Il giovane Vitaliano Brancati

Vitaliano Bracati – 2

L’intellettuale fascista

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

L’unica persona in famiglia con la quale Brancati era riuscito a legare ed a raggiungere il “perfetto accordo”, fu il nonno materno, che, quando nel 1933 morì, gli fece scrivere (Come ci riporta Enzo Lauretta in Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Varese, Mursia, 1973, p. 33):

“Sapevo bene che l’uomo non muore tutto in una volta, ma età per età, e sapevo che le età dell’uomo sono due: la fanciullezza e la maturità. Quell’anno non s’era vista un’ala nel cielo, e la mia prima età era morta. Mi rimaneva ancora un’altra età: il tempo per essere onesti, per essere veritieri, e soprattutto semplici, io l’avevo ancora. Ma una parte della mia vita era terminata, uno dei miei occhi s’era chiuso per sempre.”

Non parrebbe, però, che la figura del nonno fosse destinata ad avere un’eccessiva importanza nella formazione del caratte del nostro scrittore, né tantomeno nell’evoluzione della sua arte, se non come “cantuccio di raccoglimento” quando gli eventi e la stanchezza ci impongono una pausa.

Nel complesso, forse questo vecchio è da ravvisare soltanto in certe figure di anziani di alcuni romanzi – per esempio, lo zio di Antonio ne Il bell’Antonio -, che rappresenteranno un angolo riservato alla saggezza e alla meditazione, un po’ come i cori nelle Tragedie di Alessandro Manzoni.

La fanciullezza di Brancati, quindi, nel complesso fu abbastanza normale, in parte nel ristretto ambiente di Militello in Val di Catania, dove, come è facile intuire, spiccarono e gli procurarono molte diffidenze i suoi successi scolastici (in nessuna delle persone che conobbero la famiglia ho trovato parole che non fossero di antipatia e di rancore).

A diciassette anni Vitaliano Brancati fece il suo esordio in politica iscrivendosi al Partito Fascista, il 4 febbraio 1924.

Più tardi, nel 1929, si laureò in Lettere col massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi su Federico De Roberto, tesi che in un secondo momento rinnegò insieme a tutti gli altri scritti fascisti.

Tutte le sue prime opere risentono di questa giovanile adesione al fascismo.

Fino al 1933, anno nel quale, secondo Vanna Gazzola Stacchini (La narrativa di Vitaliano Brancati, Firenze, Olschki, 1970), cominciò la sua crisi ideologica, forse occasionata da una lettera del Borgese dell’8 luglio 1933.

La giovanile maniera di scrivere del Brancati in verità, non è molto felice; ma, come si dice, ciò che è inutile può risultare utile per capire ciò che è utile…

Quale fu, insomma, il moto interiore, il quantum, che spinse Brancati ad aderire al fascismo?

Fu l’ambiente familiare? Furono gli “astratti furori” del coevo Elio Vittorini alla ricerca di un archetipo a cui ancorarsi mentre intorno il mondo cambiava vorticosamente?

Per la Stacchini:

“Tale scelta ebbe un carattere di reazione alle condizioni di vita nella sua isola, la cui storia era tendente ad un immobilismo che non poteva non riflettersi nella coscienza e nel cuore dei suoi abitanti; in questo senso, la sua reazione ebbe un significato assai più profondo di quello datogli dalla borghesia italiana in genere, annoiata e nello stesso tempo spaventata dal nuovo. Brancati cercava il nuovo, invece, come superamento, anche non coscientemente, di quelle condizioni metastoriche siciliane, del senso di vuoto che derivava dalla posizione di isolato; perciò dirà di questo tempo: In certe epoche non bisognerebbe mai avere vent’anni.”

Sullo stesso tema si è espresso pure il critico Enzo Lauretta (cit., p. 29):

“A 17 anni Brancati, per quanto maturo fosse, non s’era ancor posto alcun problema sociale, né credo avesse coscienza, neppure a livello epidermico, delle condizioni meta-storiche dell’isola. Non c’è un solo rigo che stia a dimostrarlo.”

E ancora:

“Certo il desiderio di novità giocò la sua valida carta, ma più che un desiderio di rottura per le condizioni dell’isola, a spingerlo verso il fascismo fu il tipico atteggiamento dell’intellettuale tutto impregnato di cultura decadente.”

Probabilmente, invece, a portare Brancati al fascismo fu più semplicemente l’egemonia culturale della filosofia gentiliana in quel periodo. Tutta la critica italiana del secondo dopoguerra italiano è, in qualche modo, guercia, partendo dall’assunto arbitrario che a destra non c’è cultura. Silenzio e dannazione della memoria sono dei pessimi consiglieri se si vogliono capire gli accadimenti.

Lo stesso giovanissimo scrittore parlò della vittoria dell’uomo attivo sul pensatore. In termini modernamente quantistici, si può intendere che l’intero universo, compresa la Storia, è movimento, vibrazioni di “concetti” (particelle senza massa, ma, come i fotoni, capaci di generare “onde”, cioè logiche), che si concretizzano in materia, eventi, fatti e manufatti.

Il fascismo ne fece, inconsapevolmente, il cuore della sua propaganda. Era questa la novità portata dal regime sulla scia dei futuristi. Da qui la sua enorme presa sui giovani.