S. P. Garufi Tanteri: Edgar Allan Poe fu la lucida coscienza del Sonno della ragione diventato Incubo: la morte come condizione perenne e globale della scettica e asfissiante società contemporanea

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Salvatore Paolo Garufi Tanteri

dentro la mezzanotte antica di Edgar Allan Poe

Ovvero versione italiana e siciliana del poemetto

IL CORVO

Disegno del pittore russo Vladimir Barkov

I

Dentro una mezzanotte antica

(Versione italiana)

Una  mezzanotte lùgubre, mentre stavo stanco e affranto

su curiosi libri e rari d’una scienza ch’or s’ignora,

m’ero già quasi assopito, che d’un sùbito, d’incanto,

sentii come un lieve batter, batter fuori la dimora.

“Giù qualcuno” mormorai, “chiede asilo pei suoi guai,

                                                     solo questo c’è, oramai!”

Ah! Rammento chiaramente quel dicembre freddo e solo,

quando il tizzo che moriva dava al suolo spettri d’ombre.

Disperavo ormai l’aurora, poiché vano fu il consolo

dei miei libri al gran duolo che per Lèonor m’ingombre,

perla rara e radiante, che risiede in Ciel fra i sai,

                                                    senza nome qui, oramai!

II frusciare vago, inquieto, della seta della tenda

penetravami d’inedito e fantastico terrore.

E così mi ripetevo, per placar del cuor l’orrenda

furia: “Batte alla mia porta un qualsiasi signore,

un nottambulo signore che vorrebbe entrar. Lo sai,

                                                     solo questo c’è, oramai!”

Tosto detti forza al cuore, senza più vile esitare.

“Sire” dissi, “oppur signora, gentil venia a voi s’implori.

M’ero quasi addormentato e sì piano fu il bussare,

con quei colpi tanto tenui, tenui all’uscio, lì di fuori,

che – pensate! – v’udii appena.” Aprii l’uscio e poi guardai:

                                             c’era l’ombra e nulla, ormai!

Spinsi l’ansia mia e lo sguardo riluttante nell’ignoto,
con stupor, sognando sogni che mortal mai fe’ finora.
Ma, il silenzio non die’ nota, tacque fondo, stette immoto…
Sol s’udi una parola, un sussurro: “Leonora!”
E poi l’eco disse murmure: “Leonora!…” E sussultai
                                            per quel nome morto, ormai!

Ritomai nella mia stanza, preda in cuor d’egra malìa,
che riudii più forte ancora quello stran picchiar da fuori.
Dissi: “Dalla mia finestra il rumore provenìa.
Taccia il battere del cuore e si veda che c’è fuori.
Ferma l’animo a scoprire il mistero.” V’esplorai:

                                                 c’era vento e nulla, ormai!

Quando aprii l’imposta entrò, con svolazzo e fruscio muto,
un gran corvo maestoso di lontani e santi scorsi.
Non mi fece un saluto, non ristette un minuto,
come lord oppur signora, sulla porta venne a porsi,
sopra il busto della Pàllade. Si posò sui miei lai
                                                     e non mosse l’ala, mai!

Portò l’animo a sorridere di quel nero uccel lo sguardo,
tanto grave il suo decoro era in quella positura.
“S’hai la testa rasa e calva, non sei vil uccel, vegliardo,
vecchio, torvo migratore della notte che m’oscura,
quale nome t’hanno dato nei sepolcri che tu sai?”

                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

Mi stupì l’udir parlare tale bestia triste e strana,
benché mi suonasse fola la sua unica parola.
Esso è certo che niuna creatura – viva, umana –
vide mai, almen finora, un uccel che se ne vola
sopra un busto in su la porta, messaggero d’altri guai,
                                                  con tal nome strano: Mai!

E restò l’uccel sul busto di quel placido ideale,
rifondendo in tal parola quasi un senso ch’accalora.
Ei non mosse pur un’ala, non emise più vocale,
fino a che io dissi: “Ed ora volerà via con l’aurora,
tal gli amici miei finora, tal la speme mia, oramai!”
                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

Ei mi scosse dal torpore del silenzio con quel suono.
“Di sicuro” dissi, “è questa ogni merce sua e gli basta.
Qualche triste suo patrono, che sciagura rese prono,
ripeteva tal lagnanza, ritomel ch’ancor rimpasta,
per i guai della speranza e ripete sempre ormai
                                                    solo la parola Mai!

Ma, quel Corvo tuttavia m’allettò la fantasia.
Verso il Corvo, l’uscio, il busto, la poltrona spinsi allora.
Così, affosso nel velluto, sul sognar fu la follia,
ch’io pensai qual malaugurio, quello strambo uccel d’allora,
quel sinistro messaggero, quel fantasma triste ormai,
                                                    dir voleva col suo Mai!

Ero in preda ai miei pensieri, ma tacevo al Corvo nero
del cui occhio la favilla m’era in petto cruda stilla.
Divinando sull’incanto, chino il capo, assiso m’ero
sulla stoffa vellutata color viola, dove brilla
della lampada la luce, sul cuscino vuoto ormai,

                                               che non preme più, oramai!

L’aria parve farsi densa, parve farsi fus’incenso.

Udii d’angel la presenza alitare in mia dimora.

Io gridai: “Scende, o dolente, con quegl’angeli l’Immenso!

Tregua sia, tregua e nepente dal pensare a Leonora!

Bevi adesso tal nepente, per la donna e pei tuoi guai!”
                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

“O profeta!” urlai. “Malefico! Tale, o demone od uccello!
Se ti spinse il Tentatore, s’uragan volse tua prora,
desolato ma indomato, fino al mio stregato avello,
ove cresce il cupo Orrore, dimmi il vero, ch’io t’implora!…
Ve, v’è in Gilead ristoro? Se c’è, dillo chiaro, ormai!”
                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

“O profeta!” urlai. “Malefico! Tale, o demone od uccello!
Per quel Cielo che ci chiude, per quel Dio ch’ambo s’adora,
a quest’anima affannata di’ se l’Eden dà suggello
d’abbracciar la vergin santa, detta in Cielo Leonora,
perla rara e radiante, Leonora in Ciel fra i sai?”

                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

“Questa è l’ultima tua frase, corvo o demon!” fe’ lo sdegno.
“Va’, rivola al regno d’ombre, agli anemoni, alle tombe!

La menzogna ch’ora hai detto, piuma nera, non m’è pegno.
Lascia il busto sulla porta! Questo rostro che m’incombe
sul cuor togli! Va’, rivola via dai miei luttuosi guai!”

                                              Disse il Corvo allora: “Mai!”

Ed il Corvo posa ancora, posa pure in quest’istante
sopra il busto della Pàllade, lì, sull’uscio. Ed il colore
di quegl’occhi dà sembiante pari a demone sognante.

Pur la lampada che spande sulla bestia il suo chiarore
forma un’ombra fluttuante sul terreno, cupa assai…

                                                Resta e dice ancora: “Mai!”

II

Dintra na mezzanotti antica

(Versione siciliana)

A mità da notti scura, c’era iu e c’era u scantu
ca mi dava un libru anticu di magia e di fattura.

Mentri m’ava appinnicatu, ampinsata fu l’incantu!
Sentu un còrpu arretu a porta, cosa strana, vista l’ura.
Iu pinsai: “Sutta qualcunu tuppulìa pe sa guai,

                                        sulu chistu c’è, oramai!”

Comu torna chiaru ‘n menti ddru dicèmmuru friddusu,
quannu u focu mi pariva fari n’ùmmira fantasima!
A nuttata nun passava e ddru librazzu curiusu
nun mi dava abbèntu o cori, dopu a morti da na fimmina
ca chiamavunu Leonora, perla rara e beddra assai,

                                      ca nun tòrna cchiù, oramai!

Mancu a tenda aviva paci: si muviva sutt’o vèntu
e mi dava sentimèntu di na cosa assummurusa.
E perciò iva dicènnu, pi calmari u ma spavèntu:

“Tuppulìa arretu a porta nu signuri timurusu
ca si persa dintra a notti, pirchì fìcia tardu assai.

                                        Sulu chistu c’è, oramai!”

E facènnumi curaggiu, e tinènnumi u scantazzu

“Viaggiaturi dintra a notti, t’addumannu scusa” dissi.

“M’ava quasi addummirsciutu. Tròppu picca fu u vuciazzu,

tròppu chianu tuppuliasti, pirchì bonu ti sintissi

e a ma porta ti rapissi…” Poi, rapìi e m’affacciai:

                                         c’era scuru e luci mai!

Vosi taliari megghiu dintra o scuru cchiù ammucciatu,
dintra u funnu di l’incantu, ca mi dava cchi pinsari.
Ma, nun vinna nuddra vuci, ogni scrùsciu era stutatu…
Si sintìvu na parola, anzi un sciatu: Leonora!
A campagna rispunnivu Leonora!…  Ma, pinsai:

                                           “Parra a morti, casumai!”


Poi, turnai dintra a ma stanza, cu u pinseru squartariatu

pi sintiri n’atra vota ddru luntanu tuppuliari.
Dissi: “Forsi da finestra qualchi pazzu m’a chiamatu.
Ora, fazzu forza o cori pi putirimi addunari,
pi sapiri cu chiamava.” Dintra u scuru m’affacciai…
                                           C’era ventu e nenti mai!

E di corpu trasa ‘n casa, svulazzannu a sciusciuneddru,
n’aciddrazzu pinna niura, ca passau comu un nobili.
Senza fari un saluteddru, senza stari un minuteddru,
si nni ivu supra a porta, s’assittau supra un mobili
cu na statua di Minerva; e ddra supra mo truvai
                                           comu l’àngilu do mai.

Pi nun chianciri, schirzai supra certi taliaturi
di l’aceddru misu ‘n posa di baruni o di marchisi:

“Si’ tignusu supra a testa, ma ti senti un gran signuri,
vecchiu aceddru ca vinisti, animali cu pritisi
di parrari pi na tomba, qual è u nomi ca tu c’ài?

                                            U curbacchiu dissa: “Mai!”

Fivurativi chi scantu fu sintiri ca parrava!
Su mi parsa fissarìa ddra parola ca mi dissa,
resta u fattu ca nun c’è (o, almenu, nun pinsava)
cristianazzu ca ristava comu nenti succidissa
cu n’aceddru supra a porta, fermu, niuru e làdiu assai
                                             E ca si chiamava Mai.

U curbacchiu stava fermu supra a testa di Minerva.
Nun muviva mancu l’ali, nun diciva na vocali,
Tranni (u dissi) ddra parola ca mi dava supra i nerva.
Finu a quannu dissi: “Ora, senza ca ma pìgghiu a mali,
si nni va comu l’amici, quannu trasi dintra i guai.”
                                              U curbacchiu dissa: “Mai!”

Sta parola parsi un tronu ca scruscivu dintra a testa.
“Sulu chistu sapi diri” dissi, “e certu ci à ‘nsignau
qualchi cuccu di patruni, pa disgrazia ca mi resta,
po limìiu de sa iòrna, pa disgrazia ca purtau
dintra a casa mia stanotti, po ma chiantu e pe sa guai!

                                              Sempri sta parola: Mai!

U curbacchiu stava ddra e mi vinna a fantasia
di ssittarimicci ‘n facci: ci purtàiu a ma poltrona
e m’anniàiu dintra o villutu, scatinannu a ma pazzia,
ca mi vosi sfìrniciari supra a tinta e supra a bona
Magarìa ca viniva cu ddr’acceddru… e ci ristài.
                                               Chi significava Mai?

Pensu e pensu e pensu ancora, senza diri na parola.
U curbacchiu mi tàliava comu fussa crucifissu.
“Chista para magarìa… e a ma testa si n’abbola!”
assittatu no villutu di na stoffa viola, dissu.
Assittatu ‘n facci o lumi… comu na vota taliài

                                               cu nun torna cchiù, oramai!

L’aria addivintau di cira, c’era focu e fumu scuru.
Mi scinnirru centu arcàngili pi ballarimi davanti.
Vosi diri a vuci ‘i testa: “Vena n’àngilu sicuru
pi purtarimi cunortu contru i lutti e contru i scanti,
pi purtarimi cunortu supra a morta ca pinsai.”

                                                   U curbacchiu dissa: “Mai!”

“Ucca fitenti e ittaturi! Aciddrazzu o diavuluni!
Su ti manna u capuinfernu, su vinisti co sciroccu
chinu e focu e di rancuri, a purtarimi scursuni
dintra o cori, iu ti prèiu, anzi i pedi a tia ti toccu…
dimmi: c’è cunsulazioni pi l’amuri ca pinsai?”

                                                   U curbacchiu dissa: “Mai!”

“Ucca fitenti e ittaturi! Aciddrazzu o diavuluni!
Pa ddru celu ca ni chiuda, po Signuri ca pruteggia,
o ma cori scunsulatu dacci na cunsulazioni…
Leonora torna a mìa, quannu a morti mi surreggia?
Leonora bedda assai, Leonora persa ormai?”

                                                  U curbacchiu dissa: “Mai!”

“Aciddrazzu o ittaturi, nescia fora do ma cori!
Curra a casa ‘n menzu i tombi! Torna o ventu, cu e fantasimi!
Mi dicisti fissarìi! Nun ti cridu, nossignori!
Lassa a testa di Minerva! Stu cuteddru duna spasimi!
Tornitìnni unni a stari! Cca c’è chiantu sulu, ormai!”
                                                     U curbacchiu dissa: “Mai!”

U curbacchiu resta ancora, resta dintra u ma turmentu,
supra a testa di Minerva, assittatu comu un nobili.
Mi talia cu un paru d’occhi, comu un diavulu ca sentu
culurarimi a iùrnata, mentri u lumi supra u mobili
forma n’ùmmira fantasima dintra a stanza de ma guai.
                                                       Mi talia e dìcia: “Mai!”