Il secondo capitolo di “Katharina Von Raitenau” – Romanzo di Joan Basté

Una fotografia di Roberto Denti

Joan Basté

Katharina Von Raitenau

Romanzo – Capitolo II

II

   Già da un po’ aveva lasciato Watford. I cartelli che indicavano i paesi erano altrettante evocazioni di esperienze di vite passate o recenti. Vicino a Luton v’era Dunstable, dove Paul aveva avuto la sua prima casa dopo le nozze, quando sembrava che un lavoro all’ufficio della contea sarebbe bastato a soddisfare  le sue aspirazioni. Un altro cartello indicava St. Albans, e St. Albans era il suo presente, forse sul punto di svanire. Più in là Cambridge, con l’Emmanuel College, dove aveva vissuto i migliori anni della sua adolescenza, preludio della grande fuga in Italia. Aveva l’impressione che tutte quelle discipline -studi, amicizie, discussioni, speranze e sacrifici- non fossero state altro che una preparazione alla vita che l’aspettava. E la vita era stata proprio questo: la Sicilia, accanto a Katharina von Raitenau, la ragazza viennese che si dedicava all’archeologia.

   Sì! Ma l’Europa era una polveriera sul punto di esplodere.   

   Ora, in piena pace, amara, s’avvicinava a St. Albans. La gioia effimera, vista in prospettiva, appare solo un sogno. Si dirigeva all’ospedale portando sulle spalle settant’anni stanchi, ricordi incerti e quella fitta che, di tanto in tanto, lo riportava all’ inevitabile presente.

   St. Albans non è neppure una grande città. Oggi, poiché la moda del turismo valorizza ogni cosa, basta che un paese possegga una torre normanna o una cattedrale gotica perché stampi migliaia di dépliant destinati a reclamizzare cose che, nel loro tempo, erano abituali come lo sono oggi i supermercati. E fa lo stesso se sono supermercati o chiese, ognuno cerca di vendere quello che ha. C’è una funzione  spirituale e una materiale. E deve curare gli affari sia colui che vende una poltrona di prima fila per la gloria eterna, sia colui che offre modesti panzarotti artigianali. Il banchiere mette marmi e ostenta ricchezza; il militare, mura difensive e garitte deterrenti; il medico, lucide nichelature e sensazioni di nettezza; l’attore, maschere e scenari; l’ artista, il disordine ordinato della bohème, che poi è letteratura già vista. C’è da meravigliarsi, quindi, se la casta dei sacerdoti utilizza il rito delle antiche forme orientali, con l’incenso, le vesti talari, i piviali e tutto l’arredamento propiziatorio? La fede antica doveva nutrirsi della lettura visiva delle immagini dei capitelli, delle pale e degli affreschi. Quando il popolo non sapeva leggere, lo scultore e il pittore erano i loro narratori. E ciò continua anche oggi, poiché vedere la televisione è molto più comune che leggere un libro. 

   Con questi pensieri giunse all’ospedale. In portineria consultarono la sua cartella clinica e gli assegnarono l’ora per la visita medica. Il Dr. Barrington era già arrivato, ma lui doveva attendere fino a mezzogiorno.  

   Fece un giretto in città. E come colui che con gli occhiali può distinguere nettamente le cose tra loro, pure se attaverso un inevitabile vetro, così gli era possibile vedere le acacie, un bambino che si reggeva a fatica su di una bicicletta, due comari che chiaccheravano giú per la strada, il negozio di abbigliamento con le novità per l’inverno, il placido giardino, un campanile lontano, sempre attraverso il dolore sordo o, quando non provava dolore, attraverso il pensiero del dolore. Era come se tutte le proposizioni si costruissero dicendo: “Questa sera verrà Kathleen a cenare, eppure devo avere un cancro”. “Mi piacerebbe rileggere i racconti di Kipling, eppure devo avere un cancro”.

   E anche se il dottore l’avesse tranquilizzato, a cosa sarebbe servito? Quella preoccupazione ne aveva generata un’altra: ormai,  in un modo o nell’altro, la sua vita stava per concludersi. Semplicemente perché aveva settant’anni e, nel migliore dei casi, gliene potevano forse rimanere otto o dieci di vita compensatrice. O solamente sei. Era come se la mente fosse ancora in grado di programmare esperienze di vita tumultuose e durevoli, ma il corpo sapesse, invece, che tutto si riduceva a un gioco breve, triste, di basso volo e di nessuna ambizione. “Probabilmente è l’ ultima volta che vengo a St. Albans. Non ritornerò più in Sicilia. Non vale la pena fare programmi, né progetti, né avere ambizioni. È l’agonia. Forse solo quattro anni, una briciola di vita, un miserabile sorso di lucidità che rende più doloroso il commiato”.

   Cambridge, Katharina, la Sicila erano nomi di un mondo già esistito e dal quale si era sentito espulso. Vera, Kathleen, Paul, la stipsi erano il mondo indiscutibile della sua realtà, la realtà con cui tutti finiamo per fare i conti: la realtà del distacco, del fallimento, dei figli avuti per errore, delle defacazioni dolorose, della pungente facoltà di pensare, dei succedanei dell’anelito di pienezza. Poiché tutto ciò che non sia vita anelata è morte, l’unica soluzione universale che tutti eguaglia.

   Il resto, l’antimorte, deve essere la vita eterna e credere in essa è alla portata solo dei santi e dei semplici. L’uomo intelligente dubita, almeno. Quindi, se esiste la possibilità di crearci uno stadio di vita superiore lo dobbiamo realizzare qui e ora, con gli studi di Cambridge, il viaggio in Italia e gli amori di una Katharina talmente magica che ha finito per… Per scomparire? Per scappare da questo mondo come se d’ombra si trattasse? No. Katharina, quella con passaporto e stato civile, ha continuato a vivere e forse vive ancora oggi, anch’essa vecchia e anch’essa amareggiata, rimuginando il suo passato rintanata nell’appartamento viennese.

   L’altra, la siciliana, quella delle promesse d’amore eterno -un amore salvifico di allora e di sempre- quella Katharina più reale di qualsiasi cosa tangibile, la assassinò lui, vergognosamente, molti anni prima, in un angolo quasi vergine della foresta di Ceylon, quando si recava dalla piantagione di Morley verso Kandy e portava Vera nell’auto, e si fermarono. Non altro che foga dei sensi! Ma credeva che Katharina fosse morta, e Vera era bianca, britannica e di ottima famiglia. E alla fine la sposò.

   Tornò in ospedale. Il Dr. Barrington lo fece passare subito. Con un po’ di fortuna sarebbe potuto andare fino a Cambridge a pranzare in uno di quei ristoranti chiassosi che aveva tanto frequentato mezzo secolo prima. Aveva ragione Vera nel pensare che non sarebbe tornato a casa per il pranzo. Non c’era neppure bisogno di telefonare. A meno che il dottore gli desse una buona notizia. Perché neppure Vera era colpevole del suo errore, là a Ceylon, errore che ora tutti dovevano pagare.

   -Come va, Mr. Quayle? Come sta?

   -Cosí così. Oggi, per esempio, ho un giorno fortunato: come se non fossi ammalato.

   Perché gli nascondeva la fitta, così persistente dell’ultima mezz’ora?

   -Stanchezza?

   -Beh, questa sí! Ma non ho più vent’anni!

   -È dovuta a queste malattie. Sono traditrici. Ci permettono di illuderci per un po’ e, poi, crac!

   -Cosa vuol dire con questo “crac”?

   -Abbiamo i risultati dell’altro giorno, sa?

   -Dell’ecografia? Di tutto quel daffare per vedere come ho la pancia internamente?- disse con un tono che voleva sembrare allegro.                 

   -Sì, si tratta proprio di questo!

   -Ebbene?

   -Che l’abbiamo vista.

   -Dunque?

   -Che non ci piace molto.

   Il dottore tentennò. Non sembrava essere persona molto abile nel ricorrere a circolocuzioni pietose.

   -Mi può dire la verità. Anzi, voglio che me la dica: non ho paura. Sono stato ufficiale dell’esercito.

   Non era proprio così: era stato Major della polizia coloniale. Ma ora, quando l’ Impero si disintegrava definitivamente, quando parlare delle antiche colonie sembrava quasi un reato di cui gli inglesi dovessero pentirsi, si vergognava un po’ di vantarsi della sua antica uniforme, di sapere l’esatta differenza che intercorreva tra un singalese e un tamil, e tra un tamil e un britannico.

   -Cancro di colon- disse freddamente, senza mezzi termini, il dottore.

   -Si può operare?

   -Alla sua età non ne vale la pena. Ciò che temevo è stato confermato dall’ecografia: ci sono metastasi epatiche.

   -È grave?

   -Mortale.

   -Un anno? Sei mesi?

   -Due… Forse tre…

   -Due o tre anni?

   -No, mesi.

   -Dolore?

   -Ne riparleremo quando si presenteranno. Adesso debbono essere ancora sopportabili.

   -E il finale?

   -L’occlusione. Il male prolifera, ostruisce le budella. Tutto quanto ingerito deve trovare un’uscita dopo aver fatto la digestione. Ma non la trova, non c’è.

   -E allora?

   -Quando la situazione diventa insostenibile, si può sempre rimediare con un ano artificiale. 

   -Di che si tratta?

   -Creare una uscita artificiale e connetervi il tratto di budello che ancora funziona.

   -Asportando il tratto malato?

   -Sì, se ne valesse la pena. Potremmo allungare la vita di un anno, due, forse tre. Ma la complicazione più grave che può presentare una neoplasia di colon è la metastasi epatica, e lei l’ha già.

   Ci fu un silenzio imbarazzante, una pausa difficile.

   -Lei mi ha chiesto la verità. Molti pazienti preferiscono sapere. Forse per mettere un po’ di ordine nelle cose dell’anima.

   -Ma bisogna aver fede.

   -Sì, certamente. Senza fede, si ha solo più disperazione. È duro tutto ciò, lo so.

   Gli avrebbe voluto dire che si può anche accettare la morte con la forza che proviene dalla dignità. Si può morire decorosamente per amore di un ideale di questo mondo, per amore di una persona di questo mondo. Ma riuscì solo a dire:

   -Anche lei morirà. Non è, però, una idea che mi tranquilizzi.

   -Un medico pensa alla morte in modo diverso, fino a quando non lo tocca personalmente. Ed è naturale che sia così. Altrimenti non potrebbe fare il suo lavoro.

   Una nuova pausa.

   -Non è necessario che lo dica a mia moglie. Troppa tenerezza mi infastidisce.

   -Lo capisco.

   -Nessuna dieta, quindi?

   -Non ce n’è bisogno. Se non ha appetito, mangi e beva almeno ció che le piace.

   -Se dico a casa che posso mangiare di tutto, mi risulterà più facile tranquillizzarli, evitare che mi coccolino come un bambino abbandonato.

   -Ne è sicuro? Non pensa d’aver bisogno di qualcuno su cui contare?

   Immaginò, quasi fosse una trappola poco felice della mente, di bussare alla porta di una casa di Vienna. Sarebe venuta ad aprire una vecchia, e lui avrebbe detto: “Sono Bern. Ti amo Katharina. Aiutami. Sto morendo”.

   Ma era la voce del Dr. Barrington che gli diceva:

  -Non tarderanno molto nel saperlo. Purtroppo, il processo sarà molto rapido.

   In quel preciso istante l’insistenza del dottore era controproducente. Aveva appena intravisto una tenuissima luce in quella notte desolata. Sarebbe andato a Cambridge, sarebbe entrato nel cortile del Collegio e, di ritorno a casa,  avrebbe sistemato le carte della Sicilia, riesaminato gli appunti che aveva scritto quando si preparava a conquistare il mondo; avrebbe creato nel ricordo la vita che non aveva potuto vivere e il tutto sarebbe stato il suo viatico, come se gli insucessi fossero stati solo artifici preparatori per la vittoria finale del pensiero sulla materia. E perché non volare fino a Vienna?  

   -Potrei recarmi in Austria?- chiese, come un naufrago che chiede aiuto.

   -Morire in Austria?- replicò il dottore sconcertato.

   Era troppo facile disperarsi. La vera difficoltà era riflettere. La riflessione dell’ inesperto che vede bruciare la casa e non dispone di alcun dispositivo antincendio.  Disperarsi era come bruciare dentro la casa.

   Non sapeva che Vera era al corrente dei risultati delle analisi. Il medico le aveva telefonato, s’era recata fino a St. Albans e lì aveva ricevuto, stoicamente, la notizia. Ora fingevano entrambi. Fingere è una meravigliosa forma di convivenza. Soprattutto, dare a vedere che ci si vuol bene. La realtà diviene insopportabile. Tendiamo a evaderne: la poesia, l’alcol. Ma per gli astemi e per coloro che sono privi di immaginazione non rimane che la finzione, una modesta versione della realtà sognata e mai realizzata.

   Una volta a casa, non ne avrebbe parlato con nessuno. Il bacio alla figlia dovrà sembrare un bacio di tenerezza e sarà, invece, quasi di commiato. Con Vera non c’erano neanche più baci. Per abitudine, qualche volta. Erano trascorsi molti anni -ormai più di quaranta- da quando se li davano per attrazione sessuale. Ma erano stati, qualche volta, anche d’amore? Probabilmente mai. E, tuttavia, l’amore esiste. Lo sapeva molto tempo prima di conoscere Vera. Dai tempi di quella Sicilia irripetibile, di quella Katharina perduta a causa della guerra, della sua maschile impazienza sessuale. Lui, a Ceylon, in quell’angolo di mondo dove compilava montagne di scartoffie amministrative, era convinto di essere un servitore dell’ Impero. Lei, a Vienna, capitale di quell’Austria che con l’Anschluss del 1938 aveva abbracciato la causa nazista, ed era diventata nemica della gran Bretagna.

   Si accomiatò dal dottore con parole banali. Aveva ormai deciso: avrebbe trascorso il pomeriggio a Cambridge, la città che lo aveva visto studente e vincente, nei giorni in cui si spera di rendere spendibili i successi.

   Vi era giunto in un soleggiato giorno di settembre, un giorno come quello odierno, dal clima benigno, che invitava alla riflessione, ma anche alla pienezza del vivere.