UN BELLISSIMO NOVEMBRE, A CALTAGIRONE… -PREMIO “MARIO TORTELLI”: la prima segnalazione. Pubblichiamo a puntate un capolavoro ambientato a Licodia Eubea del grande scrittore catalano Joan Basté. Capitolo I.

Joan Basté

Katharina von Raitenau

romanzo

I

   Si palpò l’addome, con cautela. Neppure l’ombra del dolore. Dabasso, la moglie lavoricchiava. Gli arrivò, di colpo, dalla tromba delle scale, l’odore delle fette di pane tostato e del bacon che si stava rosolando. Aveva appetito: buon segno.    

   Era incerto se andare o meno al bagno. Sapeva che il suo era un atteggiamento vile. Era stato sempre vile di fronte alla prova del fuoco o di fronte a un dubbio. Gli pareva che se avesse ignorato il male, lo avrebbe, in un certo qual modo, eliminato. Molto spesso quel che ci spaventa di più è conoscere la realtà.

   Tutto ebbe inizio con quella stipsi pertinace. “Non sarà nulla,” fu la risposta immediata “un giorno o due!”.

   Come nei bambini: troppi dolci, poca verdura, o altro… Ma due settimane…, eppoi quel dolore sordo alla bocca dello stomaco.

   Alla fine si decise: meglio non pensarci, rifugiarsi nella lettura d’una rivista banale, sedersi sulla tazza, e non pensare a nulla. Se non si fosse trattato del suo corpo e della sua sofferenza, se la paura non fosse stata la sua, sarebbe stato miserevolmente ridicolo ritenere che un uomo che aveva studiato a Cambridge, ottenendo voti eccellenti in ogni materia, e in possesso della D.S.O., vivesse ossessionato da un fatto così volgare, abitudinario, abietto e tabù quale è l’andare di corpo.

   È possibile che la rivista, con le sue notizie, l’avesse distratto e aiutato. Questione di nervi, dopotutto. Sarebbe andato dal medico quella stessa mattina; avrebbe percorso le miglia che lo separavano da St. Albans, ma sì ci sarebbe andato. E gli avrebbe detto: “Tutto sommato, solo nervi”. Non sentiva più dolore e aveva scaricato nelle fogne il suo pacchetto di umane servitù, la sua miserabile razione di escrementi.

   Si pulì, quasi felice. Scese in cucina. Adesso, che i figli non vivevano più con loro, facevano colazione in cucina.

   -Come va? Come ti senti?

   -Bene. Tutto sommato si è trattato di un assurdo allarme.

   -Hai appetito?

   -Sì.

   E lei mise in tavola le fette di pane tostato, le uova, il bacon, il burro, la minuscola saliera d’argento, l’acqua minerale.

   Mangiarono in silenzio. Da anni mangiavano in silenzio. Da anni invecchiavano in silenzio, tranne in occasioni come questa in cui una malattia inattesa alterava la routine giornaliera del vivere in comune. Perché la vita in comune era ridotta a questo: amministrare la casa in modo corretto (lei aveva il proprio conto in banca), vedere la televisione, ricevere ogni tanto qualche vicino, riunirsi con i figli. Null’altro. Non leggevano libri che potessero interessare entrambi, né progettavano viaggi da godersi insieme. Erano anni che la più assorbente routine s’era ormai impadronita della casa. E nessuno dei due si preoccupava di spodestarla. Il silenzio, la ripetizione degli stessi gesti, l’assenza di parole che ormai non avevano più alcun significato, era il modo migliore per mantenere in piedi il matrimonio sino alla fine.           

   All’improvviso, però, era subentrata la paura. E con la paura, l’odio. L’idea di una morte più o meno immediata lo tormentava. Odiava la moglie per il solo fatto che gli sarebbe sopravvissuta, come se in ciò vi fosse una immensa ingiustizia. Ed era quella  stessa paura che l’induceva a guardare al passato, a inventariarlo, a farne il bilancio. Era ormai troppo tardi per rettificare il corso della propria infima esistenza. Sarebbe morto in un abbandono assoluto, senza alcun trofeo, perché aveva sempre tralasciato di fare ciò che avrebbe dato pienezza alla sua vita per costruire il castello della propria mediocrità.

   Anche se la cosa non aveva senso, non poteva fare a meno di pensare che quel dolorino l’avrebbe ucciso. Non subito, certo, ma col tempo. E si prospettava il quadro clinico: le difficoltà sarebbero aumentate fino all’occlusione acuta, all’infezione di qualche tratto dell’intestino e, conseguenza inevitabile, la peritonite.         

   Tutto a un tratto, gli venne in mente ciò che accadde, una volta, nella foresta, quando un suo collega si perforò il peritoneo e lo dovettero portare con la jeep all’ospedale più vicino, mentre il moribondo vomitava escrementi, ammorbando il veicolo d’un lezzo asfissiante.   

   -Vuoi della marmellata?

   -Cosa ha detto il medico?

   -Che puoi mangiare di tutto.

   Il tostapane era lì, di fronte all’efficente moglie, che inseriva le fette nelle fessure, una dopo l’altra, fino a quando queste non fossero state espulse spontaneamente, una volta raggiunto il preordinato colore dorato.

   Durante la colazione non usavano tovaglioli, li avevano sostituiti con quelli di carta che finivano direttamente nella spazzatura. Non si serviva né tè, né caffè, ma solo acqua. Tutto era previsto e calcolato. Il tè al pomeriggio, il succo d’arancia i giovedì mattina e i giorni di festa, vino per Natale e Capodanno, birra quando c’erano invitati maschi, il porto o il jerez mezz’ora prima della cena. Sidro, mai. Il sidro, per qualche motivo misterioso, era considerato bevanda da plebei.

    Con la stessa sicurezza di chi non deve ripensarci più, lei era convinta  che avessero ragione i conservatori: sapeva a quale chiesa bisognava appartenere, quale Santo adorare e quale no. Il mondo avanzava sui binari precisi del “Daily Telegraph”, e il suo posto era quello assegnatole dal pastore della propria parrocchia e non dal pastore della parrocchia della vicina contea, poiché, -non si sa mai!- avrebbe potuto trattarsi di uno di quei giovani liberali, desiderosi d’abbadonare il “Common Prayer Book”. Leggeva le notizie della sua comunità spirituale -collette, matrimoni, morti- con la stessa dotta educazione con la quale leggeva le quotazioni di borsa e parlava con il chierico, come se parlasse con il suo agente di borsa. Non faceva molta differenza tra salvare la fortuna e salvare l’anima.

   -Esco.

   Non era stata una fitta, doveva essere stato, ne era sicuro, un movimento sbagliato.        

   Lei era intenta a mettere i piatti nel lavello. 

   -Dove vuoi andare?

   Preferì non parlare della fitta, né dire che sarebbe andato a St. Albans. Gli pareva che se non avesse dato tanta importanza alla malattia, questa avrebbe finito per accettarlo, e si sarebbe arresa.

   -Sto bene. Desidero uscire e distrarmi un poco. Sono troppi giorni che non mi muovo da casa.

    -Oggi è il giorno in cui viene Kathleen, ricordatene.

   Come avrebbe potuto dimenticarlo? Perfino il rapporto con sua figlia si era trasformato in una routine tra le altre, quella del venerdì pomeriggio. Lei, una volta uscita dall’ufficio di Londra, andava a cena dai genitori: e, una settimana dietro l’altra, portava nella casa di Great Missenden il peso amaro della sua condizione di zitella.

   -Certo che me ne ricordo!

  Come sempre, si sforzò di non mostrare la sua intima irritazione. Anche lui ricordava le cose, anche lui poteva essere efficiente, anche lui sapeva stare in società senza giocare, a ogni piè sospinto, il ruolo della vittima.

   -Tanto non viene che stasera, e non penso di pernottare fuori.

   Tra una frase e l’altra c’era stata una brevissima pausa, più che sufficiente, però, a farlo cadere nell’errore d’espremersi in quel tono, il tono dell’impazienza. Era stufo di Vera e della sua apparente perfezione, della sua costante esibizione d’efficienza. Ma se si irritava era peggio, era come darle dei buoni motivi per farla sentire sempre più virtuosa, e meno compresa.

   -Un giorno o l’altro dovrò tornare all’ospedale- disse.

   -Il medico mi telefonerà quando avrà i risultati.    

   -Li dovrebbe già avere. Sono già trascorsi vari giorni dalla visita.

   Era degradante. Degradante e triste. Dedichiamo una parte importante della nostra vita a credere d’essere creature privilegiate, quasi angeli asessuati, appena schiavi della materia. Finché arriva il momento in cui un signore, vestito di bianco, con aria impersonale, vi dice macchinalmente: “Si spogli!” E devi mostrare la tua nudità indifesa, i tuoi testicoli caduti dentro una borsa, che è ormai tutta rughe, e il sesso flaccido, e devi dimenticare che, in altri tempi, furono frutti desiderati di qualche adolescente che te li guardava, mentre ti libravi nel salto che ti avrebbe consacrato campione di Cambridge. E ora, puntellato contro una tavola e con le cosce serrate, quel laureato in medicina ti fruga l’ano con il suo dito inguantato di plastica.

   -Si sdrai!

   E ti spalma la pomata su tutto il ventre, sul lato del fegato e sullo sterno. Ma tu non sai se si tratta dell’ileo o del cieco o del colon o della prostata. Ti frega quella specie di pennarello enorme sul ventre e lo muove da una parte all’altra per ottenere -dice- una ecografia.

   -Dove pensi di andare?

   -Non lo so,- mentì -tirerò fuori la macchina. Non ne hai bisogno, vero?

   -Kathleen viene a cena, ma ho già comprato tutto.

   -E a dormire, suppongo.

   -La camera è già pronta.

   A Singapore, aveva avuto un tenero letto da adolescente; qui, a Great Missenden, il suo era un letto difficile, da nubile, e le pareti erano lisce, impersonali. A Ceylon, quando venne al mondo, le arredarono la camera con un’ingenua carta da parati che imitava un bosco di fate, con alberi irreali, scoiattoli che facevano capolino tra i rami, e funghi giganti che fungevano da casette per gli gnomi.

   Per quale ragione Kathleen non può essere felice? O è forse il suo nome che è una maledizione? Ha più di quarant’anni. Non la si può sgridare come quando era bambina. Ora contesta ogni cosa, come se provasse piacere a contrariare sempre sua madre. Non le avrebbe dovuto mai mettere quel nome. Vivere una seconda gioventù, nella gioventù della figlia, era pretendere l’impossibile.

   Verrà a cenare e, nel migliore dei casi, guarderanno assieme quello stupido programma del venerdì. Altrimenti, ognuno si rifugerà nel proprio passatempo preferito: un libro, le parole crociate, un ripasso alle fatture o alle nuove ricette di cucina ritagliate dal supplemento domenicale. Ma se le cose fossero andate male, lui avrabbe dovuto essere il testimone silenzioso e inoperante di quella lotta sorda tra madre e figlia, di quella rivalità che era iniziata già prima che la ragazza fosse stata concepita.

   Passò dalla cucina all’autorimessa. Schiacciò un bottone, e la porta basculante si aprì automaticamente. Mentre saliva la rampa soave che moriva sulla strada, vide, attraverso la finestra della cucina, il volto di sua moglie che lo guardava con una leggera angoscia negli occhi. Fu sul punto di fare un gesto di commiato, un sorriso rassicurante. E forse l’avrebbe fatto, malgrado gli anni trascorsi dal momento in cui, in modo tacito, avevano deciso di rinunciare alle manifestazioni di tenerezza e alle effusioni della carne. Il sesso era divenuto una incomoda e, a volte, frustrante fatica. La delicatezza dei baci pareva inadeguata in quell’ambiente di quotazioni di borsa, ricette culinarie e orazioni dette per abitudine. Ma forse l’avrebbe fatto, quando un’inopportuna fitta addominale gli sconvolse nuovamente l’equilibrio.

   Solo una fitta. Se si fosse conficcato un ago da sacchi nella palma della mano, mille volte più doloroso, non si sarebbe affatto preoccupato. Non era il dolore che si rendeva insopportabile, ma il pensiero. Il pensiero che sotto quella massa di pelle e grasso, di carne invecchiata e muscoli flaccidi, un enigma continuava a lavorare.

   Tutto era incominciato circa un mese prima con quella stipsi curata, all’inizio, come un disturbo che si poteva anche risolvere con una normale terapia casalinga, che si mostrò, però, del tutto inefficace. Non aveva mai avuto difficoltà ad andare di corpo. Si era infatti sempre vantato d’avere un orologio al posto dell’intestino. Si vide dapprima obbligato ad alterare il ritmo: dalla servitù giornaliera passò a un intervallo di due giorni, poi di tre giorni, con qualche miglioramento transitorio. Finché non gli fu più possibile rinviare la visita medica.          

   Il medico del paesino – nonostante il nome, Great Missenden era un borgo minuscolo- serviva quasi unicamente per compilare i documenti con i quali i pazienti potevano recarsi all’ospedale di St. Albans. E fu prprio il medico dell’ospedale che incominciò ad allarmarlo. Non con le parole -malgrado la scontrosità, cercò di fargli capire che sarebbe andato tutto bene-, ma con i fatti. Troppe velocità di sedimentazione, troppi prelievi di sangue e di orina, troppe transaminasi, radiografie ed ecografie per una volgare stipsi.

   Vera volle accompagnarlo a tutte le visite. “Se ti dovessi mettere a dieta, mi sembra giusto che io parli con il medico”. Aveva ragione. Ogni qualvolta usciva dall’ambulatorio la scrutava, come se dall’espressione dei suoi occhi, da un rictus impercettibile della bocca potesse scoprire se tra lei e il dottore c’era stato un dialogo segreto, mentre lui nella stanza accanto era intento a rivestirsi. Ma non c’erano diete né segreti, a meno che Vera mantenesse, anche in tali circostanze, quella maschera d’impassibilità che riteneva una delle migliori dimostrazioni di comportamento sociale. La sua massima virtù, infatti, non consisteva nel provare questa o quella emozione, ma nel non dimostrarne alcuna.

   Kathleen ea più trasparente. O lo era stata anni prima, quando tutti e due erano ancora capaci di giocare  nel grande giardino -non a Singapore, allorché lei aveva circa otto anni, ma nell’attuale, e lei ne aveva già compiuti venticinque-. Kathelen lo spronava sui fianchi, mentre lui faceva il cavalluccio, e Vera  si scandalizzava. Per sua moglie era immorale che una figlia, con tutte le forme di una donna, potesse assumere simili posizioni, fosse anche solo per giocare con suo padre.    

   Ora, a quarantun anni, pur non possedendo la raffinata ipocrisia della madre, non se ne sarebbe nemmeno potuta lodare la sincerità, che non era costruttiva. Bisogna temere quelle persone che, amareggiate per la propria sventurata esistenza, non vogliono riconoscere che la felicità sia possible in questo mondo.  

  Quando lui si intestardì nel metterle quel nome, Kathleen, fu proprio perché, in un certo momento della vita, aveva creduto nella felicità. Il nome della figlia era un costante ricordo di quella trascorsa e svanita credulità. Kathleen – in tedesco, Katharina- era infatti il nome della donna che aveva amato, una ragazza austriaca che sembrava creata a bella posta per la gioia e per il pieno godimento della vita. La guerra era stata però la madre di tutte le frustrazioni, la disvelatrice di quanto di falso c’è nei grandi ideali che ubriacano la nostra adolescenza. Il nome della figlia avrebbe dovuto ricordargli il tempo in cui la felicità era stata possibile, ogni qual voltà la realtà gli avesse reso insopportabile il vivere quotidiano.     

   Ora non giocavano più a cavalluccio nel giardino, e la temuta inqopportabilità era arrivata. Era arrivata e gli aveva fatto scoprire che non era poi così insopportabile. In fin dei conti, l’importante era vivere. Non importa se con Vera, sempre più un’appendice fastidiosa e impossibile da estirpare, o con Kathleen, così remota da non essere neanche più l’eco della melodia perduta. Perfino con la stipsi, purché gli restassero ancora dei surrogati della pienezza del vivere, surrogati mediocri, la tavola, le parole crociate, la televisione.

   Kathleen non era più il barometro del suo clima spirituale. Troppi piccoli drammi, provocati spesso dalla madre, avevano minato le illusioni della ragazza. Vera, con una sapiente abilità distruttiva, aveva saputo allontanare dalla figlia ogni possibile amica intima e anche i pretendenti poco tenaci. Anche i trasferimenti erano serviti a distruggere ogni radice. Vera, con il silenzio e con i suoi ipocriti veli d’innocenza, dava sempre l’impressione di volere vendicare sulla figlia la felicità che non era mai riuscita ad ottenere. Le regole morali che applicava con la povera Kathleen sembravano ispirate dall’amore e dalle buone intenzioni, mentre invece -e forse in modo non del tutto consapevole- erano dettate dall’odio contro l’altra Katharina, quella -e lui ne era il colpevole- il cui fantasma si era già interposto tra i due sin dalla prima notte di matrimonio.        

   Paul, il figlio, era pessimo. Era stato il cocco di mamma per il solo fatto d’essere uomo, di non chiamarsi Kathleen e di portare il nome del padre di Vera. Era un poveraccio di trentacinque anni, sposato e padre di due bambini odiosi, lavoratore alterno, venditore oggi di automobili di seconda mano, incaricato domani delle relazioni pubbliche di una discoteca. Spesso oberato da debiti che i genitori dovevano pagare, era incline all’alcolismo.    Era un sollievo sapere che non veniva quasi mai a trovarli. La sua presenza risultava insopportabile. Sempre con quell’aria da trionfatore! Arrivava con un mazzo di fiori per la madre, forse rubati nel giardino accanto, guidando una macchina di un qualche cliente. Portava con sé quelle pestilenziali creature, che distruggevano quanto capitava loro sotto tiro nel giardino, nel salone o in cucina, protetti dall’incredibile tolleranza della nonna.