vantaggio.

   Scriveva a Katharina. Ma non con quell’entusiasmo che lui stesso credeva d’avere quando avevano vissuto insieme le ultime ore siciliane. Sentiva, da un lato, l’esigenza di lavorare al progetto che si era prefissato, anche se rubava ore e tempo ai delicati pensieri d’amore; dall’altro, gli sarebbe piaciuto parlare degli obbiettivi realizzati, ma nulla di tutto ciò era ancora possibile. Le cose che avrebbe potuto dire non erano affatto entusiasmanti, e quelle che avrebbe voluto dire non gli uscivano dalla penna.   

   Neppure le lettere di Katharina facevano trasparire quella gioia di comunicare che lui conosceva e ricordava. Era come se il peso della famiglia, della casa di Vienna, del suo Paese, sempre più minacciato da una possibile agressione tedesca, gravitassero sull’animo della ragazza. Accennava appena ai fatti politici. Dava persino a intendere di temere una possibile censura della corrispondenza in un futuro molto prossimo. “L’economia nazista migliora, e noi viviamo nella disoccupazione e nella povertà. È deplorevole, ma l’idea d’una annessione alla Germania acquista sempre più fautori. La politica di Schuschnigg è dura, ma inefficace. Questa situazione non soddisfa nessuno”. E la sua risposta avrebbe potuto suonare così: “Di giorno in giorno, la Gran Bretagna vede sempre più minacciate le rotte che la collegano con tutti i Paesi del Commonwealth. Sto preparando la mia campagna di denunce, ma temo di dover affrontare un Paese addormentato, capace solo di destarsi dal suo torpore sotto la minaccia d’una guerra. Ma quando questa scoppierà, sarà ormai troppo tardi e non recupereremo mai più il dominio perduto”.

   Avevano vent’anni e non sapevano parlare d’amore. Il mondo li rendeva prematuramente vecchi e stanchi, come se le circostanze esterne avessero più potere, più forza della loro ricchezza interiore.

   Come quelli che hanno passato delle vacanze estive felici e quando tornano alla quotidianità scoprono l’opacità della vita rutinaria e contemplano il passato come fosse un sogno irripetibile, così vivevano loro e, senza dirselo, provavano un sentimento facilissimo a comprendersi come è quello della nostalgia e del dolore per il presente. Bisognava credere in un domani di tranquillità, in un giorno in cui si sarebbero potuti riunire di nuovo, in Austria o in Inghilterra. Lui, già membro dei Comuni; lei, senza più l’incubo della paura. Assieme, avrebbero formato una famiglia, accogliente e costruttiva: erano giovani, e il futuro doveva  apppartenergli.

   Preparò mille eventuali discorsi, andò di casa in casa a propagandare le sue idee, spedì una lettera circolare ai possibili elettori esponendo il suo programma, supplicò tutte le redazioni affinché gli concedessero una modesta inserzione. Conobbe cosa fossero le umiliazioni inflitte da chi è già arrivato a coloro che cercano di farsi strada. Si sentì beffato, tradito, incompreso, insultato, ignorato senza validi motivi, solo per quell’istinto di perversità che caratterizza la natura umana e che si somma a una infinita pigrizia del cuore e della mente quando non si vuole amare, né capire.

   Dopo molte ore di riflessione, mostrò allo zio la sintesi del suo programma di base.

   -È lungo e noioso,- riconobbe lui stesso -ma vorrei che tu mi aiutassi a renderlo più agile. A Cambridge hanno messo a mia disposizione un’aula per sabato prossimo. Devo parlare con i miei vecchi compagni e con qualche professore. Si può quasi dire che metto in gioco tutto il mio prestigio. Se sono erudito, me lo criticheranno, perché dovrei cercare di conquistare il voto popolare. Se sono volgare, me lo criticheranno lo stesso, perché improprio di un fellow di Cambridge. E non so più cosa fare, zio. Non so più cosa fare.         

   Lo zio lasciò a dopo ogni valutazione, e si mise a leggere lo scritto di suo nipote che diceva:

   “Se avete una fattoria, non permettereste di certo che sia il bestiame a decidere il mangime. Il che può sembrare un insulto ad alcuni di voi elettori, ma se ci pensate bene, vedreste che l’assurdo è ammettere che tutti siano capaci di dire la loro su tutto”.

   “Credo che questa interpretazione impropria della democrazia nuoccia alla società, giacché favorisce gli antagonismi. Io parto dal principio che si può andar oltre la tradizionale contrapposizione tra lavoro e capitale, contrapposizione che favorisce la lotta di classe. Credo, anche, che si possano evitare le sterili rivalità dei partiti facendo ricorso a un potere assoluto, sempre che si sappia evitare di cadere nella tirrania”.

   “Molto spesso, abbiamo rifiutato antiche soluzioni per il solo fatto che erano antiche, senza soffermarci a pensare se fossero ancora valide: per esempio, le corporazioni. Dopotutto, chi è più idoneo a giudicare un determinato lavoro se non colui che lo realizza? E quali difetti si incontrano nel gerarchizzare gli operai specializzati e gli apprendisti, ognuno nel loro mestiere? E se la nostra società si basa sul capitalismo, se veramente ci vogliamo allontanare da un socialismo di Stato che annulla l’ambizione dell’individuo e, quindi, i suoi stimoli, cosa potremmo trovare di meglio se non unire il capitale e il lavoro in tante corporazioni? Tali gruppi, organizzati gerarchicamente, formati da individui d’una stessa professione, impegnati nella stessa attività e con gli stessi privilegi sociali, costituirebbero il tessuto della società politica.  Raggruppare la gente in base alla loro posizione economica, invece, significa indurla alla lotta, a una lotta che, nel migliore dei casi, arreca  beneficio a una sola delle due fazioni contendenti”.

   “La stessa cosa avviene con la proliferazione dei partiti, i quali, avidi di potere, promettono spesso ciò che sanno di non poter mai concedere, o concedono, per soddisfare demagogicamente le richieste di alcuni settori dell’elettorato, ciò che non si dovrebbe ragionevolmente concedere. Converrebbe, anche su questo punto, gettare uno sguardo sul sedicesimo secolo e prendere in considerazione la validità che poteva avere la teoria politica dei monarcomachi i quali, convinti dell’origine popolare del potere, lo delegavano a un principe grazie a un contratto. Se il principe non ne rispettava le clausole, veniva deposto”.

   “Il Paese si deve prefissare degli obiettivi che tendano al bene comune, e la società deve rispettarli e servirli. Non certo tirando ognuno verso l’orticello del proprio egoismo, ma congiuntamente e in armonia, poiché il logoramento prodotto dalle lotte sociali è incalcolabile. Servano da esempio i risultati degli scioperi, come pure l’attitudine opposta della serrata”. 

   Gli appunti occupavano ancora alcune pagine. Quando lo zio ebbe finito di leggerli, commentò:

   -Se vuoi scrivere un saggio politico, la tesi mi pare appropriata. Se vuoi convincere gli elettori, è fredda. Sei troppo onesto. Ci devi mettere un pizzico di demagogia. Per esempio, tu dai a intendere che bisognerebbe eliminare i sindacati e optare per il corporativismo, così come hanno fatto in Italia, o come si evince dagli ordinamenti del Vaticano. Se tu riuscissi anche a farlo comprendere alla gente, ti direbbero subito che sei fascista e cattolico, e in Inghilterra, con tali etichette, le elezioni si perdono… Perché non sfrutti invece la tua detenzione in Italia? Perché non ti presenti anche tu come una vittima del fascismo?

   E come quel giocatore che comincia a rischiare, timidamente, alla roulette e, invece di ritirarsi dopo avere perduto troppo denaro, preso dal panico punta sempre di più nella speranza assurda di rifarsi, così fece Bernard, scivolando a rotoloni per il toboga delle spese impreviste: l’affitto del locale dove organizzare la campagna, gli stipendi del personale ausiliare, i volantini, le circolari, i francobolli, le inserzioni sui giornali, le schede elettorali, i manifesti… Tutto ciò che avrebbe voluto considerare innecessario era diventato imprescindibile.

   Alla fine si meravigliò d’avere subìto una sconfitta chiarissima, completa. Non ottenne neanche l’uno per cento dei voti. Il fiasco era oltremodo doloroso in quanto, oltre al seggio, aveva perso l’innocenza. 

   Dopo pochi giorni dal disastro, quando non aveva avuto ancora il coraggio di dirlo a Katharina che aspettava i risultati, come se il futuro di entrambi fosse fatalmente legato a quelle elezioni, arrivò la notizia temuta. Se in febbraio, nella nefasta riunione di Berchtesgaden, il cancelliere austriaco aveva dovuto piegarsi alle esigenze del Führer e designare Seyss-Inquart come ministro degli Interni, ora il mondo aveva un’altra prova della politica del fatto compiuto: il plebiscito indetto da Schuschnigg s’era rivelato a tal punto carta straccia che, ancora prima d’essere effetuato, le truppe tedesche avevano occupato il Paese. Era l’11 marzo. Il 14 Hitler sfilava trionfalmente per Vienna. Il cancelliere venne imprigionato e venne indetto un nuovo plebiscito per sapere se il popolo accettava l’annessione di fatto. Nessuno credette ai risultati: i voti affermativi erano il 99,73 per cento. Non tardarono a giungere altre notizie ancora più terrificanti. In tutta l’Austria s’era scatenata una programmata persecuzione contro i nemici dei nazisti, contro i democratici, gli ebrei e il Paese, con il nome nuovo di Ostmark, era diventato un’altra provincia della grande Germania.

   Ma, come spesso avviene, ciò che dette a Bernard una più chiara dimensione del dramma fu, nella vastità smisurata degli avvenimenti, un insignificante particolare di una lettera che ricevette da Katharina quando l’angoscia cominciava a impadronirsi di lui. Fra l’altro, diceva: “Devi già essere al corrente della buona nuova. Noi fautori dell’annessione alla Germania abbiamo vinto in modo indiscutibile. In famiglia stiamo tutti molto bene e festeggiamo la vittoria. Ora Vienna vive l’eccitazione logica di tanta euforia. Poiché i miei genitori sono già un po’ anziani, andremo probabilmente a trascorrere qualche tempo in campagna. Ho ricevuto la tua lettera nella quale mi fai sapere che non hai avuto molta fortuna nell’attività che volevi intraprendere. Forse dovremo aspettare un po’ prima di poter realizzare quanto avevamo programmato in Italia. Siamo ancora giovani, e io sono disposta a ogni sacrificio, perché ti amo. Mi farebbe certamente piacere trascorrere insieme a te le vacanze, ma per ora non è possibile lasciare il Paese: è l’ora in cui tutti ci dobbiamo sacrificare per il grande futuro che ci attende”.

   La prima reazione di Bernard fu quella di partire subito per Vienna o per qualsiasi altro posto del Paese ove lei si fosse rifugiata nella speranza di sfuggire alla repressione. Ma quando prese in esame lo stato delle sue finanze, dopo il grande fiasco politico, si rese conto d’avere solo debiti e che, a meno di ricorrere per l’ennesima volta allo zio, non avrebbe potuto neppure attraversare la Manica.

   E fu proprio allora che gli venne l’idea che avrebbe potuto servire il suo Paese in altro modo e, allo stesso tempo, forse, risolvere il suo futuro rapidamente: si sarebbe arruolato nell’esercito ove, grazie ai suoi studi, avrebbe ottenuto un grado superiore. Se non era buono a fare il giornalista né il politico, gli restavano ancora due cose, lì non poteva fallire: l’amore per la sua donna e l’amore per la patria. Mai avrebbe immaginato la risposta dell’ufficio di reclutamento: “Secondo la vigente tavola di inabilità…” Per farla breve, non avevano accettato la sua domanda: era troppo miope.

   Sembrava che gli dei dell’antica Trinacria cominciassero a presentare il conto per i favori elargiti.

XXI

   Stava facendo i suoi conti: se il “Sunday” fosse ancora interessato alle sue cronache dalla Sicilia, se il sindaco di Licodia o qualche autorità di Palermo o di Catania avessero potuto dare uno stipendio a Katharina, se i Lanzara li avessero ospitati per un prezzo conveniente, lui se la sarebbe sentita di sposarsi, andare in Sicilia e vivere lì fino a quando fosse passata quella grande nube che minacciava l’ Europa?

   La nube però non passava, anzi. Non s’era ancora placata l’indignazione delle democrazie per quell’atto di forza contro l’Austria, che già cominciava a delinearsi una nuova esigenza tedesca: l’incorporazione al Terzo Reich della parte della Cecoslovacchia occupata dai sudeti, i quali avevano un partito nazionalista (il Sudetendeustche Partei) che la reclamava con insistenza in virtù della parziale vittoria ottenuta nelle elezioni comunali del maggio del 1938.

   Come non bastasse, molti commentatori di politica estera erano dell’avviso che l’aiuto prestato da Hitler e da Mussolini al generale Franco non era indirizzato tanto alla vittoria di quest’ultimo sulla Repubblica democratica, quanto alla sperimentazione, in territorio altrui, di tattiche di guerra che sarebbero venute buone quando il conflitto mondiale si fosse reso inevitabile. In Spagna arrivava artiglieria pesante, leggera e antiaerea, mortai, mitragliatrici, carri armati, camion, bombardieri, caccia, idrovolanti e, naturalmente, le truppei: quelle tedesche della divisione Condor; quelle italiane del CTV o “Corpo Truppe Volontarie”. Non tutte le tattiche sperimentate si svolgevano sul terreno di battaglia: in Spagna venne calcolata l’importanza dei bombardamenti a tappeto per dissuadere le retroguardie, come a Guernica, o per terrorizzare la popolazione civile, come successe a Malaga.

   Lo zio Arnold insisteva su queste considerazioni quando Bernard, per la prima volta, confidò a una terza persona il suo amore per la ragazza austriaca.

   -Me lo immaginavo. Non te ne rendevi conto, ma anche senza citarla ne parlavi a ogni piè sospinto.

   -Quindi, se la tua analisi della situazione internazionale è questa, che te ne pare del mio proggetto? Dalle poche lettere che ricevo, immagino che la vita a Vienna deve essere un batticuore continuo.

   -Temo di non poterti essere di grande aiuto. Tu cerchi qualcuno che ti animi, e io guardo al futuro con troppo pessimismo. Andare in Italia, dici! Lei, forse, cadrebbe dalla padella nella brace, anche se penso che la Gestapo ignori l’esistenza del paesino di cui parli. E tu? Se Hitler s’intestardisce con i Sudeti (e lo farà), non rimangono che due vie d’uscita: o cediamo, e dopo quindici giorni avanzerà nuove pretese, o diciamo “Basta!”, e sarà una dichiarazione di guerra. Una guerra inevitabile che prima o poi arriverà, come indicano tutti i segnali. E cosa ne sarebbe di te, suddito britannico? Come minimo, ti farebbero prigioniero durante la guerra, magari con una moglie incinta, o fuggitivi in terra nemica.

   -Allora zio, cosa posso fare?

   -Parlane con lei. Sembra una donna molto assennata.

   -Ma, e se mi dice di no?

   -Ti rimane una possibilità: insistere perché venga nel nostro Paese con i suoi famigliari. Farebbero ancora a tempo. L’esodo degli ebrei e degli altri perseguitati che fuggono dalla Polonia, dall’Austria, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Romania o dalla stessa Germania è massiccio. Loro potrebbero essere fra questi. Potrebbero chiedere asilo politico. A quanto dici, è gente d’una certa posizione sociale. E ciò faciliterebbe le cose.  

   -E una volta qui, cosa fare? Io non ho mezzi per mantenerli.

   -Non pensare, adesso, ai soldi. Se la loro vita è veramente in pericolo, la prima cosa da fare è salvarli.

   -Grazie zio.

   -Inoltre, hai una possibilità immediata di lavorare e di disporre d’uno stipendio importante.

   -E come?

   -È vero che non ti sarebbe dispiaciuto arruolarti nell’esercito?

   -No, di certo. Ma non mi hanno voluto.

   -Potresti ricorrere a qualcosa di simile ma meno selettivo come la polizia coloniale. Con il tuo titolo universitario, ti basterebbe un breve corso di abilitazione per ottenere il grado di capitano. Pensaci. Acquisteresti autorità, saresti rispettato, serviresti il Paese e godresti d’una sicurezza economica più che sufficiente per mettere su casa e per farti una famiglia. Dove non so. Potresti andare ovunque: in India, in Malesia, in Giamaica, nella Nuova Zelanda, in Kenya, a Tonga… che so io!

   Lo zio era una persona lucida ed equilibrata e le sue opinioni meritavano una profonda riflessione. La prima cosa che fece Bernard, prima ancora di scrivere a Katharina, fu di cercare una risposta -se risposta c’era- a ogni suo interrogativo. Aveva una possibilità di tornare a fare il cronista del “Sunday” in Sicilia? Avrebbe potuto scegliere la destinazione delle colonie? Quando, con la sua abituale precisione, credette d’avere studiato tutti i dettagli di ognuna delle possibilità esaminate con lo zio, spedì una lunga lettera a Katharina chiedendole il suo parere sulle due proposte, benché considerasse più plausibile quella di arruolarsi nella polizia.  

   La risposta si fece attendere un po’, ed era molto breve. Non parlava affatto del possibile viaggio dei suoi genitori in Inghilterra, ma dava a intendere che, per motivi che avrebbe spiegato nel momento opportuno, le sembrava più vantaggiosa l’idea d’arruolarsi nella polizia. Lei avrebbe fatto il necessario per raggiungerlo, quando lui fosse stato convinto di aver risolto fiinanziariamente il loro futuro.

   Era ovvio, quindi, quale era il primo passo: doveva arruolarsi. Superò tutte le prove fisiche e psichiche e, un volta accettata la domanda, incominciò la preparazione. È vero che per certi aspetti gli studi universitari gli furono di grande aiuto, ma per altri fu costretto a iniziare da zero. Tanto per fare un esempio, dovette imparare a usare le armi da fuoco e a organizzare un comissariato a Zanzibar. La sua predisposizione naturale e il desiderio d’ottenere la necessaria tranquillità economica l’indussero a compiere passi da gigante.

   Tuttavia, non si fermava neppure il temuto cammino della storia e, nell’agosto del 1938, fu evidente che il problema dei Sudeti si sarebbe risolto solo con una nuova resa o con la guerra. Chamberlain, nel suo disperato desiderio di salvare la pace, parve un burattino sconfitto nella riunione che ebbe con Hitler a Berchtesgarden. Fu una perdita di tempo. Hitler continuava a lanciava i suoi ultimatum mentre i negoziati si dimostravano inutili e privi di senso. Il 26 settembre inviò quello definitivo. A Monaco, pochi giorni più tardi, Chamberlain giocando il tutto per tutto, e senza alcun rappresentante del governo di Praga, fece ancora balenare una possibile pace. La Gran Bretagna e la Francia accettavano che la Germania s’annettesse quella regione a patto, però, che l’annessione avvenisse dopo un plebiscito propositivo. Ancora una volta, le sue buone intenzioni, e quelle di Daladier, si dimostrarono vane, per non dire ridicole: il primo ottobre le truppe tedesche occuparono i territori dei Sudeti.

   Quel nuovo atto di forza precedette, di poche settimane, la fine del breve corso preparatorio che Barnard aveva dovuto seguire. Non sapeva ancora dove l’avrebbero destinato, ma una parte importante del problema, l’indipendenza economica,  poteva considerarsi risolta. Lo fece sapere a Katharina, chiedendole di non ritardare oltre il suo viaggio. Sarebbe bastato un semplice cenno e lui si sarebbe occupato delle pratiche  per le nozze (“per la chiesa cattolica, se lo desideri”) e avrebbe messo su una camera nell’appartamento di Beaconsfield, in attesa di stabilirsi in una casa propria, probabilmente lontano dall’Europa, lontano da quella specie di vespaio che rubava loro tranquillità, illusioni e speranze.

   Dopo un mese ricevette un comunicato del Ministero degli Interni con il quale l’informavano che aveva ottenuto una eccellente qualifica e che gli concedevano quattro settimane per preparare il viaggio verso la sua destinazione: Kandy, nell’ isola di Ceylon.

   Sarebbe stata una buona notizia, se non l’avesse annacquata la mancata risposta di Katharina. Il tempo incalzava angosciosamente. Preoccupatissimo, spedì un telegramma a Vienna chiedendole una risposta urgente. Trascorsero uno, due, otto giorni,  e il silenzio perdurava. Lo fece sapere allo zio e questi si mosse nell’ambito governativo. Otto giorni dopo ricevettero un invito a recarsi al Ministero degli Affari Esteri. Furono ricevuti da uno dei segretari che si occupavano delle relazioni con il Reich.

   -Temo di dover dare loro cattive notizie- cominciò.  

   Si dilungò un po’ spiegando di quali mezzi si erano valsi per entrare in contatto con la famiglia von Raitenau.

   -Dopo poche settimane dall’Anschluss, le SS cominciarono a costruire in Austria il primo campo di concentramento. Per quanto ne sappiamo, nell’ agosto scorso ha cominciato a funzionare quello di Mauthausen, un posto non lontano da Linz. È stato organizzato da agenti del campo di Dachau, situato presso Monaco, che operava già nel 1933. Dicono che in quello austriaco ci sono solo prigionieri comuni, che lavorano in una vicina cava di pietra. Noi sospettiamo che vi siano anche detenuti politici. Il signor Walter von Raitenau, il padre della sua amica, è rinchiuso in questo campo o in quello di Dachau, non siamo riusciti a saperlo con certezza.

   -E lei? E la madre?

   -Hanno abbandonato il domicilio di Vienna. E ora viene il peggio: la ragazza, con una scelta eroica, quanto comprensibile, non vuole separarsi da sua madre. Le chiede, Mr. Quayle, di non fare ulteriori tentativi per entrare in contatto con lei, neppure per lettera. Le relazioni tra il nostro Paese e la Germania si stanno deteriorando di momento in momento e qualsiasi lettera che arrivi dall’Inghilterra è sottoposta alla più stretta censura. Lei, con le sue richieste, non fa altro che comprometterla e mettere in pericolo la sua vita o, quantomeno, la sua libertà.

   -E dove abitano adesso?

   -Non lo so. Il nostro contatto è dell’avviso che la migliore garanzia per mantenere il segreto è ignorarne il posto.  

   Uscirono dal Ministero con una amarezza difficile da sopportare. Non era questa o quella notizia, per disperata che fosse, ciò che dava la dimensione del malessere, ma l’impressione generalizzata che non si poteva lottare individualmente contro il destino ineluttabile che si abbatteva su di loro. Vivevano la storia come un impulso istintivo, una corrente che, in quegli anni, sarebbe stata sconvolgente e  catastrofica.

   Come se la società lo intuisse, il pessimismo era generale. Non si trattava dei problemi particolari di questa o quella persona, più o meno preoccupata dalla meschinità del suo egoismo. No, era un lamento collettivo, una paura generale e condivisa, una totale sensazione di frustrante impotenza. La Repubblica spagnola aveva perso l’ultima battaglia importante della guerra, quella dell’Ebro. Verso la fine del gennaio del 1939, le truppe eterogenee che si autodefinivano nazionali e nelle quali militavano marocchini, tedeschi e italiani, occuparono la città di Barcellona, dopo la capitale la più importante del Paese. Di fronte a quella terribile progressione verso uno scontro definitivo tra libertà e tirannia, Bernard cominciò a considerare che le sue tendenze politiche erano ingenue, che il suo amore per Katharina era ingenuo, che le sue velleità di scrittore erano ingenue e che mai il mondo sarebbe stato alla sua portata. Mai avrebbe goduto della pienezza interiore del bene per un motivo molto semplice: la pace dell’anima non è altro che una invenzione.  

   Era nato in una epoca turbolenta, in un momento della storia in cui si affrontavano nuovamente, con rinnovata virulenza, i princípi del Bene e del Male. Ed egli si sentiva posseduto da una forza strana che non poteva tradursi in nessun tipo di vittoria personale: la forza di non poter fuggire quel momento, la forza di sapere che stava perdendo la partita e, nonostante ciò, doveva continuare a giocarla. In breve: la forza d’imbarcarsi, nel febbraio del 1939, per Ceylon, invece di rischiare la vita e correre nell’inferno austriaco per morire, forse bruciato dalle fiamme d’una terrible ingiustizia umana, accanto alla donna che amava.

   L’attendeva un lungo viaggio. Sarebbe passato per il sud della Sicilia, accanto a Selinunte, dalla spiaggia di sabbia dorata. Avrebbe fatto rotta su Port Said, e poi l’Oceano Indiano e Ceylon. Settimane di navigazione senza notizie. Non si stancò di fare più volte le stesse commissioni per lo zio, unico appiglio che gli restava tra il passato e il futuro. Si accomiatò dai suoi come se fosse il prolungamento di un unico sentimento di angoscia. Per la prima volta da quel triste giorno di Roma, della stazione Termini, ebbe, nel suo intimo, la chiara impressione che non avrebbe mai più rivisto Katharina. Si chiese anche come fosse possibile continuare a vivere. Il fatto è che a ventisette anni ancora non sapeva che, molto spesso, è la nostra stessa vita la trappola e la menzogna.

XXII

   Fecero scalo a Malta, nel porto della Valletta. Solo alcune ore. La Sicilia, per così dire, si poteva toccare. Ebbe la tentazione di telefonare a Vito Piccioni per dirgli… Per dirgli, cosa? I legami col passato s’attenuavano a poco a poco e Licodia Eubea non era più il punto culminante del pellegrinaggio ma, comunque, un gradino dell’ascesa. A suo tempo, un gradino importante. Riandarci adesso sarebbe stato però come discendere la scala. Telefonò a Londra, allo zio Arnold, ma non c’erano notizie. In ogni caso, aumentava il pessimismo generale. 

   Era certo che la gente voleva la pace, ma non sembrava che la politica conciliatrice di Chamberlain servisse a conseguirla. Tutto il contrario: come in un gioco risaputo, a ogni concessione faceva seguito una nuova richiesta. Bernard pensava ancora all’occasione perduta. Se fosse stato eletto deputato avrebbe fatto sentire la sua voce alla Camera dei Comuni. Di certo avrebbe rispettato i diritti delle persone, ma le avrebbe anche invitate a partecipare attivamente al recupero dell’orgoglio nazionale. Sapeva che nelle stesse fila del partito conservatore che stava al potere, c’era una corrente ostile al primo ministro. Questa riteneva che il lemma della pace a qualsiasi prezzo di Chamberlain, avrebbe fatto perdere la pace e anche l’onore.

   La vita a bordo era d’una monotonia opprimente. Può essere che il suo umore non fosse il più adeguato per conversare con gli altri passeggeri, quasi tutti commercianti che cercavano contatti utili con le colonie, oppure coloni che facevano ritorno da Londra ai loro possedimenti. Alcuni di loro viaggiavano con le mogli, in genere signore altezzose, che non perdevano occasione per evidenziare la loro personalità e la differenza di classe che intercorreva tra loro, facenti parte del The Corona Club, e tutte le altre donne del mondo. Brevi  dialoghi insignificanti all’ora dei pasti, qualche scambio di opinioni nel salone e, di tanto in tanto, argomenti di maggiore importanza dibattuti con il capitano, il quale simpatizzava con i punti di vista di Bernard e prevedeva per lui un futuro pieno di difficoltà a Kandy.

   -Colombo è una città relativamente tranquilla. Nonostante sia la capitale dell’ isola, o forse proprio per questo, i possibili tentativi d’insurrezione non sono poi tanto evidenti. Kandy è diversa, più addentrata nella foresta, può essere soggetta a delle infiltrazioni dal nord, da Mannar per esempio.

   -Sono luoghi molto distanti tra loro!

   -Certo, ma la vicinanza con l’India fa di Mannar il punto ideale per scappare verso il continente.

   -Infiltrare, scappare, ma non sono due cose opposte?

   -Forse lo sono, ma sarà lei a doverlo scoprire. Non so cosa possono averle detto i suoi superiori, conosco però l’isola abbastanza bene e sono sicuro che i problemi non le mancheranno, e il numero dei militari e degli agenti di polizia per soffocarli o controllarli è esiguo.

   -A quali problemi si riferisce?

   -Primo, gli indipendentisti, molto attivi da circa otto anni. Sanno quanto accade in India, conoscono a fondo la figura di Gandhi e vogliono porsi in sincronia con il nazionalismo del Mahatma. Poi, c’è la mano d’opera mal pagata, gente impegnata nei raccolti, operai delle fattorie che pretendono miglioramenti sociali e che oggi, per comodità, chiamiamo tutti comunisti. Questi guardano alla Cina di Mao Zedong. E non dimentichi la rivalità che esiste tra due etnie inconciliabili, la singalese e la tamil. Dura da secoli ed è altrettanto preoccupante di quella che in India oppone indù e musulmani. Infine, la delinquenza comune: violazioni, furti, assassini, delitti che nell’isola possono acquistare speciale gravità per un problema di cui nessuno vuol parlare, ma che esiste: il razzismo. I delinquenti devono essere sempre indigeni. È molto difficile, per non dire impossibile, processare e condannare un bianco che abbia commesso un’ingiustizia ai danni di un singalese. Se l’indiziato è invece un singalese, i bianchi esercitano ogni tipo di pressione affinché sia condannato, anche in mancanza di prove evidenti o sufficienti. Come vede, non la mandano a Ceylon a trascorrere precisamente delle vacanze.

   La nave -un mercantile che faceva la rotta dell’Oceano Indiano- sembrava non aver troppa fretta o, se l’aveva, non era nelle condizioni di poterla soddisfare. Dopo Malta, aveva gettato l’ancora a Creta e a Cipro, prima di fare rotta per il canale di Suez. Un pomeriggio, mentre stavano navigando nel Mar Rosso, il capitano e Bernard prendevano il tè sul ponte di comando, entrò il telegrafista.

    -Signore, ho appena ricevuto un messaggio urgente.

   E dette un’occhiata a Bernard, come se la sua presenza fosse inopportuna.

   -Parli,- ordinò il capitano -è un ufficiale.

   -È in cifra. Ci ordinano di navigare a tutta macchina fino a Bombay e di osservare le massime precauzioni.

   -Per quale motivo?

   -La Germania non ha rispettato gli accordi di Monaco e ha appena invaso quanto resta della Cecoslovacchia.

   -E così è la guerra.  

   -È quanto si teme, signore.

   Trascorsero le ore, ma la guerra non esplose. La Gran Bretagna e la Francia preferirono ancora la via dell’umiliazione. A Bombay fecero uno scalo relativamente lungo: carico e scarico di merci, cambio di passeggeri. A Bernard, che non si era mai mosso dall’Europa e il cui massimo esempio di cultura diversa dalla sua era stata l’esperienza siciliana, quella “porta dell’India” lo impressionò, e non solo per la diversità di razza. Tranne l’inglese, utilizzato come lingua di conversazione, tutto il resto era differente: clima, vestiti, vegetazione, odori, cibi, edifici. Gli occhi di un occidentale avvertivano una subitanea sensazione di caos. Era, però, un caos d’una vitalità eccezionale, come fosse stato concepito da gente che aveva un’altra cognizione dell’ordine.

   Fece sfilare nella sua memoria i cliché accumulati in anni di studio e di lettura. Accorsero tutti. Da Clive, che aveva iniziato la costruzione dell’Impero, a Disraeli, che lo aveva consolidato e ingrandito; dalla regina Vittoria, che per prima si fregiò del titolo di imperatrice dell’India, a Kipling, che dal punto di vista del letterato, aveva lodato il sistema, basti pensare all’eco che il cinema aveva concesso a film d’esaltazione del tipo di Live of a Bengal Lancer.

   E mentre si spostava, fisicamente, da un continente a un altro, stava realizzando anche una specie di viaggio mentale: a poco a poco e senza allontanarsi dai problemi dell’Europa, analizzava questi ultimi anche da un punto di vista asiatico. L’innegabile relazione di interessi e di postulati tra il Giappone e la Germania obbligava a considerare la strategia militare, in caso di guerra futura, sotto una prospettiva completamente nuova. Il suo cuore e il suo pensiero volevano rimanere ancorati all’Austria, ma il suo dovere e un’altra parte del suo pensiero, non meno  vitale dell’amore, l’obbligavano a vivere in quell’ isola di Ceylon, dove era appena giunto.

   A Colombo s’accomiatò dal capitano della nave, che l’aveva orientato non poco sulla situazione locale e aiutato a sopportare le tediose ore di navigazione. Il giorno prima d’arrivare in porto avevano telegrafato a Kandy, così che quando sbarcò, c’era già ad attenderlo una Bentley del comando, guidata da un sergente, un uomo d’età matura, che avrebbe potuto fare l’attore in qualche film: volto rossiccio, molto lentiginoso e mustacchi che sembravano fatti di filamenti di pannocchia. Si chiamava David Hamilton ed era di discendenza scozzese.

   Dopo aver scaricato il bagaglio, il sergente gli chiese se desiderava partire subito per Kandy o trascorrere alcune ore a Colombo.

   -C’è qualche motivo per restare?

   -Me l’ha suggerito il comandante, signore. Il passaggio delle consegne si farà solo fra tre giorni. Per l’atto ufficiale, il comandante ha invitato alcuni membri della colonia. In questo tipo di cerimonia alle quali assistono dei borghesi, gli ufficiali di grado pari al suo non sogliono indossare l’uniforme, ma un comune smoking con giacca bianca, fascia, le decorazioni e lo spadino, simbolo della sua autorità. Lo spadino e la fascia l’attendono a Kandy, signore. Per il resto, il capitano ha pensato che, nel caso non li avesse portati con sé, potremmo forse far visita al nostro sarto di Colombo. 

   -Temo che abbia ragione il comandante, sergente. Nessuno a Londra mi ha parlato di queste abitudini.

   -È logico, signore.

   Si recarono dal sarto, il quale promise di mandare in tempo i vestiti.

   -E questo passaggio di consegne?- chiese Bernard, mentre si dirigevano a Kandy.

   -Non spetta a me risponderle, signore.

   -Ma lo puoi fare?

   -Certo.

   -Dimmelo, dunque.

   -La situazione internazionale è cambiata in pochi giorni. Le autorità prevedono che Hong Kong diventerà una enclave problematica: armi, spionaggio, oppio… Non si sa dove finisca il compito dei militari e cominci quello della polizia?

   -E il comandante?

   -È stato destinato a Hong Kong.

   -Così, io…

   -Lei sarà la massima autorità a Kandy.

   -Che bel programma!- esclamò Bernard.

   -Scusi la franchezza, ma questa è la prima volta che viene in Asia?

   -Sì.

   -È un po’ preoccupato, vero?

   -Direi abbastanza.

   -Non si preoccupi. Troverà uomini disciplinati e con esperienza.

   -Quanti?

   -Dodici: quattro britannici e otto singalesi.

   -Di fiducia?

   -Assoluta.

   -E i coloni?

   -Non posso giudicare, è gente d’alto rango.

   -Insopportabili?

   -No, non esattamente.

   -E allora?

   -Ha mai provato a miscelare l’olio con l’aceto, signore?

   -Non si può.

   -Io sono l’aceto, capisce?

   Bernard si ricordò della sua ascendenza operaia, le umiliazioni che aveva dovuto subire a Cambridge, l’insolenza della classe dominante, spesso rappresentata da gente corrotta e decadente, e comprese quanto il sergente voleva dargli a intendere.

   -Stiamo per arrivare a Kandy, signore. Il comandante mi aveva dato l’ordine di condurla prima in quella che sarà la sua casa. Desidera che lei si riposi e domani mattina, alle nove, passerà a prenderla per andare assieme in ufficio.

   Avevano attraversato un paesaggio meraviglioso e l’arrivo a Kandy offrì loro scorci d’eccezione. Bernard, però, ebbe unicamente il tempo d’intravedere l’incanto di un lago con al centro un palazzetto e vedere come la macchina imboccava i viali di una collina trasformata  in giardino, sulla quale si alzava un gruppo di bungalow residenziali, circondati dalle tipiche verande. Il sergente si fermò davanti a uno di essi.

   -Siamo arrivati, signore.

   Suonò il clacson un paio di volte e subito apparvero due giovani domestici e una donna sulla cinquantina, tutti e tre indigeni a giudicare dal colore scuro azzurrognolo della loro pelle.

   -Questi sono i suoi domestici. Lei è la cuoca, una vedova. Il ragazzo più giovane è suo figlio.

   Tra cordiali saluti di benvenuto e sorrisi che mostravano denti bianchissimi, cominciarono a scaricare le valigie dalla macchina e a portarle in casa.

   -È brava gente, anche se si inclinano al piccolo furto e alla bugia. Li deve saper dominare, e perdoni la franchezza, se è troppo severo, l’abbandoneranno; se è troppo tollerante, le mancheranno di rispetto.

   -E chi li paga?

   -Lei. Il comandante le spiegherà ogni cosa. Ma le posso anticipare che qui c’è l’abitudine di assegnarci, oltre alla paga, una quantità di denaro da spendere per l’alloggio, il servizio,  e altre spese del genere cui dobbiamo però dar conto.

   -Anche lei?

   -Sì, signore. Ma io non abito in un bungalow.

   Prima d’accomiatarsi, il sergente mostrò a Bernard le varie stanze della sua nuova dimora ed aggiunse:

   -La macchina con la quale siamo venuti è quella che le spetta. Quella privata, per intenderci. In servizio, soprattutto se deve fare spostamenti lunghi, ne userà un’altra più adatta. Blindata, signore.

   Era un chiaro avvertimento.

   Quando se ne fu andato il sergente, giù per il viale, Bernard ebbe la certezza d’essere arrivato a un punto di partenza per la sua nuova vita: lì sarebbe iniziato un nuovo corso. Passò, da solo, da una camera all’altra, osservò quella specie di lusso esotico dell’arredamento, i mobili dal design straordinario, i tessuti dai colori inconcepibili, le camere spaziose. Cercava di vedere tutto con gli occhi di Katharina: avrebbe potuto essere la loro casa. Di colpo, era passato dalle privazioni di Beaconsfield o dalla vita modesta siciliana a una sorte di privilegiata posizione sociale: il bungalow, la macchina, lo smoking, la paga, i complimenti, i domestici, l’autorità. Le circostanze lo facevano sentire importante e riteneva anche che lui sarebbe stato ben accolto da quella aristocrazia locale che il sergente detestava. Ma, a che gli sarebbe servito? 

   Cenò con poco appetito, e notò il cambiamento. A bordo, il cibo conservava ancora un po’ il gusto britannico. Ora non più. Verdure mezze crude o cotte al vapore; salse sconosciute, insopportabili per quanto erano piccanti, che si potevano tuttavia temperare con del cocco grattugiato; pollo con riso; birra passabile e, infine, uno straordinario assortimento di frutta dall’aroma appagante: banane, ananassi, manghi, papaie, mangostani, rambotani.

   L’indomani si alzò di buon ora. Fece il giro della veranda della casa, s’estasiò ancora per il paesaggio e scoprì angoli di singolare bellezza nel giardino. Fu preso, di nuovo, dalla nostalgia del bene perduto. Poi, tenne una breve riunione con i domestici e la cuoca, uno scambio d’impressioni sul funzionamento della casa. Si riservò di comunicare le sue disposizioni di massima, non appena avrebbe preso possesso della carica e avrebbe conosciuto meglio l’andamento domestico che l’attendeva.

   Alle nove in punto lo venne a prendere il comandante. Era un uomo affabile, sulla sessantina, basso, grassoccio, un po’ calvo, con baffi quadrati e folti che non gli stavano bene. Sembrava nervoso. Aveva un tic alla palpebra dell’ occhio sinistro che si muoveva di continuo, senza che l’interessato se ne avedesse. Cominciava molte frasi, ma ne finiva ben poche. Dava l’impressione di non trovarsi mai al posto dove avrebbe dovuto essere, da qui l’eccessiva fretta d’andarsene.

   -Mr. Bernard Quayle? Sì, certo… Lei… Una schioppetata, vero? Il sergente me ne ha già parlato… Tutto solo, ma non creda… Ed io a Hong Kong. Sono sposato, sa? E figlie. Le donne… che ci vuol fare! Vuole scendere, eh? Vuole scendere. La macchina… niente, la mia. Eh! Ora, comprende? Sono cinque minuti.

   -Ci sono novità dall’Europa?- osò chiedere Bernard.

   -Se ne scordi! Da là, nulla! Ordini, soltanto. Coraggio! Vattene a Hong Kong! Quindici anni a Ceylon. Come se nulla fosse! Europa? Se si riferisce alla guerra, ancora niente. Le colonie! Dio mio le colonie! Sapranno loro ciò che fanno. Oh sì! Certo che lo sapranno…

   Giunsero all’ufficio. Fece entrare i poliziotti di servizio per presentarli al nuovo capitano. Il suo nervosismo lasciò il posto a una inaspettata sicurezza. Ricordava quelle persone che balbettano in una conversazione normale, ma che si esprimono senza titubanze quando leggono un testo, o recitano a memoria. Poi, visitarono i diversi locali: dalla sala delle riunioni, arredata in stile vittoriano, con lampade di cristallo e tendaggi di velluto, alle prigioni, abbastanza presentabili, considerato lo stato penoso in cui si trovavano.     

   -Mi pare che il nostro sergente, eh? Lei lo sa già: dopodomani. Pasticcini e quel che segue: porto, tè, succhi di frutta… Sa ballare? Fonografo, cose d’una volta… un valzer… Ci sono signore. Lei, cavaliere sempre. Sono così. Lo fanno per ossequiarla. E lei gentile, sorridente… Smoking. Adesso le darò la fascia e lo spadino. È giovane, lei. Faccia attenzione, ci sono belle ragazze.

   I primi tre giorni passarono volando. Non avrebbe mai immaginato un lavoro così complesso e che richiedesse tante doti. Per essere comandante di quel posto, bisognava possedere capacità di maestro di cerimonia, di diplomatico, di polizia, di psicologo, d’atleta specialista in diverse discipline, di giocatore di bridge e di cricket. Per fortuna, aveva l’impressione di poter contare su dei subalterni efficienti, soprattutto sul sergente Hamilton.

   Con questi pensieri salì al suo bungalow quel sabato pomeriggio, si tolse l’uniforme e indossò il nuovo smoking bianco, si mise la fascia, aiutato da uno dei domestici, si cinse la piccola spada alla vita, si guardò in un grande specchio e giunse alla conclusione che se quello che s’aspettavano da lui era un aspetto decoroso, forse l’aveva ottenuto. Poi, scese in paese.

   Quando giunsero al comando, vide i poliziotti del corpo di guardia allineati per il rituale saluto d’onore e, quando entrò nel salone, fu sorpreso dai caldi applausi con cui fu ricevuto dai componenti in vista della colonia, mentre dall’altoparlante a tromba del fonografo uscivano le note del God save the King.

XXIII

   Il grande salone era uno splendore. La luce elettrica dei lampadari e delle applique, un po’ giallognola, intonava con il rosso oscuro dei tendaggi. Su una grande tavola, addossata a un angolo, c’erano pasticcini e bibite. In un altro angolo, un volontario azionava il fonografo. Sedie, poltrone e sgabelli di fattura diversa assicuravano il riposo degli invitati. Il centro del locale era stato vuotato per permettere di ballare.

   I presenti erano eterogenei. C’era il comandante con la sua famiglia, il sergente, qualche poliziotto venuto appositamente da Colombo e una mezza dozzina di militari, ufficiali della guarnigione di Kandy. Non mancavano neppure dei rappresentanti dell’autorità locale, commercianti, esportatori e, soprattutto, membri della colonia. Per lo più latifondisti che avevano le proprietà molto lontane dalla città, enormi piantagioni di tè, di caffè, di hevee, di cocco che si estendevano per Madawala, Teldeniya, Maliboda e Nuwara Eliya, sugli scoscesi versanti di colline accidentate, o sulle rive del Mahaweli.      

   Vestivano con quella naturale eleganza che solo può dare la tradizione. Non sembravano coltivatori, ma rappresentanti d’una nobiltà molto elevata che, per svago, come Maria Antonietta al Petit Trianon, giocavano a fare gli agricoltori. Le signore, soprattutto, sfoggiavano toilette che non avrebbero mai indossato le pari loro in Inghilterra: stoffe vaporose dai colori delicati, mezzi guanti all’uncinetto provenienti dalla Cina, scarpe di marocchino, mentre alcune mogli dei notabili locali sfoggiavano l’audace sontuosità dei sari blu pavone o verde bottiglia, ricamati con fili d’argento o d’oro.

   Galleggiava per l’aria un profumo alquanto insidioso, una mescolanza di cipria, patchouli e sandalo, forse indispensabile in un Paese il cui clima caldo e umido, favoriva una sensuale decomposizione della flora e accentuava le secrezioni corporali dei presenti, senza distinzione di lignaggio. Tutto faceva pensare agli ambienti delle serre, dove sembra che si accentuino le naturali trasformazioni della materia.

   Bernard fu presentato a quasi tutti. I colleghi lo trattavano con una leggera aria di superiorità; i nativi, adulandolo in modo vago, ma eccessivo. I membri della colonia avevano comportamenti diversi: alcuni, facevano intendere che una presentazione formale non era certo sufficiente ad aprirgli le porte del loro circolo; altri, lo invitavano a visitare le loro proprietà. 

   -Quando andiamo a Kandy, alloggiamo al Queen’s Hotel. Tradizionale e confortevole-, gli spiegava un signore sulla cinquantina, un po’ impettito, che sfoggiava un monocolo. -È il più antico del paese, è quasi centenario. Le dirò un particolare  curioso, signor…

   -Quayle. Bernard Quayle.

   -Le dirò un particolare curioso, signor Quayle: una delle prime persone che hanno diretto quell’albergo era figlio di Sir Hudson Low.

   -Perdoni, ma…

   -Ah!, questa gioventù! Sir Hudson Low è stato il custode di Napoleone a Santa Elena.

   Dovette intrattenersi un po’ con tutti e conversare con ogni gruppetto su argomenti scelti da loro. In pochi minuti fu obbligato a passare dalla difficoltà dell’esportazione del tè, alla politica internazionale. Doveva dire la sua su tutto, sull’ultima moda femminile di Londra, sull’eleganza del valzer e sulla volgarità del fox-trot.

   -Lei, giovanotto, deve far presente a quelli di Londra di ricordarsi dei fatti di Boston. Cosa indusse all’indipendenza le colonie americane? L’eccessiva gabella sul tè. Sul tè, signor mio! E cosa successe? Cosa significa la Boston Tea-party, per lei? Non se lo ricordano più ai Comuni?

   -Alcune bombe su Berlino, e tutto sarà finito. Se non liquidiamo questo Hitler, crollerà il commercio coloniale. Lo dobbiamo fare adesso, mentre siamo ancora la prima potenza mondiale.

   -Io ricevo da Londra una rivista di moda, cosa crede? Tuttavia penso che noi, le signore di Ceylon, sappiamo adeguarci meglio alla signorilità dei nostri antenati. Dalle fotografie, vedo ragazze che, a giudicare dal loro modo di vestire, non si possono certo dire signorine.

   -I balli moderni non sono eleganti. E la musica? Rumore, e basta. Dove sono i violini d’un tempo, così romantici? Io conservo ancora il mio primo carnet di ballo. Sono trascorsi molti anni, lo so bene. Diciotto, ne avevo! Come era bello… i valzer, la polka, i lancieri, la mazurca…

   Finché il comandante l’avvertì:

   -Ci sono delle ragazze… Lei un ballo… o più… Quello che alloggia al Queen’s Hotel… la figlia, voglio dire. Vera, carina, gliela presenterò.

   Era indubbiamente una ragazza piacente a vedersi. Era alta, vestita con sobria eleganza, pettinata con naturalezza e priva di trucco pesante.

   -Signorina Vera Morley, il capitano Bernard Quayle. Io vado a Hong Kong. Sarà lui la massima autorità… a Kandy, certo… sia gentile.

   -E cosa dovrei fare?- replicò lei, con un sorriso di complicità di fronte allo scherzo innocente. 

   -Il capitano Quayle… desidera ballare, dice… Con lei… E io le chiedo… Sì? Adesso?

   -Per questa volta, accetto la mediazione. Ma in futuro non deve avere tanta paura di me, signor Quayle. In famiglia dicono che sono una brava ragazza.

   Risero un poco, e Bernard incominciò a ballare con quella sconosciuta. Era leggiadra, agile. Lui non era un gran che come ballerino e, proprio per questo, apprezzava l’adattabilità di lei, che non lo faceva sentire né impacciato né incapace.

   La sera trascorse con incredibile rapidità. La gente, gli argomenti, gli onori personali avevano fatto sì che le ore fossero leggere e gradevoli. Quando ormai sembrava che la riunione volgesse alla fine, Mr. Morley invitò Mr. Quayle a una cena leggera presso l’albergo da lui preferito, assieme alla moglie e alla figlia. Bernard cercò di dissuaderlo, ma un’occhiata del comandante gli fece capire che doveva accettare. Poi, in disparte, con i tentennamenti abituali e la consueta rottura delle frasi, gli disse:

   -Mr. Morley è un vero personaggio. Nipote di un pioniere. Ora, grandi piantagioni di tè, immense… È nato a Ceylon. E lui strade, ferrovie. “È il mio paese” dice. Non capisce i diritti dei nativi…

   -E la figlia?

   -Ha del talento. Per lei non ci sono solo vestiti e feste. Andranno d’accordo. Non è fatta per i giovani d’oggi. Ha troppa personalità. Pensa. E ciò non piace.

   La cena al Queen’s Hotel trascorse in assoluta normalità, quasi con troppa freddezza. Toccarono, a grandi linee, argomenti riguardanti un’Europa che stava vivendo momenti di tensione, e poi altri, più specifici, sui problemi dell’ isola. Ma, mentre i Morley non avevano difficoltà ad alludere al loro passato e al loro presente e spiegare, perfino, quali fossero le loro speranze furture, Bernard, invece, non fece alcun riferimento al suo soggiorno in Italia, né alle sue ambizioni politiche, né al suo amore per quella ragazza austriaca, dalla quale lo separavano una distanza di migliaia di chilometri e un arco di tempo di quasi diciotto mesi.

   Rimasero intesi che Bernard sarebbe andato, un giorno o l’altro, alla piantagione.

   -Può arrivarci comodamente in macchina- spiegava Mr. Morley. -È lontana, l’avverto. Se un giorno si decidesse di venire, sarà meglio che pernotti a casa nostra. La tenuta va percorsa a cavallo: è molto accidentata. Sa montare?

   -Me la cavo- sorrise Bernard.

   Trascorsero giorni e settimane senza che trovasse l’occasione per effettuare quella visita di cortesia. Gli avvenimenti politici non favorivano di certo l’ozio, le feste, le riunioni mondane. Alla fine di marzo giunse la notizia attesa e temuta: Hitler esigeva dalla Polonia l’annessione di Danzica. Quell’ errore di Versailles -la divisione della Prussia con un corridoio artificiale per dare alla Polonia uno sbocco al mare- doveva essere pagato a caro prezzo trenta anni dopo. In questa occasione, però, sembrava che il governo britannico non fosse più disposto a fare altre concessioni. Tuttavia, come se le potenze dell’Asse volessero farsi beffa di ogni minaccia, ai primi di aprile, pochi giorni dopo la vittoria di Franco nella guerra civile spagnola, l’Italia di Mussolini invadeva l’Albania. E non era assurdo ritenere che Franco avrebbe ripagato i favori ricevuti dalla Germania e dall’Italia, creando difficoltà alla marina britannica nello stretto di Gibilterra.

   Il comandante lasciò Kandy carico di preoccupazioni. Non c’era bisogno d’essere un indovino per prevedere ciò che sarebbe accaduto se la Gran Bretagna fosse entrata in guerra contro la Germania: il problema dell’indipendentismo coloniale avrebbe occupato un preoccupante primo posto. L’esercito, se voleva avere delle probabilità di vittoria, avrebbe dovuto aumentare i propri  effettivi  in territorio europeo. Ciò avrebbe allentato la pressione sui Paesi non sempre sottomessi di buon grado alla corona e, allo stesso tempo, avrebbe aumentato l’agressività di quelli che reclamavano l’indipendenza.

   Le riunioni a Colombo erano frequenti, con continui scambi d’opinione con ufficiali dell’India. E se l’esercito e la polizia presentivano ciò che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro, nelle file rivali s’osservava una graduale intesa tra nazionalisti, operai e contadini, come se i salariati sperassero d’ottenere un trattamento migliore da un Ceylon indipendente.

   Bernard continuava a mantenersi in contatto con la sua famiglia, ma le notizie dalla metropoli non erano affatto piacevoli. Il Paese era immerso in una paura collettiva e se, da una parte, capiva che bisognava fermare completamente l’espansionismo tedesco (non solo per l’instabilità territoriale che creava, ma anche per il modo con cui veniva portata a termine), dall’altra, questa stessa brutalità generava lo stupore che fiaccava la volontà della gente. C’era bisogno di un politico che  svegliasse il Paese -missione da lui tante volte desiderata- e non un capo di governo così nefasto come quel Chamberlain, rappresentante massimo della debolezza storica.

   Era ancora preoccupato per Katharina, ma, di giorno in giorno, in maniera sempre  più sterile e inefficace. Le notizie provenienti dall’Austria e quelle che gli mandava lo zio, grazie ai suoi contatti ministeriali, erano sconfortanti. Le SS avevano iniziato una totale persecuzione non solo contro i nemici del regime, ma anche contro i  sospetti, gli intellettuali, i piccoli borghesi, i sacerdoti e, naturalmente, contro gli ebrei che venivano ufficialmente considerati colpevoli di tutti  i disastri tedeschi. “I campi di concentramento si moltiplicano -scriveva- e a quelli che già conoscevamo, quali Dachau e Mauthausen, bisogna aggiungere quelli di Oranienburg, di Buchenwald, di Gros-Rosen e di Neuengamme”. “Ho cercato -aggiungeva più oltre- di stabilire un nuovo contatto con Katharina, ma è stato tutto inutile”.       

   Alla fine di maggio i Morley gli fecero pervenire un invito per iscritto al quale ormai non poteva sottrarsi. Desideravano festeggiare l’arrivo nell’isola del decano dei Morley e davano una piccola festa nella loro casa, nella quale avrebbe trovato altri coloni vicini, molto simpatici, e che avrebbe dovuto necessariamente conoscere. Bernard mostrò il biglietto al sergente Hamilton e questi gli disse che non aveva scappatoie. Furono tre giorni veramente piacevoli, lontano dalle preoccupazioni quotidiane. La conversazione dei signori Morley si rivelava alquanto faticosa e quella degli ospiti di nessuna rilevanza. Comunque, quanto gli aveva detto il comandante circa la ragazza era vero: aveva del talento, aveva idee e le manifestava, a volte con totale disapprovazione delle persone anziane, sempre convinte che gli unici che sanno come funziona il mondo sono coloro che hanno oltrepassato la cinquantina.

   -Non posso capire né condividere l’attitudine di alcuni estremisti -disse una sera, conversando con gli uomini in modo poco usuale- che pretendono di cacciarci da un Paese che è il nostro. Qui siamo nati, qui abbiamo lavorato, l’abbiamo fatto diventare ciò che è oggi. Abbiamo insegnato loro l’agricoltura razionale, abbiamo rinnovato il loro sistema di irrigazione che era inefficiente, abbiamo introdotto la coltivazione del caffè, del tè e dell’albero della gomma, abbiamo esteso le piantagioni d’alberi da cocco, li abbiamo curati dalla malaria ed abbiamo recuperato per loro le vecchie città invase dalla giungla, li abbiamo dotati di musei, di comunicazioni, di elettricità, di medicina, di cultura. E se dispongono di un sistema di governo accettabile, a chi lo devono? O forse dobbiamo dimenticare che l’ultimo monarca di Kandy, non più di un secolo fa, fu uno degli uomini più crudeli e sanguinari della storia? E ci vogliono cacciare via? Credo che bisognerebbe cacciare gli estremisti delle bombe e dei sabotaggi, quelli che fuggono in India quando si vedono con le spalle al  muro. O non è così Mr. Quayle? 

   Bernard condivideva quei punti di vista. Continuava a credere nel governo autocratico e le incertezze del parlamento inglese gli stavano dando ragione.

   -Fondamentalmente concordo con lei, Miss Morley. Ma chi parla è l’invitato, non il poliziotto. Si tratta, quindi, d’un punto di vista personale. In realtà detesto le dittature per quello che hanno di illecito, soprattutto per le loro persecuzioni e per lo sterminio criminale degli oppositori. Tuttavia, credo che siamo giunti a un punto in cui è diventata ugualmente insopportabile la debolezza delle democrazie.  

   Dopo quel lungo fine settimana, passarono di nuovo molti giorni senza che i due si rivedessero, finché avvenne un fatto doloroso. La madre di Vera si ammalò e fu internata nell’ospedale di Kandy. Mentre il marito era rimasto alla piantagione, la figlia aveva preso alloggio al Queen’s Hotel per stare vicino all’ammalata, alla quale fu diagnosticata una polmonite acuta. E Bernard l’accompagnò spesso, sia per confortarla nelle ore di scoraggiamento sia perché anche lui aveva bisogno di un po’ di tenerezza. Cominciarono ad uscire insieme e a consumare insieme i pasti, spesso al bungalow, in modo che, più d’una volta, ricordò le ore trascorse con Katharina nella casa di via Mugnos, quando condividevano cibo e inquietudini.

   Una sera, dopo avere sbrigato le incombenze della giornata, mentre si preparava a rincasare per trovarvi il necessario riposo, ricevette un avviso dall’ospedale: la signora Morley era peggiorata improvvisamente. Sapendo che Vera si trovava sola a Kandy e vedendo che era quasi notte e, pertanto, troppo tardi per sperare in un arrivo rapido del padre, si diresse all’ospedale pronto ad assumere la responsabilità della situazione fin dove gli fosse possibile e permesso. Fu una notte angosciosa d’alti e bassi continui, di febbri elevate e brividi quasi mortali.

   Quando cominciò ad albeggiare, venne di nuovo il medico. Auscultò la signora, le misurò la febbre e disse:

   -Mi pare che possiamo essere ottimisti. La malata ha superato la crisi.

   Quando il medico uscì dalla camera rimasero soli di fronte all’ammalata che già respirava dolcemente. Erano stanchi, febbricitanti, senza il controllo delle loro reazioni né delle loro emozioni. E fu allora che lei si lanciò verso di lui, lo abbracciò  quasi con violenza e si mise a singhiozzare sul suo petto, mentre sospirava:

   -Oh, Bernard, Bernard…

   Gli giunse l’esalazione di un profumo molto intimo, una mescolanza di sudore e d’acqua di colonia, che proveniva dalla fronte, che fluiva dalle ascelle, che saliva dalla scollatura. Sentiva il tepore di quel corpo che s’appiccicava al suo, lo sfioramento dei capelli scapigliati sotto il suo mento, la turgidezza dei seni. E, quasi senza rendersene conto, eccitato dal contatto e intenerito dalla mancanza di difesa da lei mostrata, mormorò parole di conforto e cominciò a baciarla sul collo con molta tenerezza, abbracciandola anche con un insperato e istintivo trasporto. Lei, poi, volse un po’ il volto e gli dette un bacio sulla bocca.

XXIV

   La signora Morley si ristabilì in fretta, e quel bacio inquietante non trovò più scenari né circostanze propizie per essere ripetuto. Tutti e due facevano finta che si fosse trattato di un momento di nervosismo, e non lo ricordavano nelle loro conversazioni. Diradarono i loro contatti per un periodo di tempo abbastanza lungo. Quando ripresero a frequentarsi, lo fecero  come due amici che condividevano piacevolmente tempo e idee.

   A giugno, arrivò a Kandy un nuovo poliziotto. Veniva da Jaffna, era giovane, e sarebbe morto qualche mese dopo di peritonite. Di grado inferiore a Bernard, proveniva da quel remoto distaccamento del nord per fargli da aiutante. Aveva una grande esperienza, era molto volenteroso, e ciò permise a Bernard di cominciare a godersi un po’ di calma. Quando le circostanze lo permettevano, gli affidava il comando e così poteva dedicare il tempo libero a visitare dei posti incantevoli che lo soggiogavano: Sigiriya, Negombo, Sri Pada, Peradeniya, Batticaloa, templi, fiori, pellegrini, elefanti, danze, monaci, pesci, ruscelli, offerte.

   A volte, se la gita era breve, la faceva con Vera e qualche collega. Evitavano d’ andare soli. Lui aveva già sopportato alcune benevoli insinuazioni del sergente Hamilton e lei le interrogazioni dei genitori desiderosi di sapere “quali sono le intenzioni di questo ragazzo”. E non si opponevano affatto. Avevano spesso pensato che con quella figlia unica, così poco sottomessa alle regole della guerra dei sessi, sarebbe finita la loro discendenza familiare. Ora, invece, guardavano con speranza le nuove e promettenti amicizie. Lui era giovane, celibe. Non era fidanzato, era laureato a Cambridge e nipote di un chirurgo molto stimato dai politici. Si sarebbe senz’altro reso conto che trovare a Kandy una ragazza della bellezza e il talento di Vera e con una brillante posizione economica, era per lui davvero una grande fortuna.

   Il monsone del sud-ovest portava le consuete piogge, che duravano fino alla fine di agosto. A volte, erano torrenziali, ma sempre di breve durata. Poi, il paesaggio acquistava maggiore nitidezza, come se i contorni di tutto ciò che conteneva -alberi, rocce, pagode, fiori- fossero ritagliati da una forza incisiva. In simili momenti, era meraviglioso trovarsi in mezzo alla foresta, sentire il battere furioso della pioggia sulle foglie delle corife e delle hevee o sulla superficie di un lago. Poi, con un po’ di fortuna, il cielo poteva essere solcato da un arcobaleno che sembrava più brillante e luminoso che in qualsiasi altra parte del mondo. Di ritorno a Kandy, dalla macchina, si vedeva la fettuccia di strada vivacizzarsi con il profilo dei contadini che portavano il loro carico in città, trasportandolo su docili elefanti.

   Di colpo, però, tutto finì: la bellezza, i romantici idilli, le riunioni oziose con i proprietari delle piantagioni, i balli, le feste che non avevano bisogno di pretesti per essere organizzate. Quando più esuberante era la natura, quando la pioggia e il colore avevano portato alla massima opulenza i frutti della terra e tutto sembrava creato per il benessere dell’uomo, il telegrafo portò la notizia: la Germania aveva iniziato a invadere la Polonia.

   Quarantotto ore più tardi, la Gran Bretagna e la Francia dichiaravano la guerra all’agressore. Il vicerè dell’India aderì immediatamente a quella decisione, ma non consultò i capi dei partiti: la Lega Musulmana di Alì Jinnah fu d’accordo e si schierò con gli alleati, mentre il Congresso Nazionale Indù di Gandhi si dichiarò pacifista, e accentuò il suo indipendentismo.

   Ceylon rispecchiava quanto avveniva nel continente. In poche settimane, l’attività dei nazionalisti si era fatta sempre più tangibile, come se con gli atti terroristici volessero forzare futuri negoziati.

   A Kandy giunse notizia di una banda armata che aveva messo degli esplosivi sulla ferrovia che passava per Kurunegala, e gli stessi uomini avevano incendiato anche una fattoria nelle vicinanze. I coloni, inquieti, pretesero dalle autorità rapide rappresaglie e Bernard organizzò un distaccamento armato per una battuta nella giungla. Il padre di Vera era molto soddisfatto per la decisione ed elogiava il gesto di quel giovanotto, forse temerario, ma esemplare.

   La ragazza non lo vedeva più con gli occhi di prima. Quei mesi d’apparente indifferenza avevano probabilmente attenuato in superficie i suoi sentimenti, ma ora che vedeva in quella missione necessaria un autentico pericolo per la vita del suo amico, dovette riconoscere che l’amicizia era uno stadio già superato e che, prima o poi, se avesse avuto ancora l’occasione per farlo, avrebbe dovuto chiarire la situazione. Quella parte della società che gravitava attorno a loro cominciava a dare per scontato il fidanzamento, benché non fosse ufficiale. Se non fosse stato vero, avrebbero dovuto smentirlo: loro erano infatti i primi a ricevere un pregiudizio dalla confusione.

   Tornò dai combattimenti di guerriglia con una amarezza nel cuore come non aveva mai provato: per la prima volta nella sua vita aveva ucciso un uomo. Era uno sconosciuto, un singalese forse sui trent’anni, mal vestito, povero tra i poveri, ma con una cartucciera alla cinta e un vecchio fucile sulla spalla. Avevano lasciato il cadavere al centro del villaggio più vicino, perché servisse d’esempio ai ribelli.

   I coloni lo accolsero come un eroe. Sembrava che con quella morte avesse donato agli altri un certo periodo di pace, ma il prezzo che lui aveva dovuto pagare era stato troppo elevato. Dopo quella fatidica giornata, cominciò a vedere il suo futuro come un errore. Si considerava suddito leale di Sua Maestà, ma pensava anche che quel nemico non voluto, quell’essere di cui non avrebbe mai conosciuto il nome, forse stava lottando per una causa che riteneva giusta.

   Accettò l’invito dei genitori di Vera e trascorse nella lussuosa proprietà un fine settimana di meritato riposo. Il lunedì, quando stava tornando a Kandy, Vera trovò un pretesto per fare il viaggio con lui. Partirono soli, nuovamente turbati, troppo deboli per reggere sulle loro spalle giovani il peso dei tanti errori del loro mondo, di un mondo nel quale erano nati, ma che non avevano costruito.

   La mattina era raggiante. Fermarono l’auto in un angolo della strada, fiancheggiata da una vegetazione lussureggiante. Scesero e presero a passeggiare affondando i piedi nel tappeto di fogliame. Il silenzio era rotto da alcune strida di animali, dal canto di qualche uccello, dal ruggito di alcune fiere. Era tutto straordinario, vivo, e ancora intatto.

   Si sedettero. Vera pose il capo sul grembo del giovanotto e lui cominciò a accarezzarla, a lasciare che la mano scivolasse nella scollatura. E lei si lasciò toccare i seni con quel va e vieni della mano. Si baciarono e si rotolarono sulle foglie. Non successe niect’altro: solo baci e carezze. Lui sentiva un peso grave sul cuore, come se avesse davanti a sé la spaventosa immagine dell’uomo che aveva crivellato con i colpi della sua pistola. Lei dovette intuire qualcosa, poiché contraccambiò le carezze, ma era come se le offrisse a un bambino bisognoso di sostegno e consolazione.

   Quando risalirono in macchina lui le disse:

   -Dovrò parlare con i tuoi genitori, e chiedere la tua mano…

   E benché lo dicesse in tono scherzoso, sapeva che l’ironia non era sincera, serviva solo a cancellare un reale turbamento.

   -Non temere, ti diranno di sì- rispose lei con gioia trionfante.

   Poi, i progetti avanzarono, lentamente, ma senza sosta. Bernard non incontrò troppe difficoltà per ottenere dai suoi superiori il permesso per contrarre matrimonio. I genitori della ragazza acconsentirono senza riserve e, malgrado la guerra in cui era impelagata la Gran Bretagna, la famiglia Morley volle dare alle nozze la pompa che spettava alla loro posizione sociale.

   Le notizie che giungevano dall’Europa non erano affatto soddisfacenti ma, in fin dei conti, si trattava solo di notizie, poiché l’isola non risentiva delle conseguenze materiali della conflagrazione e ancora godeva, nella sua relativa calma, di un benessere che in taluni momenti si poteva quasi considerare paradisiaco. La data delle nozze fu fissata per il diciotto maggio, e cadeva di sabato. Bernard lo comunicò alla sua famiglia, ben sapendo che nessuno dei suoi membri avrebbe potuto assistere  alla cerimonia. La risposta dei genitori fu esattamente quella che si aspettava: tanti auguri, vaghi consigli inutili e l’avviso che gli avevano spedito un regalo modesto, “poiché tutti stiamo passando momenti molto difficili”. La lettera dello zio fu più delicata, forse dolorosa. Non diceva gran che, oltre alle congratulazioni di rigore e all’invio di un assegno con una notevole somma di sterline. Ma… quelle frasi: “Suppongo che tu agisca in modo corretto. Di fatto, non abbiamo rivevuto nessuna notizia dall’Austria e la situazione attuale non è la più idonea per riceverne. La vita è dura, a volte. Vorrei che tu l’azzeccassi con questo tentativo di rifare la tua”.

   Si sposarono in Cattedrale. Nonostante i fiori che adornavano la chiesa, la bellezza della sposa con il suo vestito bianco, l’eleganza degli invitati, la disinvoltura di tanti signori rurali, l’arco di sciabole sotto il quale era passata la coppia all’ uscita dal tempio e i quattro bambini che reggevano lo strascico della sposa, si notava una inquietudine generale che nulla riusciva a sminuire.

   Il giorno 10, dopo una drammatica sessione ai Comuni, Neville Chamberlain si era dimesso da primo ministro e gli era succeduto il suo adirato accusatore, Winston Churchill. E questi, appena nominato, prese delle decisioni che davano l’idea delle dimensioni della tragedia: bisognava mettere su un gabinetto di guerra, bombardare la Germania e dire al popolo che era lecito promettere solo tre cose: sangue, sudore e lacrime.

   Il banchetto al Queen’s Hotel, i brindisi, gli scherzi, nulla servì a evitare che più di un invitato, a cominciare dallo sposo, pensasse più al telegrafo e alla radio che alla festa che li voleva riuniti. La coppia aveva deciso di fare il tradizionale viaggio di nozze, ma dovette addattarsi alle circostanze. Vera conosceva dell’Europa solo qualche posto dell’Inghilterra, dove aveva studiato da ragazza.

   -Peccato che ci sia la guerra!- esclamò. -Mi avrebbe fatto tanto piacere andare a Parigi o in Italia! Tu ci sei già stato, vero?

   Ma lui non se la sentiva di parlarne. E poiché la possibilità d’andare in Europa era stata scartata, prepararono un itinerario per il sud dell’India, consigliato dal signor Morley. 

   -Bisogna dire la verità- commentò un giorno Vera. -Ormai sono stanca di Ceylon e della sua gente! Prima viaggiavo senza timore, rispettata. Ora ho paura. I miei genitori e quelli che vivono come loro s’illudono di conservare per sempre i loro privilegi. Ma non sarà possibile, lo vedo.

   Bernard non la pensava così.

   -È la guerra che crea questo malessere, ma ne usciremo rafforzati. Il nostro Impero è l’unico capace di portare in ogni parte del mondo una libertà ordinata e, nello stesso tempo, offrire un sistema internazionale dotato di sufficiente equilibrio per sostenerlo, mi riferisco al Commonwealth.

   -Tu vedi con gli occhi di chi è appena arrivato. Finora abbiamo avuto il problema della rappresentanza delle minoranze nello State Council, con singalesi buddisti abbastanza moderati. Ma non dimenticare che, perfino loro, perorano la causa dell’indipendenza, anche in tempi lunghi. Poi ci sono i tamil. Tu vuoi fare il viaggio di nozze dalle parti di Madras, di Madurai, i loro luoghi di provenienza. Andiamoci, benone! E quando ci sarai, non limitarti a dire che sei inglese, aggiungi pure che fai parte della polizia coloniale di Ceylon. E vedrai il bel ricevimento che ci faranno! Sei un ingenuo. Conosci l’Impero dai libri, e da Cambridge. Quando avrai trascorso qualche anno a Ceylon, ti accorgerai qual è la realtà… Considera la nostra storia, anche solo quella di un secolo. Ti accorgerai che, negli ultimi tempi, abbiamo fatto solo concessioni; abbiamo perso la forza morale della colonizzazione, tanto che ora ci vergognamo del nostro potere.

   -Sono previste elezioni per l’anno prossimo. Non credo sia un fatto negativo permettere alle diverse etnie dell’isola di partecipare a una governo di coalizione.

   Nel progetto di Bernard di viaggiare attraverso il sud dell’India c’era la naturale curiosità di scoprire un mondo nuovo, insolito, profondamente diverso dal proprio. Inoltre, come poliziotto coloniale era sempre interessato a conoscere le circostanze e gli scenarii nei quali doveva muoversi.   

   -Se questa vita non ti piace, ti dovrai cercare un altro marito!-, aveva scherzato, poco prima di sposarsi.

   -Penso che aumenterai di grado e che un giorno o l’altro ce ne andremo da Ceylon per tornare in Inghilterra, dove avrai un lavoro importante. O così, o nell’azienda di mio padre. Sei giovane, ti aiuterò. Tu mettici l’impegno, al resto penserò io.

   Il detto, e il non detto fu chiaro già da quella sera, mentre si cambiavano d’abito nel bungalow di Bernard. Il sergente Hamilton li stava aspettando con la Bentley per accompagnarli fino a Colombo, dove si sarebbero imbarcati l’indomani per Trivandrum, città con buoni collegamenti ferroviari, per dare inizio al progettato viaggio di nozze.

   Il padre di Vera -in un modo che quasi mise in imbarazzo Bernard che disponeva di limitate entrate- volle occuparsi delle prenotazioni degli alberghi, dei biglietti ferroviari e delle altre eventuali spese. E lo fece da colono ricco: a Colombo scesero allo storico Galle Face, punto d’incontro del bel mondo britannico, dei ricevimenti in quel momento non programmati visto il tono generale. Nonostante le circostanze, cenarono in una sala da pranzo abbastanza frequentata.

   Poi, si ritirarono in camera. Avevano un balcone che s’affacciava sul mare e  sufficiente chiaro di luna per vedere l’accogliente lembo d’una spiaggia privata. Lui stava contemplandola, mentre Vera disfaceva la sua valigia e ne toglieva la biancheria di rito -una camicia da notte appositamente disegnata per accentuare le tentazioni del suo giovane corpo, desideroso d’essere posseduto-. Bernard si rese conto, per l’ennesima volta, che la forza della volontà non ha alcun potere per scacciare dalla mente i pensieri che vi si vogliono insediare. Durante la cerimonia del mattino, non aveva potuto evitare di scorgere Katharina sotto quei veli nuziali. E adesso che, davanti a lui, Vera si spogliava con la naturalezza che hanno certe donne quando sanno di non dovere più difendere il loro pudore, proprio adesso che lei si liberava dell’abito da sposa e lui vedeva emergere dalla massa dei merletti le cosce nude, in quello stesso momento credette di vedere le cosce di Katharina sulla spiaggia di Selinunte.

   Ora la spiaggia era lì, ai suoi piedi, una piccola spiaggia nel momento dell’effusione seminale, del grande affanno di fondersi insieme con la carne che si desidera…, ora lui pensava al corpo dell’altra, era come incrostato all’altra nel mare d’Italia, tra il calore secco della Sicilia, a consumare la sua notte di nozze in via Mugnos, con il giardino mediterraneo ai piedi del balcone, in mezzo a un paesaggio arroventato. Era lì, non in quella esuberanza tropicale, con quelle esalazioni dai mille profumi insidiosi, con tutta l’isola di Ceylon che traspirava una abominevole e quasi oscena sensualità simile alla frutta troppo profumata dei dolci o alla carne troppo turgida dell’aragosta gigante che si erano mangiati a cena. A Roma aveva perso per sempre un altro tipo di vita, sul marciapiede d’una assurda stazione, d’una stazione dove gli venne meno la forza di volontà per essere quello che avrebbe voluto essere: un uomo puro che offriva un amore puro.   

   Adesso c’era lì un’altra donna che lo reclamava e che aveva il diritto di farlo. Una donna che l’aspettava ai piedi del letto, desiderosa che le sbottonasse il vestito, vogliosa che scoprisse lentamente le pieghe più soavi della sua pelle umida, gli angoli più segreti della sua vergine anatomia. Lui seguì tutto il rituale: la spogliò, si spogliò, e provarono un momento di grande vergogna quando si contemplarono nudi ed eccitati. Fu lui a spengere la luce. Ma anche al buio -o forse proprio per il buio- quelle natiche, quei seni e quelle contorsioni addominali che si impadronivano di lui con saliva e gemiti erano di Katharina. Mentre toccava Vera, vedeva lo sgurdo sereno di Katharina. Era straordinario, e forse lo era proprio perché non aveva avuto mai il coraggio di far sua Katharina e il desiderio si era sublimato, si era mutato in ispirazione sublime di un’ora futura. E mentre sentiva la violenta agitazione dell’ultimo spasmo, e Vera Morley, la figlia orgogliosa e distante dei grandi coloni dell’isola, gemeva come una piccola cagna randagia, capì, in modo definitivo, cosa significasse avere l’anima distrutta.

   Vera, e lui stesso non ne conosceva le ragioni, non fu felice.

   Lui si alzò alle sei, come d’abitudine. Vera dormiva. Non la volle svegliare e scese in portineria per telefonare a Kandy. Non c’erano novità. Passeggiò un bel po’ per la spiaggia. Il mare era tranquillo. Solo un lieve alito mattutino, che alcuni ragazzini sfruttavano per far volare i loro magnifici aquiloni. Ritornato in camera, trovò Vera già vestita. Si baciarono, senza dirsi una parola. Rifecero le valigie, le chiusero e scesero a fare colazione. Poi presero un tassì per andare al molo.

   D’allora in poi, lui continuò ad adempiere ai propri obblighi maritali, e ad alzarsi alle sei. Facevano l’amore al buio. Alcuni mesi dopo Vera gli disse d’essere incinta.

   Nel frattempo, Mussolini aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, Hitler era sfilato per Parigi e la Luftwaffe aveva incominciato i bombardamenti che avrebbero portato alla “battaglia d’Inghilterra”. Il 7 settembre ebbero inizio gli attacchi su Londra che sarebbero durati, praticamente senza interruzione, sessantacinque notti. Ci furono migliaia di vittime. Una di esse fu lo zio Arnold, raggiunto dallo scoppio di una bomba mentre si dirigeva all’ospedale. Il bilancio, dopo un anno, era scoraggiante per gli alleati. E come una nube terribile il “nuovo ordine” proclamato dal Giappone sarebbe ben presto arrivato in Asia, nel sud-est asiatico. Fu firmato il patto di ferro tra Giappone, Germania e Italia, per stabilire la nuova spartizione della Terra, delle sue risorse e delle sue aree d’influenza. 

   Un giorno o l’altro, quindi, anche Ceylon avrebbe conosciuto gli attacchi aerei, e una nuova Kathleen, in gestazione nel grembo di Vera, si sarebbe spaventata per il fragore delle bombe e avrebbe cominciato a pensare a suo padre come a un eroe.

XXV

   Venne al mondo nel mese di marzo del 1941. Era una bambina. Il nome non fu neppure discusso.

   -Si chiamerà Kathleen- affermò Bernard.

   -Mia madre pensa…

   -Si chiamerà Kathleen, e non se ne parli più.

   Vera non aveva mai visto suo marito intestardirsi e ne fu sorpresa.

   -Perché?

   -Ho avuto una amica che si chiamava così. In Italia.

   -Italiana?

   -No, austriaca.

   -Comunque sia, era una nemica. Austriaci, tedeschi, italiani…

   -Non sai cosa dici.

   -La difendi troppo. Sei sicuro che fosse solo un’amica? Vorrei sapere cosa è successo laggiù, in Italia.

   -Taci, Vera, non essere volgare.

   Ma lei, amareggiata, aggiunse:

   -E dov’è ora la tua austriaca?

   -Deve essere morta in un campo di concentramento.

   Marito e moglie non tornarono a parlare mai più dei motivi per i quali la loro figlia si chiamava Kathleen.

   Fu la prima crepa ufficiale tra i due coniugi. Bernard scopriva, a poco a poco, che ciò che provava per Vera non era amore. Se ne rendeva conto pensando che anche se Katharina non fosse mai esistita, non si sarebbe ugualmente sentito appagato accanto a quella donna, sempre più lontana dalle cose dello spirito, e anche da qualcuna materiale. Lui, che ricordava con quale consonanza i suoi genitori condividevano i momenti difficili e il benessere, non poteva capire perché Vera, fin dal primo giorno, avesse voluto mantenere separati i loro conti correnti in banca. Per lui era umiliante, poteva infatti disporre solo del frutto del proprio lavoro. Aveva ricevuto un legato dallo zio Arnold, ma molto modesto. I genitori gli dissero che era morto quasi povero a causa della sua generosità verso i bisognosi. Vera, al contrario, basava il suo reddito sui proventi della fortuna paterna.

   Ma non si trattava solo di questo, era come infastidita dal lavoro del marito. Le piaceva che gli agenti si mettessero sull’attenti davanti a lui e che fosse il più attraente, quando, nelle feste, indossava l’uniforme di gala, o quando i nativi lo rispettavano e lo temevano. Ma non appena gli sfoggi terminavano e lui rincasava sporco e sudato da qualche spedizione nella giungla, oppure quando doveva trascorrere una notte fuori casa o alzarsi alle tre del mattino per un allarme al quartiere residenziale, lei lo vedeva nei panni di un domestico al servizio dei ricchi, quasi fosse una persona che la società pagava per mantenere  i privilegi di cui godeva. E quanto per lui era onore, amore al Paese e alla sua gente, tutto ciò che di sublime il povero Bernard Quayle, lo studente di Cambridge, tentava ancora di trovare nell’umile mestiere di poliziotto, nella bocca di lei si trasformava in oscuro lavoro senza prospettive.

   Nel dicembre di quello stesso anno i giapponesi attaccarono la base nordamericana di Pearl Harbor, nelle Hawaii. E ciò provocò l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Pochi giorni dopo, furono affondate due corazzate britanniche nelle acque della Malesia. In pochi mesi i giapponesi avevano occupato tutta l’Asia sud orientale ed erano penetrati nel nord della Birmania. Se il “nuovo ordine” d’Europa aveva comportato la sottomissione dei suoi singoli Paesi agli interessi della Germania, la “comprosperità della Grande Asia”, proposta dal Giappone, comportava un’analoga subordinazione delle nazioni asiatiche all’economia nipponica.

   All’inizio, i giapponesi avevano celato le loro intenzioni presentandosi come liberatori dei popoli colonizzati. Tale strategia fece aumentare le attività degli indipendentisti, e Ceylon non poteva certo essere una eccezione. Come in altri posti, si manifestò nell’isola una delle contraddizioni della guerra: gli eserciti che si dichiaravano liberatori bombardavano le popolazioni che volevano liberare.

   Le elezioni promesse venivano rinviate di anno in anno, ma, nel 1942, per la prima volta, lo “State Council” reclamò dal governo britannico lo status di dominium, con quanto ciò comportava di sovranità propria.

   Quando Kathleen cominciò a pronunciare le prime parole e a fare i primi passi, Vera lasciò il bungalow di Kandy e andò ad abitare nella piantagione dei genitori, fuggendo il marasma politico e il pericolo delle bombe. Lì ebbero inizio i lamenti. Il vecchio Morley intuiva le conseguenze che potevano derivare da quella situazione: non era possibile che la Gran Bretagna si erigesse a protettrice della libertà dei popoli e continuasse a mantenere le colonie sotto una occupazione non voluta. Era il culmine di un lungo processo storico, iniziato con l’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Il Canada aveva ottenuto l’autonomia nel secolo XIX. Seguì quella dell’Australia, della Nuova Zelanda e dell’Unione Sudafricana. Prima o poi, anche l’India, Ceylon e tutte le colonie avrebbero ottenuto l’aspirata libertà. 

   -E non ci resterà più nulla! Generazioni di sforzi, e ora verrà questa ciurma di fannulloni a godersi la ricchezza che abbiamo creato.

   Come se fosse un intruso senza diritto d’opinione, il punto di vista di Bernard non era mai richiesto. D’altra parte, tutte le teorie politiche che questi aveva elaborato quando viveva in Europa, gli venivano meno. Tutto quanto si sforzava di realizzare il corporativismo (evitare che lo Stato cadesse in mano ai partiti politici) non aveva più alcun senso. Se il sogno di Bernard era stato quello di vivere in una società retta da minoranze illuminate, adesso, nella colonia, lui lo aveva visto realizzarsi. Ma, come mai gli indigeni non accettavano i benefici di quella guida? Erano davvero tanto importanti i sentimenti di patria, d’etnia, di religione, da rendere inutili tutti gli sforzi di miglioramento del regime coloniale?

   Le concezioni di società erano radicalmente diverse. In quelle terre non vi era altra possibilità se non quella del dominio imposto con la forza:  la piccolissima minoranza bianca doveva essere ubbidita dall’immensa maggioranza di singalesi e tamil. Non essendo nato lì e non avendo nelle vene il sangue dei pionieri del seclo XVIII, Bernard mostrava più tolleranza verso gli indigeni di quanto i suoceri avrebbero desiderato: era gente che amava la sua terra, i suoi dei, e che celebrava, con danze e canzoni autoctone, le feste e i riti tradizionali.

   Fu allora che Vera cominciò a parlare dei Morley. Cercava, tra i rami dell’albero genealogico della sua famiglia, un qualche trisavolo  baronetto, o visconte, di cui potersi poi vantare. Si rifugiava in un passato nostalgico, come fanno quelli, e sono molti, che non riescono a scorgere un futuro glorioso. Forse non voleva ferire l’orgoglio di suo marito, sbarcato nell’isola tre o quattro anni prima, forse voleva solo allontanarlo da quella vita che, di giorno in giorno, a lei appariva sempre più  mediocre.

   -I Morley erano già importanti nel secolo XVII, sotto Carlo II. Loro erano ambiziosi, non se ne stavano in disparte, aspettando che qualcun altro risolvesse i loro problemi. I miei antenati e altri come loro hanno fatto Ceylon. I coloni hanno arricchito la corona, e ora i politici e i militari non sanno come affrontare la situazione. Dai le armi ai coloni, e lascia a loro il compito di difendere le proprietà  e le terre. Vedrai che in men che non si dica la faranno finita con questi ribelli, criminali irriconoscenti. Devi fare qualcosa. Il nostro futuro e quello della nostra figlia non devono dipendere dalla tua carriera. Non è il Segretario di Stato che deve sistemare la nostra vita! Con tutto il tempo che hai dedicato, senz’altro più del dovuto, avrebbero potuto promuoverti a comandante o, quanto meno, trasferirti a Colombo.

   Non capiva nulla dell’intimo stato d’animo del marito, un uomo di trent’anni, con una vita in cui le rinunce superavano i successi. Vera, gonfia di presunzione, non si rendeva conto fino a che punto feriva Bernard, che proveniva da una famiglia senza storia, con una madre amante della poesia e un padre che pensava solo alla salvezza della classe operaia promossa dalle Trade Unions. Non disponeva d’altro patrimonio che la volontà, le illusioni e l’amore. E ora che anche i genitori l’avevano lasciato, gli toccava sopportare un nuovo dolore, quasi una variante di quel dolore segreto che non finiva mai. In tutti quegli anni d’amarezza celata aveva dovuto rinunziare sia alla carriera letteraria che a quella politica. Per amore di una donna, aveva scelto, per costruirsi un futuro con lei, la strada che gli era parsa più idonea, arruolarsi in polizia. E dopo tale sacrificio, la donna amata non aveva potuto ripagarlo. In seguito, aveva cercato di dimenticare, ed era caduto nella trappola dell’attrazione sessuale. Lontano dall’Europa, lontano dal suo vero destino e lontano dallo zio Arnold, che, pur morto, continuava a inviargli parole di saggezza. 

   “È stato come se il cuore si fosse fermato di colpo” gli aveva scritto il padre. Anche l’adorata Mary Harding della sua fanciullezza se n’era andata. Mentre lui, perduto nella giungla, faceva l’impossibile per amare la piccola Kathleen, del tutto irresponsabile del suo stato, o prometteva a se stesso, sul suo onore, che non avrebbe mai abbandonato Vera, anche se, a poco a poco, l’ indifferenza che sentiva per lei acquistava leggerissime sfumature di odio. Poi, una nuova comunicazione del pastore di Beaconsfield. Un mese dopo la morte della madre, se n’era andato anche il vecchio John Quayle, morto, secondo il sacerdote, di solitudine e di tristezza. Solitudine e tristezza, ecco due parole che non è facile dimenticare quando si rincasa dopo una spedizione contro i ribelli e c’è la piccola Kathleen che ti domanda:

   -Hai ucciso molti banditi questa volta, papà?

   E lo chiede con l’ingenua allegria del bambino che pensa all’eroismo come ad un abito indossato solo dai principi delle fiabe, principi che al pari di suo padre viaggiano sopra una jeep invincibile o sul dorso di un elefante enorme, invece che su di un cavallo bianco.

   -No, Kathleen, non ho dovuto ucciderne nessuno.

   Non le dice, però, d’avere bruciato nei magazzini il raccolto di quanti avevano collaborato con gli indipendentisti, raccolto che per loro rappresentava il cibo di un anno intero. Non le dice che ha loro distrutto le piantagioni, che li ha avviliti abusando della sua forza, che li ha trattati come loro non tratterebbero mai neanche il più crudele animale della foresta.

   Il giorno dopo, quando la bambina appare con il cadavere del suo gattino, morso da una vipera, il padre le parla di un probabile cielo per gli animali innocenti, mentre la madre le racconta che tutti i ribelli sarebbero finiti all’ inferno.

   Nel maggio del 1945 capitolava la Germania e nell’agosto dello stesso anno si arrendeva il Giappone. A Ceylon, la Commissione Soulbury aveva già raccomandato al Paese di darsi una propria e autonoma  politica interna. La parola che risuonava con più insistenza era nazionalizzazione. La Gran Bretagna voleva ancora esercitare il potere legislativo e imporre i suoi punti di vista a un parlamento locale, nato però non dalla volontà popolare, ma dai rinvii della corona. Era, comunque, una lenta agonia. L’isola lottava contro una tutela non voluta. I tamil indù erano protetti dai britannici, i quali credevano così di indebolire la forza dei singalesi buddisti. Nel frattempo, il capo dell’United National Party continuava a richiedere per Ceylon lo status di dominion. Infine, il 31 gennaio del 1946, il governo britannico acconsentì alle richieste dei singalesi. Più o meno in quei giorni, Bernard era stato promosso comandante.  

   Intanto, i suoi suoceri cominciavano a valutare seriamente l’opportunità di disfarsi di tutto il loro patrimonio sull’isola. La famiglia viveva momenti di profonda amarezza. Sia come sia, scoprivano in quei momenti di essere degli intrusi, indesiderati in un Paese che, pur non comprendendo, avevano finito con l’amare, seppure a modo loro. Il ritorno nella vecchia Inghilterra era stato, in fondo, il loro sogno dorato, ma li irritava tornarvi quasi poveri e vinti. E, per di più, sconfitti da un popolo che avevano conosciuto semiselvaggio, un popolo che era ancora molto distante dall’avere raggiunto l’indispensabile maturità politica  per potere decidere del proprio destino.

   -E noi, che faremo?- chiese Vera.

   Si era nuovamente sistemata nella casa di Kandy, affinché Kathleen potesse cominciare a frequentare l’asilo. 

   -Il grande vantaggio di noi servitori dello Stato è che non perdiamo mai i nostri privilegi.  

   -Cosa vuoi dirmi? Che dovremo girovagare da una colonia a un’altra, fino alla dissoluzione dell’Impero? Vuoi dire che finirai in un commissariato di Soho, con quattro bobby ai tuoi ordini? Non farmi sentire ridicola!

   Bernard si era ripromesso di non rompere mai quell’ultimo patto d’onore sancito a scapito della propria felicità, e non lo ruppe. Capiva le angosce di sua moglie, simbolo involontario del crollo di una intera classe, la quale non aveva alcuna colpa, ma che ciononostante si era dovuta assumere il compito di liquidare le vecchie glorie vittoriane. Se l’avesse saputa amare così come lei desiderava, se avesse tentato di capirla con lo stesso desiderio con cui aveva osato possederla, forse avrebbero potuto ottenere una specie di pace domestica, l’equilibrio sentimentale che dovrebbero raggiungere tutte le coppie del mondo per poter affrontare le ingiurie della vita e del tempo. Ma nulla di ciò fu possibile. Tra loro non era rimasto che il coito notturno, una droga periodica. E lei ancora gemeva e godeva con tutti i cinque sensi: quanto avveniva dopo l’atto era però così triste e vergognoso.

   In ogni vita umana ci sono momenti di assoluta verità che non siamo capaci di accettare. Forse, in realtà, non siamo capaci di renderci conto della loro dimensione. Bernard non pensava più all’Europa. Quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, il suo cuore e il suo pensiero ebbero ancora un fremito di emozione. Ma null’altro. Erano trascorsi degli anni e si era perfino chiesto, più volte, se non avesse offeso Vera, imponendo il nome di Kathleen a sua figlia. Era infatti figlia di tutti e due, non solo sua e di un cadavere che si putrefaceva a Dachau o a Mauthausen. 

   Ma un giorno di ottobre del 1946, David Hamilton, diventato tenente, gli consegnò una lettera che, oltre al nome Bernard Quayle, recava la scritta: personale. Quella calligrafia verticale, leggermente spigolosa, gli era familiare. Lesse il mittente: “Katharina von Raitenau – Esterhazygasse, 123 – Vienna”. Ripose la lettera, senza aprirla, in un cassetto della sua scrivania. Doveva riflettere. S’era ripromesso che non avrebbe abbandonato Vera e ora, che aveva forse più di un motivo per farlo, sentiva con maggiore forza il dovere di rimanerle fedele: si trattava di un dovere, e lui non poteva esimersi! Può darsi che, così facendo, sarebbe stato terribilmente crudele con Katharina, ma lo era ancora di più con se stesso. Non c’era una via di ritorno o, almeno, una via senza vittime.

   Sentiva, allo stesso tempo, il peso grave della sua infedeltà e quello di una sua maschile impazienza, miserabile ed egoista. Disperato, ideò un pretesto per fuggire nella giungla, quasi cercasse un pericolo che non esisteva o una morte che non trovava. La terza notte prese la decisione. Tornò a casa, inventò per Vera la storia di una scaramuccia dalla quale era uscito vincitore e, per festeggiare lo scampato pericolo, la portò a cenare al Queen’s Hotel, come aveva fatto anni prima. Trangugiò porto, whisky, e tutto ciò che bisognava bere per dimostrare che un militare è fatto d’una stoffa diversa da quella degli altri mortali. Quando tornarono al bungalow, la spogliò con furia, scagliò contro la parete il diaframma anticoncezionale, e la possedette con l’ultimo impulso che ancora gli restava di desiderio sessuale. 

   L’indomani mattina, approfittando dei privilegi del suo grado, timbrò la lettera di Katharina: Scomparso. Quella stampiglia veniva usata al tempo dei bombardamenti nipponici. Con un altra, impresse il bollo del comando e fece in modo che la lettera, senza essere stata aperta, fosse rimandata al mittente, a Vienna.

   Nel dicembre del 1947, l’anno in cui nacque Paul, la Camera dei Comuni approvò l’indipendenza di Ceylon. Nel febbraio del 1948 cominciò a funzionarne il parlamento. La nazionalizzazione dei beni coloniali sarebbe diventata ben presto effettiva e i coloni avrebbero dovuto vendere al nuovo Stato le terre che avevano coltivato durante tanti anni. Bernard e Vera non ebbero occasione di vivere quel momento. Lasciarono i genitori sull’isola a trattare, e loro partirono con destinazione Singapore.

   Ma anche Singapore finì per diventare un altro simbolo del cedimento delle strutture. Quel modesto angolo di mondo, il cui valore stava nella sua posizione geografica, era stato occupato dal Giappone e riconquistato dalla Gran Bretagna, più attenta ai propri interessi che non alla difficile convivenza tra malesi e cinesi. Il mondo era un manicomio. La colonia ottenne l’autonomia nel 1959 e l’indipendenza nel 1965. Bernard aveva già cinquantatre anni e decise di tornare in Inghilterra. Da molto tempo, tra lui e Vera non c’era più alcun tipo di relazione. Se ancora restava nella sua vita un qualcosa capace di produrgli un modestissimo sentimento di gioia, questo qualcosa era sua figlia. Poiché il figlio, il cocco di mamma -si chiamava Paul, come il suocero-, era una bestiolina crudele e abominevole.

   Chiese d’andare in pensione anticipatamente e gli fu concesso. Voleva vivere a Beaconsfield, culla della sua infanzia. Ma Vera, che aveva ereditato dai genitori quanto erano riusciti a  salvare dell’antico splendore di Kandy, si incapricciò di una grande casa a Great Missenden, solo perché vi avevano abitato altre dame del The Corona Club. Affidò il resto della sua fortuna non al marito, ma a un agente di borsa. Così Bernard, ormai quasi vecchio, pativa quotidianamente l’insulto di contare meno di zero in quella casa che non gli  apparteneva.

   A un certo punto sentì il desiderio di tornare a scrivere. Il suo era una specie di rifugio, non una esibizione. Un giorno però Vera vide i manoscritti che Bernard aveva dimenticato sul tavolo del salotto e con sarcasmo, dovuto a frustrazione, si fece beffe di quelle pseudo memorie che cominciavano narrando l’arrivo a Cambridge di un adolescente, il cui unico bagaglio era costituito dalle illusioni di un essere candido.

   A Kathleen, la famiglia divenne insopportabile. Cominciò a lavorare per conto terzi, fino a quando non mise su in proprio un’agenzia amministrativa. Trovò un appartamento a Londra e vi andò ad abitare. Paul fu mandato a Oxford, e non a Cambridge. Lo aveva deciso Vera, e anche questo parve una piccola offesa nei confronti del marito. Vi rimase solo un anno: secondo la madre, il figlio aveva troppo talento per sottomettersi all’arbitrio dei professori. In seguito lo aiutò a intraprendere mille affari sballati, l’aiutò a sposarsi, l’aiutò mille volte a districarsi da problemi finanziari, ma non l’aiutò a vivere. 

   Per tutti questi motivi, Bernard Quayle aveva preso l’abitudine di rinchiudersi nel suo studio a leggere un libro, che ormai doveva conoscere a memoria, e a rivedere vecchie carte, quasi che la sfilza dei raccoglitori, delle cartelle, delle scatole, dei fascicoli e degli album potesse ricostruire una vita che non aveva più alcun senso. Ne aveva così poco che il dottor Barrington l’aveva potuto riassumere in pochissime parole: “Diagnosi: cancro del colon. Prognosi: due mesi di vita”.

XXVI

   Aveva ormai finito il lavoro di raccolta e di riflessione. Il primo documento di quella parte della sua vita -una parte che aveva cercato di oggettivare, quasi che, per il solo fatto di ricrearla, fosse ancora possibile salvarla- era una fattura del “Ristorante Il Latini – via dei Palchetti – Firenze”, dove aveva condiviso con Katharina le prime ore delle loro frustrate relazioni. L’ultimo era quello di una cena con Vera al “Queen’s Hotel – Dalada Vidiya – Kandy”,  la notte in cui fu concepito Paul. 

   Non aveva mai tenuto un vero diario. Conservava dei quaderni e degli album di fotografie, gli uni pieni di appunti e di abbozzi di progetti, gli altri annotati in margine. Custodiva anche delle carte prive d’interesse, ad esempio biglietti, come quello del ferry che lo aveva portato da Reggio a Messina.

   Quest’ultimo era ormai riposto in una scatola, una delle tante che all’esterno erano contrassegnate da un anno: 1937, 1938, 1939 e così via fino al 1946. Alla fine, le sigillò e vi incollò un’etichetta con su scritto “Per Kathleen”. Voleva giustificare la sua vita con la figlia, senza per questo ferire Vera. Se non era riuscito a farsi comprendere da lei in più di quarant’anni, difficilmente ci sarebbe riuscito adesso.  

   I dolori di pancia e di fegato cominciavano a crescere d’intensità. Pensava, e temeva, che le pochissime forze che ancora lo sorreggevano avrebbero potuto abbandonarlo all’ultimo momento e, in tal caso, il suo ricovero in ospedale sarebbe diventato inevitabile, non fosse altro che per farlo morire senza eccessivi dolori. Gli avrebbero aumentato le dosi d’analgesico, fino a lasciarlo immerso in un sopore che gli avrebbe fatto perdere la facoltà di pensare in modo razionale, come se pensiero e dolore fossero elementi tra loro complementari e inseparabili.

   Cloridrato di morfina, un’amara soluzione per uno che non voleva rinunciare alla ragione. Ormai doveva farsi una puntura da solo ogni 4 o 5 ore.    

   Grazie a una scappata a St. Albans vide sia il dottor Barrington che il medico di famiglia, e riuscì così ad avere molte più ricette di quante gliene spettassero. Con quelle fiale se la sentiva di reggere quindici giorni, per andare a Vienna gli bastava uno giorno solo. E lì, sia che avesse potuto rivedere una Katharina imprevedibile, sia che avesse dovuto convincersi che tutto era finito, aveva pur sempre del tempo per procurarsi dell’altro analgesico, oppure aveva abbastanza tempo per morire.

   Del resto, in certi momenti gli sembrava di essere già morto. Considerava se stesso come un oggetto che, persa la spinta, continua ad avanzare in virtù dell’inerzia. Altre volte si soffermava a pensare solo ai suoi organi interni, come se il fatto di ricrearli col pensiero glieli potesse far vedere nel loro lavoro incessante. È chiaro che non li vedeva, ma sentiva la loro materia corrompersi lentamente, divorata dal tarlo. In quel preciso istante sentiva le cellule irrequiete che gli ingrossavano un tratto di pancia e premevano sul fegato, con un fastidio che non era ancora dolore, ma di sicuro un segnale. Sentiva che l’impulso distruttore stava cercando le zone più indifese per penetrare nei tessuti, e i condotti urinari, probabilmente i più deboli, di colpo gli sembravano tesi come un muscolo contratto. Percorreva la mappa delle sue viscere, l’intima geografia del suo territorio, e finiva per scoprire che, in quel campo di battaglia, gli eserciti invasori lo stavano completamente devastando.   

   Si sentì risollevato quando il venerdì pomeriggio arrivò la figlia. Erano le sei. Contava le ore con una passione quasi torbida, febbrile. Circa settantadue per atterrare al Wien-Schwechat, l’aeroporto situato a circa 20 chilometri dalla città. Un’altra ora tra formalità doganali, trovare un tassì ed arrivare in centro. Cosa avrebbe dovuto fare? Prendere alloggio in un albergo per iniziare le prime indagini? Consultare l’elenco telefonico? Vedere se c’era un Von Raitenau a Esterhazygasse 123 e chiamare? Chi avrebbe risposto al telefono? Era tutto incredibile, appassionante. Nei momenti in cui stava per raggiungere l’obbiettivo, notava che il dolore si faceva più sopportabile, come se l’avvicinarsi alla pienezza tanto attesa -una vittoria dello spirito, in fin dei conti- avesse in sé la forza necessaria per reagire alla devastazione fisica. 

   Qualsiasi dialogo immaginasse si presentava con la misera volgarità delle cose di ogni giorno. Non solo il corpo ha limiti e servitù che, periodicamente, ne degradano la dignità e umiliano l’orgoglio della bellezza, ma ne ha pure lo spirito. Vogliamo pronunziare parole inedite, esprimere concetti che elevino il nostro amore a cime mai raggiunte da nessuno, e ci troviamo a dire: “Fraülein Von Raitenau, bitte?” Tutto così quotidiano, così terra terra. E se anche fosse così? Quale sarebbe la risposta? “Lei voleva forse dire la signora Tal dei Tali!…” Ebbene, ciò significherebbe che anche lei si è sposata. Oppure: “ Qui non abita più nessun Von Raitenau!”; o ancora: “Se si riferisce alla signorina Katharina, è morta da un pezzo”; o meglio: “Sì sono io, lei chi è?”

   Certo, non avrebbe voluto niente di tutto ciò. Quello che voleva era diverso. Avrebbe suonato, Katharina in persona sarebbe venuta ad aprirgli la porta, e lui si sarebbe limitato a dire: “Katharina, sono io, Bernard, e sono qui per confessarti che ti ho sempre amata”. E poi, morire. Senza dovere attendere una risposta o chiedere spiegazioni, senza che nessuno dei due notasse nell’altro tutte le devastazioni causate dal trascorrere del tempo. Avrebbero così salvato solo lo spirito del  loro amore. 

   Il sabato mattina Vera andò a fare gli acquisti abituali di fine settimana. Bernard rimase solo con la figlia e le mostrò tutto il materiale che aveva classificato e sigillato. Poi, le disse: 

   -È per te. Non so se ho il diritto di caricarti del peso dei miei errori. Quando sarò morto, più di una persona, a cominciare da tua madre, criticherà il mio comportamento. Quel che ti lascio, ti aiuterà a comprendere. Qui sono racchiusi tutti gli anni della mia vita, quelli che tu non hai potuto conoscere, e che forse hanno avuto più importanza per me.  Se mi vorrai perdonare, se mi vorrai amare, queste carte ti faciliteranno il compito. Quando le avrai esaminate, non parlarne con nessuno. Se vorrai, le potrai anche bruciare.

   E arrivò il lunedì. Erano le sei del mattino e stava contando le ore. “Ne mancano dodici, o giù di lì!”

   Si diresse a Londra con la figlia.

   -Ti vengo a prendere a St. Martin?

   -No, ti sarebbe faticoso, cercherò di arrangiarmi.

   Quella risposta denotava una certa tensione. Mentre accostava la macchina al marciapiede e suo padre la baciava con un trasporto affettivo inusitato, Kathleen sentì scorrere in lei quell’inquietudine, che abitualmente chiamiamo  presentimento.

   -Papà…

   -Sì…

   -Ci vedremo a casa, oggi? Sei proprio sicuro di non nascondermi qualcosa?

   Il semaforo si fece verde, e gli automobilisti che aveva dietro cominciavano a dare segni di impazienza. Dovette allontanarsi per forza. Nello specchietto retrovisore poteva vedere la figura di suo padre. Si ergeva sul marciapiede e sorrideva in modo patetico. I suoi vestiti, ormai troppo abbondanti per la sua figura, lo avevano trasformato in uno scheletro vivente.

   Non appena ebbe perso di vista la figlia, Bernard prese un tassì per recarsi alla Barclays Bank. Quindi andò da Marks & Spencer a ritirare la valigia con i suoi indumenti. Con i soldi ritirati in banca, acquistò il biglietto aereo di “solo andata” (lo aveva già fatto tanti anni prima con il ferry che lo portava in Sicilia) e si diresse all’aeroporto di Heathrow. Consegnò il bagaglio, prese lo scontrino e consultò il tabellone delle partenze per controllare che il volo partisse all’ora prevista. 

   Gli restava ancora del tempo. Pensava solo a quanto stava facendo, al suo viaggio, al suo termine. Era incredibile con quale sicurezza si era potuto separare da Vera, senza provare il benché minimo rimorso, e anche da Paul e dai suoi nipoti, che non aveva nemmeno tentato di vedere. Niente, non gli interessava più niente di quella vita passata. Per quarant’anni era stato il ligio servitore del proprio dovere e, per quarant’anni, non aveva mai tradito carnalmente sua moglie, facendo anche, non riuscendovi però, sforzi indicibili per non tradirla con il pensiero.

   La gente che parla di adulterio come di un peccato frequente si riferisce quasi sempre alla carne. Ma, quale traccia può lasciare in noi un semplice contatto con una prostituta? Ben diverso è l’amore segreto, quello irrealizzabile, quello che ci tormenta e ci cambia!

   Mancavano ancora due ore alla partenza dell’aereo e il dolore si ripresentava insidioso all’appuntamento. Cominciò dalla parte superiore dell’addome, per poi diffondersi sul lato destro. Pareva avvolgerlo come una cintura di fuoco e di aghi. Poi, prese a scendere sempre più giù, verso lo sfintere anale e  i testicoli. Il suo corpo era come di sughero, un sughero che poteva assorbire le più incredibili sofferenze.

   Andò ai gabinetti, e si rinchiuse in uno dei box. Aveva ancora troppe ore davanti a sé! Doveva raddoppiare la dose di analgesico, doveva evitare che il dolore lo riattanagliasse in pieno volo. Era quasi sicuro che non avrebbe potuto sopportarlo e temeva di dare spettacolo.  Immaginò d’essere trasportato in ospedale, il che avrebbe vanificato i suoi progetti, e, di colpo, ricordò quel suo collega che vomitava escrementi in preda ad un attacco di peritonite. Forse sarebbero state sufficenti otto ore di vita: non era certo chiedere troppo! Poco male se si fosse addormentato sull’aereo, o avesse avuto bisogno di un’altra iniezione all’aeroporto di Vienna. Se non avesse fatto in tempo ad andare in albergo perché doveva impiegare la sua ultima ora a raggiungere la porta di Esterhazygasse, ebbene, sarebbe morto felice per averlo potuto fare.

   Uscì dal gabinetto con molta difficoltà. Gli pesavano tutte le membra e aveva l’impressione che i polmoni fossero stanchi di respirare. Si sedette su una poltrona della sala d’aspetto, in attesa che chiamassero il suo volo. Un po’ di riposo, non gli avrebbe fatto male.

   Alle tre del pomeriggio una donna delle pulizie, che aveva già in precedenza osservato la strana immobilità di quel passeggero, cominciò a nutrire dei sospetti. Lo disse a un poliziotto, il quale cercò, inutilmente, di svegliarlo per poi rivolgersi al medico dell’aeroporto.

   -È morto, un arresto cardiaco,- osservò -ma adesso bisognerà indagare sulle cause.  

Procedettero alle formalità di rito, e perquisirono il cadavere. Grazie ai suoi documenti, fu accertato il nome, l’indirizzo e lo stato civile. Telefonarono a Great Missenden. Vera rimase sorpresa più per il luogo, che non per la morte in sé. La sua prima reazione fu di avvertire il figlio, ma pensò che le sarebbe stato di pochissimo aiuto. Con un sentimento che aveva dell’ignobile, cercò e trovò Kathleen nel suo appartamento di Londra. Sapeva che lei ne avrebbe sofferto più di tutti, ma sapeva anche che l’avrebbe certamente aiutata. 

   -Non è ancora arrivato papà?- chiese, riconoscendo la voce della madre.  

   -Tuo padre è morto- le rispose Vera, senza perifrasi.

   -In casa?

   -No, figlia mia, no! Non so cosa avete combinato oggi, il fatto è che tuo padre è morto a Heathrow, pare si stesse recando a Vienna. 

   -Mamma, per favore, non ci capisco nulla! Io ho lasciato papà a Trafalgar Square e non l’ho più rivisto. Cosa è successo, dimmi? 

   -Non lo chiedere a me. Ti posso solo dire che mi hanno telefonato dall’aeroporto, lo tengono lì, in attesa che vada qualcuno della famiglia. In tasca aveva un biglietto per Vienna. E, di solo andata! Tu ci capisci qualcosa?

   La ragazza non fece commenti. Ora lei conosceva la risposta: Katharina von Raitenau. Le carte che le aveva lasciato suo padre il sabato mattina erano lì a confermarlo. 

   -Cosa vuoi che faccia, dunque?

   -Suppongo che dovresti andare all’aeroporto. Io non me la sento di guidare a quest’ora di notte. E poi, è lontano… e con quello che è accaduto! Rimarrò alzata, telefonami.

   Era lì, rigido, in quella specie di barella asettica della sala del pronto soccorso. Lo vide più magro che mai. La pelle era appiccicata alle ossa, pelle gialla, rancida, senza vita. Aveva in volto una vaga ombra di sorriso, che poteva esprimere la rassegnazione, ma anche la sofferenza o la vittoria. Il medico le anticipò la possibile causa della morte.

   -Doveva soffrire molto, non mi spiego come facesse a resistere, forse per un miracolo della volontà… Credo che si sia iniettato una overdose di morfina. Per motivi che lei probabilmente conosce, voleva o doveva andare a Vienna nonostante le sue condizioni, e l’ha pagata con la vita.

   Il commissario di polizia le consegnò tutto ciò che aveva trovato nelle tasche del defunto.

   -Questo è lo scontrino della sua valigia, l’abbiamo già richiesta. Era sul suo volo, ora è a Vienna. Per il resto, cose di poca importanza: un portafoglio con dei documenti, queste scatolette di morfina, una siringa, un biglietto d’aereo che dimostra che non aveva previsto il suo ritorno da Vienna e un indirizzo, che forse l’ aiuterà a capire qualcosa.

   Trovò, tra quelle carte, una breve nota di pugno di suo padre che diceva: “Katharina von Raitenau – Esterhazygasse 123 – Vienna”.

  Non poteva che essere così! Quarant’anni di silenzio per un finale muto, definitivo, un finale che poteva essere sia una sconfitta che una vittoria.  Katharina, il nome della ragazza della fotografia, Katharina che, forse  -pensò Kathleen in un momento di perfetta lucidità-, era stata la sua vera madre spirituale.

   Si fece coraggio, e ascoltò le istruzioni del medico e del commissario.  La sua solitudine, ormai definitiva, non sarebbe stata avara di tempo per le sue lacrime. Telefonò alla madre per confermarle quanto già essa sapeva.

   -Ma, di che è morto?

   -Un arresto cardiaco. Pare che la causa sia stata una overdose di morfina. Doveva soffrire molto. Domani avremo da fare un sacco di cose. Lo debbono trasportare all’ospedale per l’autopsia. Il dottor Barrington sarà tenuto a giustificare tutta la morfina che gli hanno trovata addosso.

   -E il viaggio a Vienna…?

   -Non lo so, mamma,- replicò Kathleen. -ti posso solo dire che aveva un biglietto d’aereo e un indirizzo.

   -E che indirizzo era?

   La figlia glielo disse.

   -L’avrei dovuto immaginare! Una delle tante sciocchezze di tuo padre! Una stupidaggine di gioventù! Lo sapevo, figlia mia! Lo sapevo!

   E senza aggiungere altro, riattacò il telefono.

XXVII

   Il pastore della parrocchia la tranquillizzò.

   -No, no, signora Quayle! È stato un incidente, un suicidio no davvero! Gli possiamo fare delle esequie solenni.

   -E rispetto a… non so come dirle… questo viaggio… abbandonarci…

   -Questo viaggio? Alla sua età? Non faccia cattivi pensieri!

   -Lui, da giovane… Non ne abbiamo mai parlato, ma so che c’era stata un’altra donna nella sua vita. Era viennese. Lo so grazie a una fotografia.

   -Sono trascorsi tanti anni!

   -Si chiamava Katharina. Per questo ha voluto che nostra figlia si chiamasse Kathleen. Si rende conto quale peso ho dovuto sopportare da sposata!

   -E chi lo sa! Forse voleva riparare un torto! Ma non è il caso di parlarne adesso. Suo marito è sempre stato un parrocchiano rispettoso. Non era molto assiduo, è vero, ma era un uomo giusto. Su questo non v’è dubbio. E nel caso… beh!… avesse lasciato… non so come dirglielo… qualche affare in sospeso…

   -Può parlare chiaramente: un figlio?

   -Non dobbiamo essere malpensanti, signora Quayle! Ma anche se così fosse, il pentimento dell’ultima ora lo avrebbe salvato, capisce?

   -Potremo fare i funerali la settimana prossima, che gliene pare?

   -Sabato andrebbe bene. Nel frattempo, lei può preparare i ricordini con i canti, la lapide della tomba… E, se nella sua vita c’è stata qualche macchia, speriamo che la cancellino le nostre preghiere. Adesso ripeta assieme a me: “Le anime dei giusti sono nelle mani del Signore e non soffriranno il tormento della morte eterna”.

   Poi, presero a redigere l’iscrizione della lapide.

   L’indomani, Paul si fece prestare del denaro dalla madre, perché lui e i suoi potessero vestire decorosamente per il giorno dei funerali.

   -Sai che testamento ha fatto papà?

   -Non credo che avesse granché.

   -E tutti quei pacchetti che ha lasciato a Kathleen?

   -Nulla di valore. Ricordi di gioventù. Tua sorella e tuo padre sono stati sempre molto uniti.

   -Kathleen non ti vuol bene, non è vero mamma?

   -Non è vero. Lei vedeva che vostro padre non era felice e pensava che la colpa fosse tutta mia.

   -E non era così?

   -No, non era così. Ma ciò che tua sorella non vuol vedere è che è stato lui a rendere disgraziata me.

   -L’ho sempre pensato.

   -No, Paul. Lo dici per consolarmi o per chiedermi del denaro. La verità è che sono stata una ragazza molto diversa da come voi mi avete conosciuta. Tutti e due, tuo padre ed io, avevamo un futuro davanti a noi. Abbiamo solo commesso l’errore di volerci sposare.

   Kathleen chiuse il suo ufficio londinese il giovedì, in modo da poter trascorrere un lungo fine settimana con la madre, per aiutarla a sbrigare tutte le pratiche del caso: fiori, inviti, necrologi sui giornali locali, telefonate, prove dei canti. Approfittò anche dell’occasione per sistemare dentro una cassa le carte lasciatele dal padre, pensando di esaminarle poi, tranquillamente, a casa sua. 

   Il sabato, la piccola chiesa era al completo. C’erano i famigliari intimi -i parenti collaterali risiedevano molto lontano- e un gran numero di amici e conoscenti: dame del The Corona Club con i loro mariti, l’agente di borsa, qualche poliziotto in pensione, alcuni vecchi alunni di Cambridge, i bottegai del posto, un vecchietto di Beaconsfield che era stato amico di Bernard, qualche consigliere comunale, il segretario del deputato conservatore del distretto, un procuratore di banca, la fioraia, il marmista e il tipografo.

   La versione ufficiale della morte recitava che il giorno del decesso, padre e figlia si erano recati a Londra da uno specialista e che il cuore gli si era fermato proprio mentre si trovava in ospedale. Le bugie pietose sono sempre più comode della verità. E, in quell’ambiente funebre -un pò sincero e un pò ipocrita- ebbe inizio la cerimonia. Tutti i presenti, con il ricordino in mano, seguivano i salmi, i canti e le preghiere. Un colonello in pensione, che per l’occasione indossava l’uniforme, salì i gradini che portavano al presbiterio e depose sulla bara di Bernard la medaglia che gli era stata concessa quando era di stanza a Ceylon. Con voce emozionata, ma sincera, recitò quel poema di Tennyson che si conclude con questi versi:

Se per ventura la marea mi porta

lontano dal confine che Spazio e Tempo fissa,

e quando la mia barca sarà oltre la linea

allorvedrò il Pilota faccia a faccia.

   Poi vi fu l’orazione funebre del prete, uno di quei panegirici pronunciati per lodare le virtù del defunto che però, in questo caso, parve diligente e sincero. Bernard aveva goduto senz’altro del rispetto di tutti. Benché fosse stato taciturno e quasi senza amici, veniva considerato un signore.

   Uscirono. Fuori faceva un freddo glaciale, anche se la giornata era eccezionalmente luminosa, blu con qualche macchia bianca di nuvole, che ora si addensavano, ora si rarefacevano.

   Calarono la bara nella fossa e la coprirono di terra. Sopra vi posero dei fiori e la lapide:

In Memoriam

Major Bernard Gilbert Quayle

M.A., D.S.O.

1912-1982

Dov’è, oh morte, la tua vittoria?

Dov’è il tuo pungiglione, oh morte?

   La domenica mattina Kathleen decise di tornare a Londra. Non sopportava la presenza della cognata né la maleducazione dei nipoti né tanto meno l’egoismo del fratello, che si preoccupava solo di conoscere il contenuto del testamento. Stava per partire, quando la madre le disse:

   -Se tra queste carte di tuo padre dovessi trovare qualcosa che mi riguarda, buona o cattiva che sia, vorrei che tu me lo facessi sapere. Credo di conoscerne il contenuto ma, a dire il vero, non le ho mai guardate. Tuo padre credeva che con il suo silenzio mi rispiarmasse qualche dispiacere, ma non era così. Il silenzio, a volte, fa più male della parola.

   -Di cosa hai paura, mamma?

   Vera non era loquace, e anche lei aveva taciuto per quarant’anni, ma a questo punto non ne vedeva più la necessità.

   -Hai qualche sospetto sul perché tuo padre volesse andare a Vienna?

   -Immagino per un’altra donna… quella Katharina dell’indirizzo…- rispose, provando compassione per la madre.

   -Io penso ci sia dell’altro, Kathleen: penso a un tuo possibile fratellastro…

   -Non dire queste cose, per favore!

   -Non ti agitare. Se quel che penso è vero, vorrei che questo eventuale figlio di tuo padre avesse gli stessi diritti vostri, tuoi e di tuo fratello.

   -Mamma!

   Vera, forse per la prima volta nella sua vita, abbracciò sua figlia con impeto e, mentre parlava, piangeva: 

   -Gli volevo bene, Kathleen, gli volevo bene!

   Un mese dopo, Kathleen aveva finito di controllare quell’insieme di carte così diverse tra loro. Non era poi così difficile seguirne il filo conduttore. Questo portava all’interno più delicato e segreto della vita di suo padre, che ora le si presentava densa di aspirazioni e di illusioni, ma anche piena di fallimenti non sempre meritati. Le cronache giornalistiche che scriveva in Sicilia erano interessanti, la sua prosa era vigorosa, e non esente da una sottile vena d’ironia. Ciononostante gli era stato impossibile introdursi nel mondo chiuso del giornalismo. Il suo programma politico aveva, se non altro, il merito dell’entusiasmo. La sua mente onesta e aperta al rinnovamento detestava gli intrighi dei professionisti della politica, e avrebbe voluto che il suo Paese ne restasse fuori. Forse era per questo che aveva ottenuto solo una manciata di voti! Il suo amore per quella ragazza austriaca, tanto lucida di mente e così onesta e allegra, non si era mai spinto oltre la sfera del sentimento più sublime, vissuto però in maniera diretta e costante, non come una avventura letteraria. Un amore diafano e desideroso di perpetuarsi. Solo la guerra aveva potuto distruggerlo, così come aveva distrutto tante e tante altre cose nobili. 

   Adesso capiva il perché dell’amarezza di suo padre e il perché dell’amarezza di sua madre. Avevano commesso un errore sposandosi. Fedeli alla parola data, avevano sostituito l’amore concreto, quello fisico e reale, con l’amore astratto e concettuale per l’onore.  

   Dopo quel primo esame dell’incartamento, decise di scrivere a Vienna. Nel prendere in considerazione il dramma domestico della sua famiglia, le si erano evidenziate solo le figure del padre e della madre ma, da quel momento in poi, Katharina, di cui non aveva mai saputo nulla e che forse aveva maturato, negli anni, un disinganno frutto dell’equivoco (questa la ragione del viaggio di suo padre?), acquistava agli occhi di Kethleen una sua reale consistenza. 

   La lettera a Katharina fu molto breve, si presentava così: 

“Sig.na Katharina von Raitenau

Esterhazygasse, 123

VIENNA                                                                           

Londra, febbraio, 1983

   Gentilissima Signorina,      

   Sono la figlia di Bernard Quayle. Mi risulta che mio padre strinse con Lei una grande amicizia poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Ho motivi per credere che, se non fosse stato per la guerra, la vostra amicizia sarebbe potuta sfociare in matrimonio. Se mi chiamo Katleen, ora lo so, è per l’amore che mio padre nutriva per Lei.

   Desidero solo dirLe -e credo doveroso farlo- che mio padre è morto all’aeroporto di Heathrow due mesi fa. Era affetto da un male incurabile, e aveva deciso di volare a Vienna per passare con Lei le ultime ore della sua vita.

   Non so se sto sbagliando a scriverLe questa lettera, potrei rivangare sentimenti che Lei forse ha preferito dimenticare. Ma per lealtà verso mio padre, e pensando d’interpretare la sua ultima volontà, voglio che Lei sappia che è morto amandoLa.

   Se merito una risposta, gliene sarò infinitamente grata. In ogni modo, riceva il più cordiale abbraccio dalla Sua                                                        Kathleen”

   La risposta tardò all’incirca un mese, e portava la firma di Dietrich von Raitenau:

“Sig.na Kathleen Quayle

42, Gowen St.

Londra                                                                                 Vienna, marzo, 1983

   Gentilissima Signorina,

   Le devo chiedere subito scusa per avere aperto una lettera che non era indirizzata a me. Sono un cugino di Katharina e, in altri tempi, sono stato un po’ il suo confidente. Questi titoli, l’affetto che sempre ho nutrito per lei e il fatto che il cognome Quayle non mi fosse sconosciuto, mi sono parsi motivi sufficienti per violare la corrispondenza d’una persona che non è più.   

   La prima cosa che desidero dirLe è la grande sorpesa che ho provato nel sapere che il signor Bernard Quayle era ancora vivo fino a poco tempo fa. Le spiego i motivi. Alla fine della guerra, mia cugina, dopo essere uscita dal campo di concentramento di Mauthausen, cercò subito di mettersi in contatto con colui che, come Lei ben suppone, era stato il suo grande amore.

   Dopo molte difficoltà (poiché, a quanto pare, erano decedute le persone che potevano servirle da tramite), venne a sapere l’indirizzo di Suo padre a Ceylon. Non ignorava che la guerra era arrivata anche in Asia e che l’isola era stata bombardata dai giapponesi. Ciononostante, aveva una grande fede nella vita e nel futuro, e spedì una lettera a Suo padre per dirgli che era ancora viva e che lo amava ancora. Può immaginare quale fu il suo disinganno quando le rimandarono la lettera, senza aprirla, con su stampigliato uno Scomparso.

   La vita a Vienna le divenne insopportabile, ricordava sole le grandi amarezze colà sofferte. I miei zii erano morti, uno a Dachau, l’altro a Mauthausen, e lei risolse di liquidare i suoi beni (tra gli altri, la casa dove io adesso abito) e andare a vivere, definitivamente, in un paesino della Sicilia nel quale, a quanto pare, aveva trascorso il tempo migliore della sua vita accanto a Suo padre.

   Con una intuizione che allora mi parve infantile, se non fosse stata così patetica, rifiutò sempre d’accettare la scomparsa del suo amato. Basandosi sul fatto che il timbro diceva solo Scomparso, voleva credere che fosse caduto prigioniero, o qualcosa di simile. Per questo motivo mi lasciò la lettera, dicendomi di spedirla a Suo padre, nel caso lui avesse scritto, ed anche il suo indirizzo in Sicilia. Credo di onorare la volontà di mia cugina inviandoLe la lettera, di cui conservo la fotocopia: è un inno alla vita di cui non voglio privarmi.

   Separarmene mi è difficile, ma so che Lei sarà contenta di conservare la fotografia che le mando. Sono ritratti, probabilmente da un fotografo ambulante di Castelvetrano, di mia cugina e Suo padre. Sembravano felici, vero?

   Abbiamo mantenuto tra noi sempre dei contatti epistolari. Era una donna straordinaria e io l’apprezzavo per l’esempio che poteva offrire agli altri. Un brutto giorno, però, qualcuno di quel paesino (Licodia Eubea, si chiama) mi scrissero due righe facendomi sapere che mia cugina era deceduta, serenamente, nel suo letto. Non per malattia, a quanto sembra, ma stanca di vivere in questo mondo e con la speranza in un altro migliore. Da quanto posso intuire, anche lei è morta serbando tutto l’amore per Suo padre. Non è facile credere nei miracoli. Ma io, cattolico come lei, voglio pensare che si sono già riuniti oltre la vita, in uno spazio per noi inimmaginabile, uno spazio nel quale entrambi hanno creduto e per il quale entrambi hanno sofferto. In ogni caso, preghiamo perché sia così. 

   Riceviamo molte lezioni dalla vita. Probabilmente, da oggi in poi, tanto Lei come io avremo trovato la tranquillità che mancava alle nostre anime. Sono sposato, padre, e moderatamente felice. Ma davanti a casi come quello dei nostri famigliari, non posso smettere di pensare in ciò che così spesso ci viene ripetuto: che questa vita non è altro che un transito verso un’altra vita superiore.

   Mi pare superfluo aggiungere che sono, in tutto e per tutto, a Sua disposizione. Forse potremmo scambiare ricordi e documenti.

   La prego d’accettare il mio cordiale saluto.

   Dietrich von Raitenau”

XXVIII

“Capitano Bernard Quayle

The Police Force

Kandy                                                                                  Vienna, agosto, 1945

   Amato, sempre amato Bern:

   Quale allegria provo nell’avere, finalmente, il tuo indirizzo! Durante la guerra, quando sapevo che era impossibile mantenere i contatti con te, mi ero un po’ rassegnata. Dovevo continuare a vivere per te e la disperazione non sarebbe stata una buona compagna. Ma ora! Ho trascorso dei mesi più nervosa che mai. Non è necessario che ti spieghi quanto mi sia data da fare, e così so che i tuoi genitori sono deceduti e anche quello zio, al quale tu volevi tanto bene.

   Anche i miei sono morti. Anche i miei. Ma in un modo molto più duro, almeno credo. La paura che già avevo là in Sicilia, ha trovato conferma. Tutti e tre siamo stati tenuti prigionieri dalle SS. Mio padre e mia madre sono morti nei campi di concentramento, separati l’uno dall’altro. Io ho avuto la forza di sopportare tutto: la fame, la mancanza d’igiene, la disperazione degli altri, i lavori pesanti, le umiliazioni. E ora, mi rendo conto che sto parlando del nostro amore come se fossimo ancora due adolescenti, più o meno carini e sorridenti. Non so se ti piacerò ancora quando mi rivedrai: peso solo trenta chili e i capelli tardano a ricrescermi.

   Dimentica ciò che ti ho detto. Lo so che mi ami per altre cose, ma tutte le ragazze sono un po’ civettuole e anche a me piaceva che tu mi dicessi che ero carina. Per amor tuo, supererò tutto. Se ho potuto vivere in mezzo a quell’orrore, e se perfino in alcuni giorni di sole ho cantato, con il mio filo di voce, le canzoni che ti piacevano, è stato grazie al coraggio e alla forza che mi infondeva il tuo ricordo. 

   Ormai è tutto passato, ma il mio Paese non mi piace più. C’è stata molta più crudeltà di quanta avremmo potuto immaginare e più vigliaccheria di quanta ne avremmo voluta. E all’olocausto hanno partecipato tutti, anche quei piccoli borghesi che ballavano valzer o affollavano i caffè della mia città con la loro aria compiaciuta e distinta. Era tutta una menzogna, Bern, ed è molto difficile sostituire con la speranza questa delusione sulla condizione umana, quando acquista le dimensioni della nostra tragedia collettiva. E ciononostante, io continuo a credere, ho ancora fede. Penso che se anche tutti si fossero sbagliati (e non è proprio così) potremmo essere sicuri che non tutto è ignominia, almeno sino a quando esisterai tu e il nostro amore.

   Il cielo, là a Mauthausen, era molto azzurro in primavera. Non lontani c’erano dei boschi odorosi. Scendendo lungo i loro margini avrei trovato la valle dove scorre il Danubio. Il dolore lì era un controsenso. Quella località non lontana da Salisburgo (i Raitenau) e dal nostro Mozart mi era per così dire vicina. Ai lati della strada mi pareva di scorgere le heurigen dove Schubert soleva degustare il vino novello.

   Ma, adesso, conosco anche la più orribile essenza dell’abiezione umana, e non so se per volere divino. Tutto era così spaventoso: di lì non si poteva uscire che morti o redenti! Voglio dire che chi è riuscito a soppravvivere non pensa che alla vendetta e all’odio, significa che i malvagi hanno vinto anche la battaglia con la tua anima. Non dico di perdonare in senso ingenuo o zelante. No, io dico che bisogna continuare ad amare la vita, continuare a pensare che dobbiamo salvare la speranza per tutti coloro che verranno, così come dobbiamo salvarla per noi stessi.        

   Con la memoria riflessiva che mi concedono gli anni (ora ne ho più di trenta, benché in certe cose io sia vecchia e in altre infantile), evoco tutto il tempo trascorso assieme a te, in Sicilia, a Licodia. Credo che quello sia stato il nostro Paradiso, dal quale ci scacciarono le circostanze, non certo un nostro peccato. Con la franchezza che possiamo conferire alle parole pronunciate senza essere guardati in viso da chi amiamo, trovo il coraggio di dirti ora che anch’io ti desideravo e che, se tu me lo avessi chiesto, sarei stata tua. Tuttavia, ritengo che quella specie di virtù che ci ha guidato, ha voluto dire per noi molto di più dell’adempimento d’un dovere. La purezza conservata oggi è un dono che ti posso ancora offrire, un dono che ti è appartenuto in ogni momento, anche quando avevo un desiderio infinito di baciarti e non lo facevo.

   E quella voluta purezza del nostro corpo, che oggi probabilmente farebbe ridere migliaia di persone, noi l’abbiamo saputa infondere all’ambiente nel quale siamo vissuti. Se fosse ancora possibile rincontrarci a Licodia, in via Mugnos, la guerra e le sue distruzioni ci sembrerebbero solo un incubo, e noi, in quel paesino, troveremmo la stessa gente affabile che abbiamo conosciuto, persone gentili, generose e che non conoscono l’odio.

   Se vuoi, ti raggiungerò a Kandy o dovunque sarai destinato. La mia vita è stata spogliata di una quantità di valori che ora non hanno più senso. Ma, in realtà, è la mia vita che non ha senso senza di te. Se ho conservato quella speranza di cui ti dicevo prima, è stato solo per te. Là, nel campo di concentramento, era spesso più facile morire che continuare a vivere. Dopo tanti e tanti sforzi, non voglio che la mia vita vada sprecata come una qualsiasi cosa inutile.

   La guerra è stata molto dura nel mio Paese. Odio, vigliaccheria, razzismo, vendette, tradimenti. So che col tempo recupererò un relativo benessere economico e che cercherò di ritornare allo stato di prima: i teatri, il lavoro, i cibi, la vita di ogni giorno. Non so come stiano le cose là a Ceylon, con il Giappone che continua a combattere e tu, in un certo senso, ancora sul piede di guerra. Tuttavia, benché possa sembrare una illusione, devo credere che non ti è accaduto nulla. Se non riceverai questa lettera, vorrà anche dire che non potrai mai leggere queste mie ultime righe. Anche se sei morto e ovunque tu sia, ascoltami lo stesso. Averti amato, anche se sarò condannata a non vederti più, è stato bello come non è stato inutile l’aver sopportato il dolore fisico e, ciononostante, avere continuato a vivere. E lo sai perché Bernard? È semplicissimo: salvando il nostro amore, ho salvato la mia anima.

   Rispondi presto. Lascio nelle tue mani ogni decisione. Volevo baciarti per lettera, ma mi risulta così insoddisfacente che mi viene voglia di piangere al solo pensiero. Scrivimi, amor mio. Scrivimi!

Katharina”

   La risposta tanto attesa non arrivò mai. Le riconsegnarono quella lettera, nella quale aveva riposto tante illusioni, con un semplice Scomparso e il freddo timbro d’un dipartimento di polizia. Ne parlò con suo cugino Dietrich, più giovane di lei, ma abbastanza grande per avere conosciuto anche lui i disastri della guerra.

   -È l’eufemismo che usano per dirti che è morto.

   -Ma, perché? Ci sono state tante morti che non vedo il motivo per celare quella di Bernard! Forse è stato fatto prigioniero, forse è ricoverato in un ospedale… Non li leggi i giornali? Ogni giorno riportano notizie di gente che era data per morta e che, all’improvviso, riappare. Con tutta questa confusione…

   -Cara cugina, se vuoi vedere le cose con gli occhi della speranza, non sarò certamente io ad aprirteli. Credo, però, che tu sia troppo giovane per trascorrere la vita in attesa d’una notizia che forse non arriverà mai.

   -Cosa vuoi dire?

   -Non saprei, forse dovresti condurre una vita più normale, uscire, farti vedere, frequentare le amicizie di prima… Ora, con la normalizzazione politica, con l’Austria nuovamente indipendente, si può dire che hai recuperato il tuo patrimonio. Sei, come si suol dire, un buon partito. Non chiuderti in casa a trent’anni come una zitella impenitente!

   Katharina lasciò passare sei mesi, ma la notizia anelata non arrivava. Poi, come se l’idea le fosse germinata lentamente e non attendesse altro che di essere realizzata, la donna scrisse ad Antonio Lanzara a Licodia Eubea per dirgli che era ancora viva e che temeva per la sorte di Bernard Quayle. Se gli amici del paese ritenevano che la cosa fosse possibile, lei sarebbe stata felice di trasferirsi da loro per sempre.

   Liquidò, senza fretta e in modo congruo, le sue proprietà e lasciò la casa di Esterhazygasse a suo cugino, pregandolo di custodire la lettera ricusata. Volle anche donargli qualche ricordo che aveva salvato dal naufragio del tempo e dalle depredazioni e, un bel giorno, era un giugno, volò dall’aeroporto di Vienna a quello di Catania.

   Forse la guerra era passata per Licodia, ma non se ne vedevano i segni. Antonio e Agata abitavano ancora nella vecchia casa di via Mugnos, solo un po’ più cadente. Vito Piccioni non era più sindaco, ma conservava le sue smanie archeologiche. L’amica che suonava il piano, l’Emilia, si era sposata. La signora del negozio di generi alimentari passava ancora dieci ore al giorno dietro il banco. Le strade erano impolverate come prima. L’uva cominciava a mostrare il nero dei suoi chicchi sulle viti di sempre. I fichi d’India non erano più un frutto alla mercé dei ragazzini, ma adesso venivano coltivati per essere venduti. La chiesa si manteneva fedele alla sua pompa alquanto teatrale. E il castello era un po’ più diroccato.

   Tutti facevano domande, chiaro! Lei riusciva a rispondere senza lacrime. La vita era diventata un’attesa, e bisognava che l’attesa avesse una sua dignità. Ogni giorno che passava era una pietruzza negativa in meno. La sua pazienza avrebbe pur avuto un termine, prima o poi sarebbe arrivato il giorno della sua morte, e con questa la definitiva liberazione, la soluzione finale.

   Per un certo tempo alloggiò presso i Lanzara, ma ben presto cominciò a spargere la voce che voleva costruirsi una casa. Trovò un piccolo terreno, molto ben situato, non lontano da dove “Gridamani” viveva. Aveva acquistato una Vespa, e andava dal cantiere al paese a suo piacimento. La gente non riusciva a capacitarsi del perché avesse ammobiliato la nuova casa con un letto matrimoniale o perché avesse predisposto uno studio “nel caso tornasse Bernard”.

   Trascorreva in casa molte ore. Il terreno, che arrivava sino alla strada comunale, era abbastanza impervio ed era terrazzato con vegetazione diseguale: olivi, fichi d’India, oleandri, campanule. Il suo non era dunque un giardino ordinato, elegante o pieno di misteri, ma assomigliava piuttosto a un rifugio, anche se rigoglioso nella generale aridità del paesaggio. 

   Seduta sotto il portico, col sole del tramonto alle spalle, vedeva in lontananza le case di Vizzini, un’alta teoria di costruzioni sulla catena dei colli. Questi erano inospitali. Le valli, brulle, s’annerivano sul finire dell’estate di ampie chiazze prodotte dalle stoppie bruciate. E proprio questa elementarietà di terra maltrattata era ciò che conferiva grandiosità al paesaggio. La terra, pura geologia, ogni tanto era come ferita da una macchia di vegetazione.

   La politica non la interessava quasi più. Viveva da spettatrice le convulsioni dei tempi nuovi, che non erano più i suoi. Aveva sempre sognato un mondo più giusto e, per quel sogno, aveva sofferto in modo indicibile a Mauthausen. Aveva perduto, come migliaia d’altri, quasi tutti gli affetti nel conflitto. I giovani, però, sembravano non capire che il loro relativo benessere si era costruito sulle ceneri di milioni di morti e sull’eclissi di milioni di illusioni deluse. Su un piatto della bilancia la probabile morte di Bern e il suo dramma personale pesavano come un simbolo. Sull’altro, una quantità di giovani insolenti che esigevano tutto dalla vita, che disprezzavano i vecchi e che erano incapaci di ringraziare o comprendere il loro dolore, il sacrificio ignorato di chi li aveva preceduti.

   Si era commossa per l’uccisione dei contadini che protestarono a Portella della Ginestra, non tanto per la sua valenza politica, quanto per i suoi aspetti umani. Si mormorava, ma a bassa voce, che vi aveva preso parte il famoso Salvatore Giuliano disposto, nell’occasione, a dare una mano alla corrente di destra della Democrazia cristiana nella lotta al comunismo. Il bandito veniva presentato ora come indipendentista, ora come un criminale prezzolato, ora come mafioso. Forse, Bern ne avrebbe ricavato qualche riflessione… Finché, tre anni più tardi, il bandito, ormai una leggenda, fu ucciso a Castelvetrano. Non aveva ancora trent’anni quando morì nella stessa cittadina dove era nato Giovanni Gentile. Ricordò la visita che lei e Bern avevano fatto in quel luogo mentre si recavano a Selinunte. Il cadavere esposto al pubblico di Giuliano le richiamò quelli di Mussolini e di tanti altri, abbandonati allo scherno della gente.

   La versione ufficiale sosteneva che era morto in una sparatoria con la polizia. La voce popolare affermava che l’avevano ucciso senza lottare, tradito dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta.   

   Sempre lo stesso scenario, sempre le stesse esperienze di vita drammatica, sempre le stesse passioni e ambizioni. Solo gli attori cambiavano. Un giorno, si recò a Piazza Armerina, e quasi non la riconobbe. Chiese del professore Di Blasi. “È a Roma”, risposero. Chiese il registro delle firme. Il custode, incuriosito, le porse un volume, era degli anni trenta. Vi trovò la sua firma e quella di Bern. Dunque, esistevano ancora! Piazza Armerina stava cambiando, ma i loro nomi vivevano, e viveva anche Selinunte e la sua spiaggia immutabile, un aforisma degli antichi dei.

   Aveva bisogno di impiegare il proprio tempo, e tornò agli scavi. Il povero Piccioni non aveva più tante risorse come quando era sindaco, e neppure tanta salute. Ma, con pazienza e volontà, insieme scoprirono altri giacimenti nella Serra Grande, a Ragoleti, piccoli reperti di pietra che forse non avrebbero soddisfatto l’ambizione di nessun archeologo importante, ma che si potevano paragonare alle loro vite umili, oscure.

   Ancora cantava nelle funzioni religiose e ancora dava vita ad alcune riunioni di giovani, i quali ripetevano continuamente, e senza saperlo, le stesse cose dei giovani che li avevano preceduti. Lei cominciava a invecchiare e si rendeva conto, sempre più spesso, che le era impossibile seguire la moda e le attività di quelli che le avevano sottratto dalle mani il testimone. Ora, le sue canzoni di Schubert o le sue arie di Mozart facevano sorridere la gioventù, come se in piena era dell’elettricità qualcuno avesse voluto considerare un prodigio il vecchio lume a petrolio dei nonni.

   Un brutto giorno morì Agata, e Antonio non se ne dette pace. Girovagava come intontito per il paese, senza salutare nessuno, guardando con la coda dell’occhio le cantonate. Parlava da solo e i bambini avevano paura di lui. Anche la signora del negozio morì. Restò in negozio suo figlio, uno scapolone timido, una brava persona che tutte le ragazze prendevano in giro. La signora che suonava il piano era preoccupata: il figlio maggiore era in età militare, e alla madre non piaceva che facesse il servizio nel continente. “Non imparerà nulla di buono, ne sono sicura”, diceva piangendo. 

   Tutto si ripeteva come nei drammi rurali di Giovanni Verga o di Luigi Pirandello: il giovane che se ne andava dall’isola spinto dalla miseria e attratto dal desiderio di migliorare. Forse avrebbe fatto il servizio militare a Milano o a Torino, avrebbe conosciuto costumi che l’avrebbero affascinato, vite interessanti, gente ricca. E sarebbe tornato in paese con il peso del fallimento sulle spalle, senza avvertire l’esistenza di quelle cose che Khatarina aveva saputo scoprire e che ora non poteva condividere con nessuno. La gente sapeva delle sue illusioni intime e irrealizzabili. Sapeva, e ciò le valse un soprannome, in paese l’avevano tutti. La chiamavano la “Benedetta” il che la poteva fare apparire come una sempliciotta, o come una persona buona e innocente.   

   I capelli erano finalmente ricresciuti, ma erano bianchi, prematuramente bianchi. A quarant’anni portava già gli occhiali e aveva perso gran parte delle sue facoltà. Era un po’ sorda e la Vespa non le appariva più sicura. La cambiò per una piccola utilitaria. Di giorno in giorno, era sempre più pigra, non aveva voglia di andare a Caltagirone o a Catania, a Agrigento o a Taormina. La guerra ormai era lontana, il paese prosperava e il turismo era una nuova industria che produceva ricchezza e miseria allo stesso tempo. C’erano spiagge insudiciate dalla barbarie della gente moderna e templi insultati dalla volgarità dei nuovi visitatori. Tutto era in evoluzione, la materia si trasformava, i morti erano cenere e concime per i vivi; i fiori calpestati, humus per la vigna nuova. Solo certe idee sembravano essersi perdute per sempre.   

   Restava, però, un angolo incontaminato, inaccessibile a qualsiasi ingiuria. Quell’angolo era lei nella sua interezza? Oppure era solo il suo cuore, o il suo ventre sterile, ma glorioso?

  Si rendeva conto che ogni giorno moriva lentamente. Non se ne lamentava. Poi, tutto finì. Aveva sessantacinque anni. I vicini, sorpresi di non vederla uscire di casa, entrarono e la trovarono distesa sul letto, proprio come se dormisse. Pareva ringiovanita. Il volto era leggermente colorito e la sua solita camicia da notte bianca, smerlata ai polsi e al collo, la rendevano delicata e discreta come sempre. Quelli che la conoscevano appena non riuscivano a capire come mai nella sua biancheria e nella sua camicia mortuaria, fosse ricamata la sigla B.K., quando le sue iniziali erano K.R.

   La seppellirono nel cimitero di Licodia. Chissà quali furono i suoi ultimi pensieri in quella notte di trapasso…  

Mas El Solanot, 1993-1994.

Finito di Stampare nel dicembre 2011

da

Il Garufi Edizioni s.r.l.

Via Vittorio Emanuele Orlando, 174

95127 Catania

E-mail: ilgarufiedizioni51@tiscali.itPUBBLICATO INJOAN BASTéTags:Biblioteca comunale di Militello in Val di Catania

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