Il terzo capitolo di “Katharina Von Raitenau”, romanzo dello scrittore catalano Joan Basté, ambientato a Licodia Eubea (Sicilia)

Joan Basté

Katharina Von Raitenau

Romanzo

III

   Scese dalla corriera con la valigia e la borsa con dentro tutte le sue carte più care. Tra le altre, i programmi con le due mete che si era prefissato. L’una, ottenere i diplomi di bachelor e di master; diventare un fellowship, per potersi recare in Italia grazie ad una borsa di studio; servire la patria con onore e, da un incarico di responsabilità, scrivere un libro di poemi e collaborare regolarmente con la stampa. L’altra, più che una meta, era un decalogo dei compromessi che aveva contratto con se stesso, quali non mentire, non contrarre debiti, non farsi prestare denaro, non abusare dell’alcol, non perdere tempo in amori senza importanza e dominare sempre i sentimenti.       

   C’era anche un quaderno con abbozzi di poemi, ancora un po’ alla maniera di Lord Byron, pur sapendo che il suo era un inevitabile morbillo, dal quale, una volta curato, sarebbe uscito con l’eroica moderazione che si era prefissato come modello estetico e morale. E gli articoli. La poesia era una specie di militanza. C’erano poi i saggi letterari. L’intenzione era di incominciare col collaborare al Bollettino del collegio e, una volta acquisita la dovuta esperienza, avrebbe offerto la propria penna a qualche rivista londinese. Aveva da dire anche la sua in politica, in quegli anni di confusione e di debolezza.   

   Il viaggio in Italia non aveva per scopo la conferma delle cognizioni artistiche ispirate da sua madre, ma il poter vivere direttamente l’eccitante avventura del fascismo. Possibilità questa -forse valida se non altro per la sua intransigente difesa del nazionalismo- che non poteva essere ignorata mentre la Gran Bretagna, immersa in una grande crisi economica, viveva sotto il dominio di una classe politica codarda i cui eredi avrebbero potuto essere dei giovani smidollati, decadenti, omosessuali, come quelli che, più avanti negli anni, avrebbe avuto come compagni di corso all’Emmanuel.    

   Avanzò per Downing St. In fondo, si vedeva già il portone d’ingresso del collegio. Lasciò il modesto bagaglio in consegna a un bidello, si recò negli uffici per presentare i documenti e scoprì, con gran piacere, che gli avevano già assegnato un alloggio nello stesso edificio centrale. Non seppe mai di quali influenze si era valso suo zio per ottenerlo. Ma ben presto scoprì che ciò che all’inizio gli era parso un privilegio aveva irritato più di uno dei futuri compagni.

    Un bidello lo condusse, attraverso il cortile e un corridoio sotterraneo, all’ edificio che per sei anni sarebbe stato la sua residenza. Più tardi, ormai familiarizzatosi, scoprì che quell’aspetto così nobile e quella magnificenza non erano  frutto del venerabile deterioramento dovuto ai secoli, ma che si trattava d’un ampliamento del 1913 -da qui il sottopassaggio- che andava a situarsi sull’altro lato della via Emmanuel.

   Tutti quei particolari, che sembravano non avere importanza, l’obbligarono a riflettere. Come aveva potuto credere che un edificio così recente fosse del secolo XVIII? Era forse portato a vedere, in ogni creazione umana, il segno inconfondibile di un determinato periodo, di una storia, di una tendenza di pensiero? Avrebbe dovuto aggiungere al suo decalogo una nuova voce: l’umiltà.

   Umiltà di fronte alla storia, ma non di fronte alle insolenze di alcuni compagni. Gli avevano assegnato, per fortuna, una camera così piccola che c’era posto solo per lui e che propiziava il suo desiderio di isolamento. Da una piccola finestra, situata all’angolo del primo piano, poteva vedere il cortile, con al centro un curioso esemplare di Paulownia. La presenza un po’ severa di quell’albero si armonizzava con il grigio della pietra, col tono annerito dei tetti e dei mattoni, e col verde un po’ spento del tappeto erboso. Cosicché, quando studiava con la sedia rivolta verso l’ esterno, il paesaggio che poteva contemplare, invece di causargli impulsivi sentimenti di lirismo anarchico, l’aiutava a recuperare l’equilibrio interiore.

   La vita era dura, ma gli piaceva. Aveva l’impressione, per non dire la sicurezza, che tante contrarietà servissero a rinvigorirlo. Nel collegio, le differenze sociali erano molto marcate e lui non occupava, certo, un posto tra i privilegiati. È vero, studiava a Cambridge, ma quando non indossava l’uniforme dell’istituto con quella sua cravatta azzurra rilucente di scudi, disseminati qua e là, dell’Earl di Westmorland, i vestiti normali tradivano la sua umile origine.

   Suo padre era un modesto funzionario delle Poste, destinato all’insignificante ufficio di Beaconsfield. Sua madre, di diverso livello culturale, procedeva da una famiglia più distinta. Le piaceva la letteratura, era molto sensibile all’arte e sembrava che tali inclinazioni avessero contribuito a formare il resto della sua personalità: la maniera di muoversi e un’aria di signorile semplicità. Già da piccolo, si sentiva attratto da tutto ciò che la madre rappresentava. Gli piacevano i piccoli poemi che gli leggeva, quei racconti così ben narrati, e il suo perfetto accento, diverso dall’ accento un tantino cockney, o per lo meno volgare, di suo padre.                  

   Imparò a parlare come lei, a muoversi come lei e a sentire come lei. Benché volesse bene a suo padre, ne provava vergogna e gli sarebbe stato spiacevole doverlo presentare in società. Ma anche da lui imparò molte cose. Cose che non avevano nulla a che vedere con la filosofia, con la signorilità, con le belle arti o con il comportarsi in pubblico. Grazie al padre seppe cosa fossero le lotte sindacali, il diritto di sciopero, la serrata, la paralizzazione dell’industria causati dalle disuguaglianze economiche, che si sarebbero potute risolvere se il governo avesse avuto la fermezza che gli mancava.

   Nella sua testa di adolescente, avida di sapere, cominciarono a introdursi concetti che richiedevano un maggiore approfondimento: lotta di classe, socialismo fabiano, prima internazionale, marxismo, fascismo. La madre possedeva il dono dell’altezzosità, il che le permetteva di vivere come se certe cose potessero essere ignorate. Lui, invece, cominciava a capire che la vita non è solo poesia e nobiltà d’accento, e neppure solo strategia sociale e miglioramenti salariali.

   Fu per questo motivo, forse, che s’interessò alla politica e, in quel mare di dubbi, cominciò a sognare una possibile classe dominante la quale, grazie all’aristocrazia della mente, sarebbe stata capace di concedere giustizia all’oppresso. Era dar ragione a suo padre, che non perdeva occasione di lamentarsi del governo, pur sapendo che quest’ultimo non sarebbe mai stato alla sua portata, alla portata di suo padre. E, del resto, neppure della madre. Persone come sua madre potevano apportare luce spirituale alla lotta, ma non potevano lottare. Per la lotta politica occorreva un leader, un uomo carismatico il quale, con grande visione del futuro, sapesse applicare i princípi della giustizia sociale con la sola forza della sua volontà possente.

   Per quali motivi sua madre, una donna che viveva al di fuori del tempo, si era sposata con quell’uomo dall’accento abominevole? Forse era anche questo un segnale che doveva assimilare, un avvertimento chiarificatore di ciò che può accadere quando la logica non è padrona delle nostre azioni e la lucidità della mente viene sostituita dall’obnubilamento dei sensi.

   Il nonno materno era deceduto da parecchi anni. Per motivi di cui mai si parlava, tutto il patrimonio, una bella proprietà agricola, era evaporato, sfumato per vie, senza dubbio, poco onorevoli. Il gioco, forse. Ma la famiglia manteneva quel tono che hanno i signori rurali e che solo si acquista attraverso generazioni. Non tutto era andato perduto: restava la figlia -sua madre- e un fratello, lo zio che gli pagava gli studi, un uomo particolarmente dotato che aveva potuto ottenere la laurea in  medicina prima che il nonno si rovinasse completamente. Lo zio, chirurgo, aveva l’ambulatorio a Londra, la sala operatoria all’ospedale e veniva consultato molto spesso dai colleghi. Per la sua professione, era molto noto tra la classe politica e ciò gli permetteva, pur con l’imparzialità che deve avere un medico davanti al paziente, di mantenere relazioni cordiali con membri di tutti quanti i partiti.

   Bernard lo sapeva. E, proprio per questi motivi, sentiva, più di chiunque altro, l’ obbligo di superare gli esami, possibilmente con il massimo dei voti. C’era, poi, il problema del denaro. Le spese degli studi andavano tutte a carico dello zio, ma per le altre, quelle proprie d’un giovane della sua età, non avrebbe accettato neppure un penny. Suppliva questa mancanza col modestissimo aiuto dei genitori e si ingegnava copiando appunti per qualche compagno di studi o sbrigando commissioni per alcuni commercianti della città. Era passato più di un secolo da quando gli studenti poveri facevano da camerieri a quelli ricchi. Lui non si sarebbe comunque dispiaciuto di tornare alle antiche abitudini. Infatti se si eccettuava quella palese servitù, i compagni non gli risparmiavano nessun altro spregio. Sia per il suo carattere, sia per la sua posizione sociale, non usciva mai con quelli che frequentavano i pub della città. Non aveva mai una bottiglia di porto in camera, non spendeva un soldo per un capriccio. Tuttavia, le privazioni e gli spregi, invece di umiliarlo e amareggiarlo, lo rendevano più forte. Voleva essere un leader e ci sarebbe riuscito solo a patto di temprare duramente il proprio animo.              

   Il primo anno fu il più difficile. Poi, piano piano, i compagni si abituarono al suo carattere non particolarmente taciturno, ma certamente orgoglioso e solitario. Allorché fu in possesso del titolo di Bachelor of Arts cominciò ad essere rispettato da coloro che ne ammiravano e invidiavano la grande capacità d’assimilazioen: non era il tipico studente che impara e basta, ma colui che impara per poi far fruttare ciò che sa. Tuttavia, non tutti i futuri propositi, annotati nel suo quaderno, si sarebbero realizzati.

    Aveva abbandonato l’idea di scrivere un libro di versi o un vasto poema. La lirica o l’epica non trovavano più nella sua mente la eco degli anni precedenti, quando sua madre l’aiutava a copiare Browning o godeva, tutto solo, con la ritmica eufonia del “Lepanto” di Chesterton. Ora, quando ascoltava recitare ad alta voce l’ “Annabel Lee” di Poe, ogni verso gli pareva puro artificio, creazione di una mente oziosa che si compiaceva nell’estetica dell’inutilità. E gli venivano subito in mente Ruskin e i preraffaelliti e quel singolare studente di Cambridge che si chiamava Oscar Wilde il quale, ai suoi occhi, era il massimo esponente di una società decadente, autocompiaciuta, condannata a un lento disfacimento, così come, secoli prima, era accaduto alla Roma dei viziosi.

   Per ciò detestava i compagni dall’aria affettata, gli snob che ritenevano segno di distinzione fumare oppio il sabato notte, coloro che, di nascosto dei “proctors”, trasgredivano le norme del collegio e si riunivano in case di malaffare frequentate da adolescenti, non già per dar via libera a una esigenza fisiologica, ma per posa, come se essere omosessuali, fumare droga o beffarsi della nobiltà dello spirito fosse proprio una qualità della gente più privilegiata. E il peggio era che la maggior parte di coloro che addottavano tali atteggiamenti -o posedevano realmente tale personalità- erano figli delle migliori famiglie, discendenti di qualche remoto Earl o di qualche Lord più recente e, forse, con genitori, nonni o fratelli che occupavano cariche di responsabilità nelle sfere governative.                          

   Lui, invece, di fronte a tale debolezza collettiva e per reazione, desiderava aumentare le proprie forze. E così, gradualmente, prese a disdegnare la decadenza dell’arte contemporanea, la crisi generale di valori che colpiva tutta l’Europa. Si interessò alle teorie che presagivano la filosofia dell’azione e scoprì quanto aveva fatto il siciliano Giovanni Gentile per dotare il fascismo di una struttura di pensiero.

   L’allontanarsi dal mondo dell’arte, il considerare l’atto come il fondamento dell’esperienza gli aprirono, per logica, le porte di una nuova attività: l’atletica. Non sapeva ancora quale sarebbe stata la sua disciplina, ma sentiva il bisogno di cimentarsi, come se la cultura del corpo gli fosse necessaria al pari della conoscenza della storia contemporanea. Ore di palestra, un giorno un po’ di box , un altro un po’ di rugby, finché l’allenatore gli comunicò che era dotato per il salto in alto. E lo praticò con la stessa tenacia che dedicava allo studio del greco o delle teorie economiche. Ancora una volta la forza di volontà fu la chiave del successo che si palesò il giorno in cui, davanti a una moltitudine in attesa, dimostrò di essere non solo il migliore saltatore dell’Emmanuel College, ma di tutta Cambridge. Forse, per la prima volta, provò cos’erano il calore dell’amicizia, l’ebrezza della vittoria e il sorriso fiorito delle ragazze.   

   Ebbero fine le prese in giro: i possibili nemici di prima lo rispettavano, e alcuni dei suoi ammiratori gli divennero amici. Poteva discutere, dire la sua nelle riunioni, divulgare il proprio pensiero politico: si rendeva conto che con le sue argomentazioni riusciva a convincere qualcuno o, almeno, a farlo dubitare della solidità delle sue tesi.

    Lo agevolava la situazione europea: era sempre più evidente la debolezza dei governi democratici di fronte ai progressi del comunismo. La Gran Bretagna aveva perso la supremazia nell’ambito economico e militare. Le antiche classi dominanti, procedenti da una aristocrazia provvista di marcate virtù per esercitare il potere, venivano soppiantate da una valanga di burocrati e di tecnocrati, spinti da un sindacato privo di volontà pianificatrice e di visione del futuro. La vecchia Inghilterra rurale, agricola e allevatrice di bestiame aveva visto crollare la propria economia per la concorrenza dei mercati della Nuova Zelanda, degli Stati Uniti, dell’Australia o dell’Argentina. In pochi anni, il Paese dovette trasformare le sue strutture quasi bucoliche in industriali, sino a farlo diventare il fornitore di mezzo mondo. Ma, ancora una volta, l’inutile lotta di classe, le sterili opposizioni tra le masse lavoratrici e i trust industriali minacciavano l’economia di un Impero che, dapprima, non potette competere coi prezzi, poi con la qualità e, infine, col trasporto. Per proteggere le tantissime rotte marittime occorreva una marina da guerra come deterrente. Ma l’operario non voleva rendersi conto che, se le rivendicazioni sociali fossero giunte a limiti insopportabili, l’industria ne avrebbe fatto le spese e sarebbe crollata, come era già avvenuto con l’agricoltura, quando fu conveniente acquistare grano dal Kansas e carne dalla Nuova Galles e non dai produttori locali.

   Ecco perché riteneva degno di studio un sistema sindacale che, invece di raggruppare in organizzazioni separate operai e impresari, li univa in corporazioni, in un sindacato verticale dentro cui si poteva dibattere alla pari ogni divergenza, avendo però sempre presente il comune obbiettivo: il bene della nazione.

   S’era fissato un altro obbiettivo: collaborare con la stampa. Non ebbe molta fortuna. Riuscì a fare accettare dalle riviste locali alcuni articoli non remunerati. Ma quando ne inviò uno a “The Guardian” gli risposero, molto gentilmente, che, se avesse continuato a scrivere in quel modo era meglio che indirizzasse le sue note alla sezione “lettere al direttore”.

   E giunse il giorno in cui, entrando nella cappella del collegio e contemplando per l’ennesima volta quella bellissima facciata disegnata da Sir Christopher Wren, scoprì di essere incapace di teorizzare sull’arte con cognizione di causa, di non capire la profonda filosofia che si celava sotto ogni linea del neoclassicismo e che l’arte era stata per lui niente altro che un modo inconscio d’ammirare sua madre. Nella cappella, con il libro dei canti in mano, dovette accettare una nuova realtà: la sua fede religiosa era, in ogni caso, una fede intellettuale, altrettanto distante come può esserlo la risoluzione di un problema matematico il cui contenuto ci lascia indifferenti.

   Quella notte estrasse il quaderno dal cassetto. Ormai, aveva rinunciato a scrivere poemi. Poteva optare per l’arte in generale, ma l’errore commesso allorché datò l’edificio dove si trovava la sua camera e l’indifferenza provata davanti a un capolavoro del grande architetto inglese contribuirono a modificare gli altri propositi. Senza dubbio si sarebbe recato in Italia, ma non per vedere il foro romano o l’apogeo rinascimentale di Firenze. Ci sarebbe andato per preparare una tesi politica. Se Giovanni Gentile era di Castelvetrano, perché non andare addirittura in Sicilia?

   Mussolini aveva instaurato una dittatura e per ciò veniva diffamato. Eppure, non era questa la reazione adeguata, poiché bisognava prima chiedersi: era necessaria?  Sembrava, per il momento, che quel condottiero moderno godesse delle simpatie del re, delle banche, della piccola borghesia e, allo stesso tempo, della grande industria del nord e dei propietari terrieri del sud. Aveva saputo risolvere il problema tra Chiesa e Stato, elevare i lavori pubblici a uno splendore inimmaginabile, potenziare l’industria tessile e automobilistica, prosciugare paludi insalubri. In poche parole: dava agli italiani un motivo per sentire la patria e restituiva loro lo splendore che una politica di camarille aveva dilapidato. La Sicilia sarebbe stato il banco di prova. Terra dura, terra di poveri affamati che erano costretti ad abbandonarla, in un esodo costante, verso gli Stati Uniti o verso l’Australia. La Sicilia,  terra dalle strutture feudali con un latifondismo che aveva favorito lo sviluppo della mafia, terra dell’oscurantismo culturale proprio del Medioevo.

   Ora, come una esigenza perentoria, gli tornava in mente una frase che aveva letto un giorno senza prestarvi attenzione. Si trattava di un commento di D.H. Lawrence che diceva: “La Sicilia ha dato a tutti coloro che l’hanno visitata il loro momento d’ispirazione; e poi, ne ha distrutto l’anima”.

   Ma non la sua, ne era certo. Con un gesto quasi violento cancellò dal quaderno la parola “poemi” e riempì una intera pagina con un un solo nome che sembrava quasi una esclamazione: “Sicilia!”.