“Gli occhi di Tyrone Power” di S. P. Garufi Tanteri – in tre puntate un romanzo giallo montato con tecnica quantistica – 1 puntata

La Casa di Franz Kafka a Praga

Salvatore Paolo Garufi Tanteri

GLI OCCHI DI TYRONE POWER

0205/2019

Analisi quantistica di un caso di corruzione

Collana “La Casa del Sogno Antico”
Introduzione

A ben vedere, la realtà che non muta è il meccanismo che crea l’infinito rosario delle vite  – e riguarda tutto: le cose, le piante, gli animali, gli uomini -.

Così, mi figuro la storia e la geografia come dentro una strana scatola, che chiude tutto e dentro la quale tutto diventa una sola cosa.

Dentro la scatola ci trovi le scatole cinesi, poiché dentro ognuna stanno altre scatole, e dentro queste altre ancora… e così via, in un procedere di cui ancora non si vede la fine e neppure, come dire?… una “rottura di scatole”.

Tutte… tutte!… nel meccanismo logico sono identiche al contenitore – e forse per questo Dio è Uno e non può che essere Uno! -.

Eppoi, la scatola-universo che avrà intorno?

Il nulla?

O ci sono altre scatole – Dio mio, chissà quante! -, ovvero altri universi paralleli?

E chi può rispondere?

E’ già problematico capire come è fatto l’Universo in cui viviamo noi. Infatti, da quando la meccanica quantistica ci propone le sue ipotesi sulle particelle sub-atomiche le certezze positiviste sono saltate tutte, come le teste regali dopo una rivoluzione.

Forse, però, mi è andata meglio nel mio mestiere di giornalista.

Dato per “esistenti” alcuni particolari “pensabili, anche se non verificabili”, si potrebbe procedere nelle indagini dando un spiegazione agli “effetti di quei particolari”, cioè a tutte le manifestazioni in relazione fra di loro che tradizionalmente chiamiamo “indizi”.

Lo so, qualcosa del genere già la disse il filosofo Karl Popper, ma non ho mai pensato di essere originale, anche se vi confesso che mi sarebbe piaciuto avere una cattedra universitaria…

Ma, questa è un’altra storia!

Per adesso, leggete come ho potuto ricostruire il tragico avvenimento che portò quasi alla pazzia un mio collega, Lucrezio Caro (naturalmente, è un nome fittizio, come tutti gli altri)…

I

Il trenta maggio, verso le nove del mattino, Lucrezio Caro si trovava seduto sul pavimento, al buio, in una stanza vuota, se si eccettua il telefono accanto a lui.

Il giorno prima aveva fatto tinteggiare le pareti di bianco.

Improvvisamente, sentì uno squillo. Sobbalzò, ma non allungò la mano ad alzare la cornetta.

Si impose di aspettare un po’…

Infatti, il telefono non mandò più alcun segnale.

Passò qualche minuto e ci fu un nuovo squillo. Uno solo, anche questa volta.

A quel punto egli stava per cedere ai nervi.

Si alzò, andò ad accendere la luce e si chinò sul telefono.

“Bene” vaneggiò con l’apparecchio. “Io sarei pronto a ricominciare, ma tu non sei d’accordo, vero?”

Si piegò ancor di più sul telefono, fin quasi ad accoccolarcisi sopra, e aggiunse:

“E’ chiaro! Chi mi ha fatto la festa non si decide ad andar via dalla mia vita.”

Quindi, scattò in piedi e voltò le spalle a quell’infernale strumento.

“Lei non sa che io, ormai, non ce l’ho più, la vita! Da dovunque chiamasse, chiamava inutilmente… Era la morte che chiamava un morto!”

Subito dopo, però, portò le mani nei capelli e sospirò:

“Oh, mio Dio!… Non posso mica continuare così!”

In qualche modo doveva reagire, magari impegnandosi in mansioni pratiche.

Andò ad aprire la porta e si affacciò sulle scale.

“Gianni, Piero!” chiamò. “Siete pronti?”

“Quasi pronti!” urlò Piero, da sotto. “Prima porteremo su la scrivania.”

“Metterò la scrivania… qui!” cominciò a dire Lucrezio, andando a mettersi con le spalle alla finestra chiusa. “Per non guardare il mondo, che è un figlio di puttana troppo forte!”

E, sragionando così, aprì le imposte, finendo proprio per guardarlo, il mondo.

Vide i grigi condomini sotto l’Etna e sentì il rumore dell’ingorgo al semaforo tra la circonvallazione e la via che scende fino a piazza Mengoni.

“Lo so che sarà una cosa lunga…” sospirò. “Se quel telefono non la smette di sputarmi in faccia i suoi squilli!”

Appoggiò bene le braccia sul davanzale.

Aveva voglia di accendersi una sigaretta; ma, aveva pure deciso di smettere di fumare.

“La finestra è meglio del telefono” pensò. “Sei tu che la apri e, se ti va, sei tu a sputare sugli altri. La finestra ti aiuta. La voce della strada non ha ipocrisie. Comunica una canaglieria chiara, esibita, dalla quale ci si può difendere. Non ci si dovrebbe mai scordare della strada! Bisogna custodire intatta la memoria della sua volgarità, per non averne nostalgia.”

Bussarono alla porta. Si voltò e vide Gianni e Piero che portavano la scrivania.

“Questa dove va messa?” chiese Gianni.

“Proprio dove mi trovo.”

“Non creerà impaccio a chi entra?”

“Meglio… Non mi piacciono le visite!”

Gianni rise. Invece, Piero non fece una piega.

“Non ha tutti i torti” commentò Gianni, mentre sistemavano la scrivania. “Vanno in giro certi scocciatori!”

“Ora le salgo la poltroncina” aggiunse Piero. “Così, potrà sedersi.”

“Questa è una buona notizia” disse Lucrezio. “Infatti, devo ricominciare a muovermi.”

“E come? Con la poltrona?” scherzò Gianni.

“Appunto. Io mi muovo sedendomi a scrivere… Faccio il giornalista.”

“Oh, buon per lei, allora!”

Pensò a Ottinetti, a quando aveva ricominciato a scrivere su L’Attenzione in tandem con Luisa. Era il responsabile della pagina di cronaca giudiziaria. L’esplosione di tangentopoli aveva incredibilmente aumentato il pubblico appassionato del giornalismo di inchiesta. Le inserzioni pubblicitarie, quindi, erano diventate numerose e importanti. Aveva davanti una carriera ricca… magari presto sarebbe passato a una testata nazionale… in ogni caso, aveva messo da parte ogni velleità letteraria.

“Lascia queste imbecillità a Giorgio!” aveva detto Luisa, contenta dei primi guadagni.

Questa frase era stata la fine dell’idea di scrivere biografie di dimenticati eroi… meglio i politici… proprio quei bei politici di paese, ignoranti e mafiosi… a cui aveva accennato il direttore Ottinetti.

Per fortuna, il matrimonio con Elisa si era liquefatto senza troppi drammi, poiché non c’erano figli… anche se… a nove mesi appena dalla loro separazione… Elisa era diventata mamma, grazie a un giovanissimo praticante dello studio legale Artieri e soci, professore universitario di diritto civile all’Università.

“Buon per lei, le dicevo!” gli ripete’ Gianni, forse per la terza volta.

“Buon per me, cosa?” chiese Lucrezio. “Ah, già! Si riferisce al mio mestiere… Come no… considerato che non ho una lira!”

Piero scosse la testa e Gianni rise.

Poi, uscirono a prendere le altre cose.

Quando fu solo, accarezzò il ripiano della scrivania. Gli venne subito l’istinto di cercare qualcosa in tasca.

“’Ffanculo a quando ho smesso di fumare!” mormorò.

Saltò a sedere sulla scrivania e guardò l’altra porta della stanza, oltre la quale aveva accatastato tutto ciò che gli ricordava Luisa.

“Prima fumavo anche troppo…” pensò. “Buon Dio! Quanto della sua presenza c’è ancora, in questa casa! Tolti i mobili, quante abitudini debbo ancora scartavetrare per farla andar via, quella donna!”

Aveva scelto il nuovo mobilio secondo il criterio della mera utilità. Ora, le cose per lui dovevano essere materia pura e semplice, senza incrostazioni affettive.

E niente libri!

Diffidava dei libri. Se uno ci ha a che fare in maniera ingenua, i libri rischiano d’essere una fregatura. Contengono il veleno del passato, hanno idee.

I pensieri degli altri sono madri molto soffocanti. Ti attossicano dentro, col loro spandersi lieve, quasi inavvertito. La tua personalità diventa una cera docile sotto le loro dita.

E’ più salutare non averci a che fare, coi libri!

Si alzò impazientemente e tornò ad affacciarsi alla porta che dava sulle scale.

“Gianni, Piero!” chiamò.

Non gli arrivò alcuna risposta, perciò chiuse la porta e tornò accanto alla scrivania.

Era, quindi, un uomo nuovo e chi si divertiva a telefonargli, chi era riuscito a rovinarlo, sarebbe rimasto deluso. Costui telefonava a uno che non c’era più.

Diciamo che Lucrezio aveva realizzato una specie nuova e contraria di metempsicosi. Anziché far trasmigrare la sua anima da un corpo all’altro, aveva portato il suo corpo da un’anima all’altra.

In fondo, pensava che fosse una pratica di tutti… più o meno… quando variano le circostanze della vita.

Almeno lui, lo ammetteva, aveva sempre proceduto così, fin dai lontani tempi del collegio, quando se ne stava isolato da tutti.

Adattava, man mano, la sua personalità a ciò che lo circondava.

Era, in fin dei conti, una maniera di modellare il suo Io su idee astratte, tirando fuori gli archetipi dai libri che leggeva.

Egli era il figlio del suo pensiero.

Era normale, quindi, che quel giorno, vedendola malriuscita, pensasse di buttare giù una fabbrica di se stesso per farne un’altra…

Ci fu un tocco discreto alla porta. Poi, Giorgio Fano, il suo amico critico d’arte, entrò e venne ad abbracciarlo.

“Come ti va?” gli chiese.

“D’incanto! Sono quasi pronto per il suicidio.”

“Per quello c’è sempre tempo. Ho mandato i tuoi operai a comprarti un minimo di cartoleria.”

“Ecco perché non rispondevano! Grazie, comunque! Mi ero scordato di queste importanti sciocchezze.”

“Spero che nella lista che ho fatto ci sia tutto. Sei proprio malato, nevvero?”

“Meglio dire finito… Sono già morto!”

“Che progetti ha il cadavere?”

“Cinque o sei articoli… Aspettano da troppo tempo.”

Giorgio si portò una mano sui capelli, ravviandoseli all’indietro, e andò a guardare la parete bianca accanto alla finestra.

“La sistemeremo qui!” disse.

“Che cosa?”

“Per ora, la tua tela bianca.”

“Quella che è giù, nel furgone degli operai?”

“E se anche fosse?”

“Non puoi! Quella sembra una tela bianca, ma non lo è!”

Giorgio sghignazzò.

“Come no?… E’ una tela rossa, che s’è vestita da sposa!”

“Essa per me ha un significato preciso” continuò Lucrezio. “E’ ciò che vorrei essere… il nulla, almeno, squaglierebbe pure il ricordo di Luisa!”

Si fermò per guardare il suo amico, quasi con sfida.

“Tocca a me, perciò,  stabilire dove appenderla” concluse Lucrezio.

Giorgio gli diede un buffetto sulla guancia. Era l’unico, forse, che poteva permetterselo: lo sapeva e ne approfittava.

“Non parlare a vanvera!” disse. “Il critico d’arte sono io!”

Andò a sedersi sul davanzale della finestra. Era un suo gesto abituale e per Lucrezio un gran motivo d’invidia. Soffriva di vertigini e neanche in quei momenti disperati sarebbe stato in grado di fare la stessa cosa.

“Per cui faremo un cambio” continuò Giorgio. “Il tuo ritratto è un altro… Ce l’ho a casa e te lo farò arrivare domani. Per intanto, il posto è deciso: qui!”

“Che ne sai dei miei gusti?”

“Tutto! Eppoi, che m’importa dei tuoi gusti?… Piuttosto, acchiappa!”

Tirò fuori dalla tasca interna della giacca una penna dall’aria costosa e gliela porse.

“Bella!” disse Lucrezio, prendendo la penna. “Ma, cominci a farmi venire il mal di testa!”

Gianni entrò, portando due poltroncine. Lo seguiva Piero con una poltroncina e la sua tela bianca.

Lucrezio mise la penna in un cassetto della scrivania.

“Eccoci qua” disse Gianni. E, rivolto a Giorgio:

“Ho comprato ciò che mi ha chiesto.”

“Facciamo dopo i conti” disse Giorgio. Poi, tornando a Lucrezio:

“Mi costi più di una puttana d’alto bordo!”

E, ancora, di nuovo a Gianni:

“Hai comprato pure il vino?”

“E’ la prima cosa che abbiamo comprato” intervenne Piero.

“Complimenti!” esclamò Giorgio e scese dal davanzale. “Sbrigatevi a salire il tutto.”

I due posarono poltroncine e tela e uscirono, lasciando la porta aperta.

Lucrezio andò a prendere una poltroncina e l’accostò alla parete. Mise la tela bianca nel punto in cui Giorgio aveva deciso di appenderla. Portò l’altra poltroncina dietro la scrivania e si sedette.

“Fammi fumare” disse a Giorgio.

“Sei pazzo, amico?… Una volta decisi, i cambiamenti sono irreversibili. Fumo io, invece, che sono rimasto me stesso!”

Giorgio prese la poltroncina accanto alla parete e la piazzò davanti alla scrivania. Sedette comodamente, tirò fuori una sigaretta e accese. Aveva un’espressione beata, mentre gli buttava il fumo addosso.

“Per essere un vero cambiamento,  noi non dovremmo restare amici” gli disse Lucrezio.

“Ti lamenti pure! Sono l’unico che ti è vicino, mentre il mondo attorno a te va a pezzi!”

“Perché lo fai?”

“Perché sono invidioso. E’ chiaro!”

“Pensavo peggio.”

“Tu riesci a fare a meno degli altri ed io no.”

Gianni e Piero entrarono, portando un tavolo sul quale era posata una scatola di cartone e una macchina per scrivere portatile.

Lucrezio si alzò e prese il telefono.

“Mettete qua” dispose.

Poggiò, poi, il telefono sul tavolo.

Guardò dentro la scatola e tirò fuori una bottiglia di vino e una pila di bicchieri di plastica.

“Beviamo?” chiese.

“Certo!” ribatté Giorgio. “Io distribuisco i bicchieri.”

“A che cosa brindiamo?” chiese ancora Lucrezio.

“Al neonato!” rispose Giorgio, con uno dei suoi abituali nonsense. “Speriamo che venga su bene.”

“Quale neonato?” s’informò Piero.

“Ho avuto un figlio” fece Giorgio. “Purtroppo, è illegittimo!”

Bevvero e poi Gianni disse:

“Se non c’è altro… andremmo via!”

“Devo pagarvi” disse Lucrezio.

“Sarebbero centomila lire.”

“Pagalo tu, Giorgio! In questi giorni… io non navigo nell’oro.”

“Come volevasi dimostrare!” esclamò lui e, rivolto a Gianni, aggiunse:

“Quanto hai speso?”

“Con le centomila lire del dottor Caro, sarebbero quattrocentosettantamila.”

“Allora, le cinquecentomila che vi ho già date bastano… Tenete pure il resto.”

“Grazie.”

E, poi, si rivolse a Lucrezio:

“Ha bisogno d’altro aiuto?”

“No” rispose Giorgio, per l’amico. “Anzi, sì!… Vai a prendere un martello e dei chiodi.”

“Giù, ho la cassetta degli attrezzi.”

Gianni uscì e Giorgio riempì di nuovo il bicchiere di Piero.

“Ne vuoi anche tu?” chiese a Lucrezio, mentre versava il vino anche per sé.

“No.”

“Non vuoi annegare i dispiaceri nell’alcol?”

“No.”

“Peggio per te… Comunque, sempre alla salute del bambino!”

Bevve e posò il bicchiere vuoto sulla scrivania.

In quel momento, Gianni tornò con la cassetta degli attrezzi.

“Appendila lì, quella tela” gli ordinò Giorgio, indicando la parete.

Gianni prese una sedia, vi salì sopra, appoggiò il chiodo in un punto del muro e si voltò, per chiedere l’approvazione.

“Una decina di centimetri più in basso” pignoleggiò Giorgio, sogguardando come fanno i critici durante gli allestimenti delle mostre.

Gianni eseguì e si voltò di nuovo. Giorgio assentì, per cui il chiodo fu piantato.

“Ora è tutto a posto?” chiese Gianni, dopo avere appeso il quadro.

“Tutto a posto, grazie e arrivederci!” disse Lucrezio, con un tono un po’ insofferente.

“Arrivederci” disse pure Gianni.

“Arrivederci” fece eco Piero.

“Perfetto” concluse Giorgio, accompagnandoli alla porta. “Ci vediamo… ragazzi!”

Lucrezio si sentiva stanco ed avrebbe preferito restare solo. Ma Giorgio era il suo migliore amico. Qualcosa, quindi, gliela doveva.

“E così hai già stabilito la tua presenza anche nella mia nuova vita” gli disse.

“Lo dici perché ho scelto il posto per il tuo ritratto?”

“C’è di più.”

Tirò fuori dalla scatola tutta la cancelleria che Giorgio gli aveva comprato e la sparpagliò sulla scrivania.

“Usando queste cose, mi ricorderò di te, capisci?… Io, invece, vorrei avere a che fare soltanto con quel fottuto telefono!”

“E perché?”

“E’ un mio nemico… Quindi, la sua presenza mi è necessaria, se è vero che l’odio fortifica… mentre tu mi fai dimenticare l’odio e, perciò, mi indebolisci!… Nel mio progetto tu non dovresti esistere.”

“Ne sono lusingato.”

“Cosa buona per te!”

Giorgio prese un foglio, lo infilò nel rullo della macchina per scrivere e batté un tasto. Poi, parve pentirsi e chiese:

“Preferiresti avere il computer?”

“Che me ne faccio, se il lavoro non ce l’ho più?”

“E gli articoli che devi scrivere?”

“Tentativi! Basta la portatile, per quella roba. Magari, se mi affideranno qualche collaborazione, ricomincio a tutto campo con un computer nuovo di zecca.”

“Pensa a star bene, allora.”

“Una parola! Sarei già contento se riuscissi a dormire.”

“Ed anche a mangiare, no?… Ci nuoti, dentro i pantaloni!”

“Già… Anche a mangiare!”

Giorgio andò vicino alla finestra. Accese una sigaretta; ma, dopo poche boccate la buttò via, direttamente sulla strada.

Appariva nervoso.

“Ascolta, Lucrezio…” cominciò a dire.

Lucrezio lo guardò. Giorgio si portò le mani sulla testa, come per raccogliere le idee. Poi, lasciò perdere e, con un sospiro, disse:

“Niente!… Io ti starò sempre vicino.”

Squillò il telefono.

“Non toccarlo!” urlò Lucrezio.

Ma, subito, costringendosi ad un maggior controllo, aggiunse:

“Vedrai, che ora starà zitto.”

Invece, gli squilli continuarono, finché Lucrezio non si precipitò a rispondere.

“Pronto!”

All’altro capo del filo la comunicazione venne subito chiusa.

Quando riattaccò, Lucrezio doveva avere un’aria distrutta.

Giorgio sbottò:

“Ma che razza d’imbecille dev’essere chi si diverte così?”

“E’ già successo molte volte.”

“Perché non stacchi il telefono?”

“Non ci riesco… Vai via, Giorgio… Vorrei scrivere.”

“Che amico sarei, se me ne andassi?”

“Il migliore, perché voglio imparare a star solo. Se oggi soffro è perché non riesco a stare solo… con Luisa ho perso l’allenamento.”

“Basta. Usciamo da qui.”

“Se imparassimo a stare soli, potremmo essere come Dio! Magari all’immortalità no, ma… cazzo!… all’invulnerabilità sì!… Almeno all’invulnerabilità ci arriveremmo!”

“Usciamo, per favore.”

“Non puoi farti tenere in pugno dagli altri!… Non è ammissibile che ci si debba sentire vivi soltanto se si ha vicino la propria donna!”

“Sono riflessioni sceme, Lucrezio! Usciamo.”

“Ero in collegio… tutti eravamo contro tutti… Finalmente, avevo imparato a fare a meno di tutti. Poi, è bastata Luisa per infognarmi di nuovo!”

“Finiscila! Usciamo.”

“Non posso. Devo ricostruire il mondo.”

“Tu non stai ricostruendo nulla! Hai solo messo dei mobili in una stanza.”

“Sarà pure come dici tu…”

“Va bene, quindi… Usciamo!”

“E dove andiamo?”

“Ti porto in una pizzeria.”

“Dimmi che c’è di meglio, a questo mondo!”