Michele Prisco (Premio Strega e Premio Campiello) – di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Michele Prisco scrittore figurativo

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Tutto cominciò durante il mio primo anno d’insegnamento all’Istituto Professionale per il Turismo “Graziani” di Sorrento. In una stanzetta buia c’erano alcune centinaia di libri, estranei l’uno all’altro. Soltanto la collega di geografia li vedeva come un insieme tale da essere chiamato biblioteca. In lei, però, l’aspetto femminile prevaleva sul rigore della studiosa ed io, povero siciliano catapultato lì dalle Langhe cuneesi, dovevo pur trovare un’amicizia. Prima regola, cambiando città: rompere il cerchio della solitudine.

Perciò, divisi le mie giornate in tre parti perfettamente uguali: di mattina esercitavo le mie capacità affabulatorie con la collega; di pomeriggio leggevo letteratura e saggistica d’arte; di sera chiacchieravo con misconosciuti artisti nella galleria La scogliera di Vico Equense (città dove avevo trovato casa).

E fu di sera, appunto, che conobbi gli scrittori Michele Prisco e Mario Pomilio. Peccato che negli odierni convegni letterari non vengono quasi mai ricordati. Non capisco proprio con quali criteri in queste occasioni si danno i giudizi sulle opere di narrativa. Penso che, sia Prisco che Pomilio, nella tecnica e nei contenuti, ne vogliono dieci di quelli che nelle antologie scolastiche vanno per la maggiore.

Per fortuna, a quei tempi (era il 1979) godevano di una certa fama, almeno in Penisola Sorrentina. Ambedue avevano vinto lo Strega e qualche altro premio importante ed ambedue erano continuamente coinvolti negli innumerevoli incontri artistico-letterari che punteggiavano le domeniche campane.

Il mio amico gallerista, Antonio Carrano, si premurò a presentarmi a loro con parole – bontà sua! – molto lusinghiere sul mio acume di critico d’arte e, a differenza di quel che mi aspettavo, ciò non costituì un cattivo viatico. Non li trovai, né scostanti, né oracolari. Ricordo che espressi perfino qualche perplessità sulla trama di un romanzo di Pomilio, L’uccello nella cupola, e questi, non solo non se ne risentì, ma mi sollecitò ad essere più preciso, tanto che che quella sera parlai soltanto io.

In seguito, invece, ebbi una frequentazione intensa con Michele Prisco, che aveva una villetta proprio a Vico Equense (mentre Pomilio abitava a Napoli). Debbo dire che la signorilità di Prisco era tale che, negli spostamenti da una conferenza ad un premio di pittura (dove ambedue eravamo giurati), egli non provava scuorno a viaggiare nella mia rimpiantissima Renault 4 azzurra e, soprattutto, non mostrava paura di fronte alla mia guida.

Fu durante quegli spostamenti che ci scambiammo delle opinioni sulla maniera visiva con cui egli costruiva il racconto. La sua scrittura, infatti, era una successione di ambientazioni, dove il paesaggio dialogava con l’anima dei personaggi.

“Sono cose che potrebbe proporre un pittore” gli dissi.

“E’ vero” rispose. “Perciò  chiederò alla Rizzoli di affidare a Vincenzo Stinga l’illustrazione di copertina di Le parole del silenzio.

Si riferiva al romanzo a cui stava lavorando, ambientato nella Penisola Sorrentina.

“Chi è Vincenzo Stinga?” chiesi.

“Un pittore di Sorrento.”

“Non è un nome molto conosciuto.”

“E’ un mio amico.”

Quando nel 1981 uscì il libro, sulla sovracoperta c’era stampato un acquerello di Stinga. In quell’immagine, allora, ritrovai tutta la morbida, femminea, inquietante sensibilità della prosa di Prisco. Sulla facciata rosa slavato di una casa si apriva una finestra dalle persiane verdi, contornata da un violaceo glicine rampicante. Oltre la finestra s’intravvedeva una stanza, con un lampadario ricamato, un vaso di fiori, una sedia ed una scrivania pronta ad accogliere la scrittura dei più reconditi segreti dell’anima.

Il romanzo (o meglio, la sua atmosfera) era stato sintetizzato in un quadro. Probabilmente, anche in questa occasione Manzoni avrebbe usato la definizione che aveva dato dei disegni di Francesco Gonin nell’edizione del ’40 de I promessi sposa: si trattava di una traduzione, più che di un’illustrazione.

Ovviamente, la domenica in cui Prisco mi accennò alla sua intenzione non potevo certo immaginare un tale risultato. Mi limitai a cogliere lo stimolo e la mattina dopo lo riversai sulla bella collega di geografia.

“Paul Klee” ella commentò. “Ne abbiamo una copia in biblioteca.”

Si allontanò di qualche passo e tornò con un libro in edizione economica. Era un Don Chisciotte illustrato da Paul Klee. Nulla poteva essere chiara rappresentazione dei sentimenti che animavano le azioni del cavaliere dalla triste figura, più di quei segni sottili, che s’intrecciavano a costruire una figura magra, faticosamente emergente dall’opacità del foglio bianco.

Come sarebbe poi sucesso al semisconosciuto Stinga ed era già successo a Gonin, al notissimo Klee era capitata l’occasione di realizzare un’opera parallela a quella di uno scrittore. I due linguaggi, uno accanto all’altro, risultavano straordinariamente vicini ed, al contempo, autonomi.

Dopo ventinove anni, il ricordo delle fattezze della collega si è fatto vago e non saprei dire se, la nostra, è stata un’amicizia degna di ricordo.Fu, però, l’inizio di un’avventura intellettuale, che ad intermittenza mi ha portato a studiare ed a scrivere digressioni su espressioni figurative solitamente trascurate dai critici.

In ogni caso, mi sono divertito. Nulla mi ha divertito di più dei paesaggi nuovi. Anche con le donne, se ci penso, è andata così. Ci ho provato in tutti i modi, ad arrivare ad un qualche equilibrio. Alla fine, sono sempre rimasto con un pugno di mosche in mano, soffrendoci molto. Finché non ho capito che il traguardo era proprio nel provarci. Non sei un buon figlio di Dio se non ti costruisci da solo e non c’è nulla da costruire se non hai davanti un futuro. Provarci significa proprio questo: avere un futuro. L’equilibrio sta lì.

Permangono vivissimi, perciò, i disegni di Klee, che mi introdussero al vastissimo paesaggio dell’illustrazione. Da quel giorno, infatti, cominciai a collezionare disegni nati per i libri (con qualche deviazione nelle più visitate contrade delle stampe storiche), cercandovi il segno di un’arte autonoma, quasi un post scriptum alla storia dell’arte.